Corriere della Sera - La Lettura
IGNORATE ME, LEGGETE VOLPONI
Perché gli insegnanti nelle scuole superiori invitano a parlare gli scrittori, quando non riescono con il programma ad arrivare fino a Caproni (vedi il recente esame di maturità)? È una domanda legittima, soprattutto se si vede nell’insegnamento dell’italiano non solo il fornire un metodo critico, ma anche far scoprire autori che non possono essere lasciati in ombra. Ribadisco la domanda: è necessario che gli studenti incontrino Paolin, Dentello, Porpora, Dadati o Benni o Saviano e poi non abbiano idea della bellezza di un libro come Le mosche del capitale di Volponi? La figura dell’«autore invitato a scuola» assume una funzione vicaria rispetto all’insegnamento; viene chiamato con la speranza che parli di quei libri «fuori programma». Quindi se un professore mi dicesse: «Caro Paolin, scusami, avevo pensato di parlare del tuo libro, ma ho pensato di usare quel tempo per studiare Parise», io a quel prof direi che ha fatto il suo dovere di insegnante, perché credo che la scuola debba tornare a essere sé stessa, senza confondere il proprio ruolo con quello di altre istituzioni. È incredibile, infatti, che non esistano collaborazioni continue e concrete tra scuole e biblioteche, che potrebbero organizzare corsi e incontri su temi che a scuola non si riescono a trattare con profondità; mi pare insensato che i professori non costruiscano rapporti stretti con le librerie, in modo che gli alunni scoprano che non si tratta di un semplice negozio dove comprare i libri delle vacanze. È errato parlare di crisi della scuola, delle librerie, delle biblioteche, come se fossero monadi. L’autore che riempie un’aula magna di un istituto non è la soluzione, ma solo il tappabuchi di una disastrosa mancanza, quella di una concreta politica culturale. Questo è detto non tanto dallo scrittore che sono, quanto e soprattutto dall’alunno che sono stato.