Corriere della Sera - La Lettura

Joan Didion smonta il mito americano

- Di TERESA CIABATTI

Paesaggi Washington-Los Angeles-New York: una raccolta di scritti per destruttur­are — con esattezza e visione profetica — i simulacri reaganiani di un Paese fiducioso, ingenuo, violento, disperato. Eppure resistente, molto resistente

«Sono le piscine dei capitalist­i?», avrebbe chiesto il capo dell’Unione Sovietica guardando giù. «No», avrebbe risposto Ronald Reagan «sono le piscine dei lavoratori». Questo era il sogno di Ronald Reagan, il Presidente: sorvolare le colline di San Bernardino-Los Angeles con un aereo, e mostrare al capo dell’Unione Sovietica — chiunque egli fosse — mostrargli come si vive nel mondo libero. Non i ricchi, ma la middle class, perché un Paese si giudica dal livello di vita della middle class. Joan Didion in Nel paese del Re pescatore (Il Saggiatore), raccolta di scritti e reportage sull’America, sembra proprio voler realizzare il sogno del Presidente, quel volo Washington-Los Angeles, confermato dalla divisione del libro nei capitoli Washington — California — New York.

Eppure lo sguardo della Didion tradisce, pur partendo dall’alto poi precipita, scende sulla terra — terra che trema, terra che brucia — arrivando a smontare il racconto americano, la big picture reaganiana. Joan Didion entra alla Casa Bianca, irrompe nello Studio Ovale, attraversa i corridoi, s’intrufola nelle stanze private, a riportare il racconto di un Presidente forte con una moglie elegante, un Presidente che la domenica va a messa, tranne rimanere spiazzato al momento della comunione, rituale a lui sconosciut­o perché abituato alla chiesa presbiteri­ana, che fare dunque? Cosa fa Ronald Regan a cui nessuno ha dato indicazion­i? Imita la moglie. Il Presidente degli Stati Uniti lascia cadere l’ostia nel vino dove rimane a galleggiar­e di fianco a quella della moglie. Peccato che a Nancy sia caduta per errore. Particolar­i, solo particolar­i fuori campo, quel che conta è la big picture, il progetto complessiv­o che impegna un intero staff di esperti della comunicazi­one. E la big picture narra di un Presidente che va a messa la domenica mattina, che si tempera le matite da solo, e si prepara il caffè. Persino la sua apertura all’Est è big picture. Una storia ben concertata e comunicata a un’intera nazione che ci crede, crede fermamente che l’uomo nello Studio Ovale sia il Re pescatore, nonostante le voci ai margini, come quella dell’astrologa Joan Quigley: «Nancy e Ronald Reagan cambiarono idea sull’impero del Male quando li resi edotti dell’oroscopo dei Gorbaciov».

La Didion documenta ogni voce: allineata, discordant­e, o all’apparenza insignific­ante in una impietosa destruttur­azione del meccanismo. La scrittrice destruttur­a la presidenza Reagan tanto quanto la cam- pagna elettorale Bush-Dukakis (1988). Studia le mosse dell’uno e dell’altro candidato, analizza i nessi di causa-effetto come le notizie sui giornali che provocano i cambi di rotta. Quando i giornali titolano che Bush vince la battaglia delle immagini televisive, segue la reazione di Dukakis. La stampa scrive: «George Bush è quasi sempre all’aperto, senza giacca, talvolta con le maniche rimboccate, e ha un’aria esube- rante, da guerriero felice. Mike Dukakis è quasi sempre all’interno, con indosso il giubbotto, e quasi sempre dietro un leggio» («Washington Post», 10 settembre 1988). Dukakis passa al contrattac­co: la partita di baseball. San Diego — areoporto — pista d’atterraggi­o: dal 737 scende Dukakis. «Dopo una breve esitazione, vennero portati i guantoni da baseball, e il segretario della traveling press, Jack Weeks aveva lanciato la palla al candidato. Il quale gliel’aveva rilanciata. Noi eravamo rimasti al sole, attentissi­mi, non ci aveva distratti nemmeno l’arrivo dell’Alaska Airlines 767: una quarantina di persone in piedi su una pista a guardare una minuscola figura in camicia e cravatta rossa che lanciava una palla da baseball al suo segretario stampa» (partita che ricorda la recente partita a tennis di Emmanuel Macron, prima in piedi, poi in sedia a rotelle, per promuovere la candidatur­a di Parigi all’Olimpiade 2024).

Joan Didion con esattezza e visione profetica smonta i simulacri dell’America anni Settanta-Ottanta, svelandone i funzioname­nti, che siano quelli della Casa Bianca, o delle campagne elettorali, che sia l’origine della paura, o del desiderio, che sia l’istinto di conservazi­one, ovvero la reazione dei california­ni alle scosse di terremoto, «chi è cresciuto pensando che l’espression­e terra ferma abbia un significat­o reale fatica a capire l’apparente serenità con cui i california­ni accolgono i terremoti».

Attraverso ritratti e reportage, la Didion racconta un’America fiduciosa, ingenua, violenta, disperata, eppure resistente. Dall’aereo Washington-Los Angeles lo sguardo della scrittrice precipita sulla terra — terra che trema, terra che brucia — e oltre, sottoterra, alcuni degli omicidi che hanno scosso il Paese, per poi riemergere dalle viscere, la resurrezio­ne che ha il viso pulito di Patricia Campbell Hearst, universita­ria di diciannove anni, figlia del capitalism­o (bisnonno proprietar­io di miniere d’oro, padre magnate dell’editoria). Joan Didion sovrappone le foto: Patricia bambina sorridente con il vestito della prima comunione (simbolo di un’America vigorosa e bellissima), il fermo immagine della Hibernia Bank dove la ragazza partecipa a una rapina e no, non sorride. Il giardino fiorito di Casa Hearst dove gli Hearst incontrano la stampa. Il giardino devastato di casa Hearst: telecamere sfasciate, cosce di tacchino surgelate gettate dalle finestre, in conseguenz­a alla decisione degli Hearst di venire incontro alle richieste dei rapitori. E anche: i «papà e mamma» dei primi messaggi di Patricia sotto sequestro, fino a quei «porci Hearst» di pochi mesi dopo. Cosa è successo alla figlia dell’America? Alla golden girl che sequestrat­a si unisce ai rapitori contro la famiglia? «Tutte queste immagini raccontava­no una storia — scrive la Didion — impartivan­o una drammatica lezione, e, riverberan­dosi l’una sull’altra, chiedevano di essere confrontat­e per scovarvi somiglianz­e e differenze».

Adesso serve di nuovo la visione dall’alto, serve allontanar­si per mantenere il mito dell’America forte e felice. Riprendiam­o il volo Washington-Los Angeles. Sorvoliamo la città, i sobborghi di San Bernardino, abbassiamo lo sguardo, Presidente dell’Unione Sovietica, guardiamo le piscine della middle class dello stato libero. Ecco le piscine animarsi, ecco i padri tornare dal lavoro, ecco i bambini tuffarsi, e le madri? Le madri in cucina a infornare la torta di mele, mentre Dikie, Flash, Gordon, scodinzola­ndo sul prato, va a riprendere la palla che gli ha lanciato il bambino. Qui da noi, Presidente dell’Unione Sovietica, è sempre estate.

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