Corriere della Sera - La Lettura
Non ogni pizza si mangia Qualcuna arriva in faccia
Vocabolario Si tratta di uno dei termini della lingua italiana più diffusi nel mondo. La prima attestazione precede l’anno Mille: variabili i significati, come lo sono le sue interpretazioni gastronomiche
Qualche settimana fa i giornali riportavano la notizia della morte di Sam Panopoulos, l’inventore della pizza hawaiana: pomodoro, formaggio, prosciutto e ananas. Creata nel 1962 in un ristorante canadese, l’hawaiana è tra le pizze più diffuse nei menu di tutto il mondo. E anche tra le più detestate, se è vero che lo scorso anno il presidente dell’Islanda propose addirittura di vietarla per legge. Una battuta, ovviamente, a cui però rispose (difendendo la «deliziosa invenzione dell’Ontario») anche il premier del Canada, Justin Trudeau. L’aneddoto rende bene la fortuna planetaria di una pietanza — e di una parola — nate in Italia tanto tempo fa.
La storia della parola, raccontata da Paolo D’Achille nel suo Che pizza! (Il Mulino), è cominciata prima dell’anno Mille. Si deve probabilmente leggere come «pizze», infatti, la grafia pititie che si trova in un documento napoletano del 966. E di pizze si parla già in un contratto del 997 conservato a Gaeta. Ma cosa s’intendesse all’epoca per pizza è impossibile saperlo: tantissimi sono i diversi significati che nei secoli la parola ha assunto nelle
varie tradizioni gastronomiche italiane. Basti dire che ancora nel celebre ricettario dell’Artusi ( La scienza in cucina, prima edizione 1891) la Pizza alla napoleta
na è un dolce con crema di ricotta e mandorle tritate.
Le prime descrizioni della pizza alla napoletana come la intendiamo oggi risalgono, in realtà, all’inizio dell’Ottocento. E poco dopo arrivano anche le prime rivendicazioni della napoletanità della parola: «La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca … perché è una specialità dei napoletani», scrive Emmanuele Rocco in un volume sugli Usi e costumi di
Napoli (1858). La pizza sembra diventare d’improvviso italiana nel 1889. Quando, secondo la tradizione, il cuoco napoletano Raffaele Esposito crea — in onore della prima regina d’Italia — la tricolore pizza margherita: pomodoro, mozzarella e basilico.
Ma nella storia dell’italiano ci sono anche molte pizze non commestibili. Si tratta, come ricorda D’Achille, dei «tanti usi figurati del termine, dovuti per lo più a estensioni metaforiche» e sviluppati soprattutto «nelle due città in cui la pizza è nata (Napoli) o si è precocemente diffusa (Roma)». Significati che contribuiscono a rendere la storia della parola tutt’altro che pizzosa. A partire dai quattrocenteschi
Ricordi dello scrittore napoletano Loise De Rosa, in cui — per contestare il libero arbitrio — si immagina il crollo di una casa che trasforma il malcapitato in «una piccza», cioè lo riduce (un po’ come in un cartone animato) a una forma piatta.
Riprendendo lo stesso significato, il romano Peresio scriveva nel Seicento: «De te, co’ un pugno, fo una pizza». D’altronde è proprio da Roma che si diffonde il significato di pizza come schiaffo, ceffone. « Te pijoa pizze a due a due finché non diventano dispari !», minacciava il commissario ErMonnezza interpretato daThomas Mi liane doppiato da Ferruccio Amendola. A proposito di film, nel gergo del cinema le pizze sono — o almeno erano — le bobine di pellicola, mentre nel gergo teatrale per pizza si intendeva il pubblico stipato (schiacciato, appunto) nella sala.
Proprio come quello che oggi gremisce le pizzerie sparse in tutto il mondo. Da diversi anni, ormai, pizza è una delle parole italiane di più larga fortuna internazionale. Attestata in almeno 60 lingue diverse, è ritenuta — dai cittadini di 13 Paesi dell’Unione Europea — «la parola italiana culturalmente più importante». La pàiz
za la chiamava il comico Paolantoni nei panni del pizzaiolo Ciro ( Ciàiro). Ma già nel 1985, Andy Luotto cantava — insieme alla band di Renzo Arbore — Eat la italian pizza pie. Forse per esorcizzare la
Pizza connection che pochi anni prima aveva legato quel nome a una grande inchiesta americana sul traffico di droga. E pensare che un secolo prima Matilde Serao considerava ancora la pizza qualcosa impossibile da esportare: «La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione».