Corriere della Sera - La Lettura
Il magazzino sul naviglio conserva le rime di 50 anni fa
Maurizio Cucchi propone la prima raccolta, composta fra il 1963 e il 1969. La abbina a un componimento di adesso, incentrato su una vecchia casa diventata deposito lungo la Martesana, nella sua Milano
Sorprende ogni volta constatare quanto un poeta possa essere fedele a se stesso. Al di sotto dei movimenti della lingua e degli assetti espressivi sembra esserci qualcosa d’inamovibile, di dato per sempre: temi elettivi, immaginario, predilezioni e ossessioni, ferite, attese. E più ancora il registro della voce, l’inclinazione dello sguardo, il modo di portare attenzione e di mettere a fuoco la vita, vale a dire quella particolare interazione di tono, linguaggio e contenuti che determina lo stile, il modo di un poeta.
Sono anzitutto considerazioni di questa natura che sollecitano la lettura del nuovo libro di Maurizio Cucchi, Paradossalmente e con affanno, appena uscito da Einaudi. Il volume comprende infatti una serie di testi in larga parte inediti che l’autore ha scelto tra quelli scritti nella prima gioventù, tra il 1963 e il 1969 (Cucchi è nato a Milano nel 1945). E a questi fa seguito un componimento nuovo, una sorta di poemetto misto di versi e prosa, cioè in senso tecnico un prosimetro, intitolato La sciostra, che in dialetto milanese significa magazzino, deposito di merci e materiali di poco pregio. Ecco, a prescindere dalla qualità dei singoli componimenti, che nel caso della Sciostra è senz’altro notevole, credo che il senso del libro stia anzitutto nel cortocircuito temporale e poetico che si crea tra il movimento in avanti dei testi giovanili e quello retrospettivo del poemetto con- clusivo. Con questi esordi poetici si va molto indietro, di cinquant’anni e più. Se si prende come riferimento l’area lombarda o milanese, ci troviamo negli immediati dintorni dell’uscita di due libri capitali per gli svolgimenti della poesia italiana del secondo Novecento, vale a dire Gli strumenti umani di Vittorio Sereni e La vita in versi di Giovanni Giudici, entrambi del 1965. Dal canto suo Giovanni Raboni aveva appena cominciato a pubblicare i suoi versi. E a tutta prima è proprio l’indipendenza da questi modelli a sorprendere (se a questa altezza si trova qualche consonanza è soprattutto con Raboni). Sotto ogni punto di vista la poesia di Cucchi è ancora tutta a venire, eppure alcuni suoi tratti fondamentali, che a partire da Il disperso, il suo primo libro del 1976, verranno riconosciuti come qualificanti la nuova poesia postsessantottesca, risultano visibili fin d’ora: il frammentismo, l’estraneità a una dimensione ideologica, la mancanza di un qua- dro stabile di orientamento e giudizio, l’attenzione al particolare e al dettaglio, a ciò che è comune e apparentemente trascurabile, la sospensione del senso. Ma se si pensa ai successivi svolgimenti dell’autore, si trovano già qui anche l’attrazione, forse un poco masochistica, per il particolare orripilante o macabro, la tensione spasmodica dell’osservazione che sconfina nel trasognamento, nell’incubo, nei disguidi del pensiero («Si abbatte con metodo/ Con precisa irrazionalità/ Ciò che le apre la mente»), il discorso poetico capzioso e refertuale che approda a un nulla di fatto, all’impossibilità di far presa, di circoscrivere insieme identità personale e destino.
Identità, destino: sì, credo che l’anello che più tiene tra le poesie di ora e quelle di allora sia proprio nella condizione di ricerca. Si trova sempre in Cucchi uno stato di non realizzazione, d’inquietudine e desiderio, spesso di ansia, che lo porta di volta in volta a inseguire la propria definizione, se non una inarrivabile di plenitudine («mia residuale dimora felice», si dice nella Sciostra), nelle vie e contrade, negli interni e figure, tante volte degli autentici doppi, della sua Milano. Solo che nei testi giovanili questa identità veniva cercata in avanti e adesso all’indietro, interrogando le vestigia di un mondo perduto, investigando negli spazi di una memoria che è sempre più difficile distinguere da un sogno. Anche se da allora molta strada, anche poetica, è stata fatta, il «ragazzo mite e malinconico, che girava incerto per le strade del quartiere», non è poi molto diverso dall’uomo che ancora oggi sta cercando una storia non soltanto personale nelle cose e nelle vestigia del tempo: «Mi sono messo in giro per la città osservando muri e case, luoghi in cui si potesse ancora vedere la traccia fisica del percorso umano, della storia di gente, di gente qualsiasi soprattutto».
L’io e la gente, i personaggi, la storia, la colpa (la Colonna infame) e la redenzione: non è poco quello che di Manzoni si sente arrivare per li rami sin qui. In fondo si può pensare che questo poeta non abbia fatto che girare e rigirare sulle stesse vie cittadine, un disperso in cerca di verità e di un poco di giustizia, ora come allora. Proprio come sullo stesso marciapiede ha continuato a camminare il suo più importante compagno di strada, Milo De Angelis, anche se, paradossalmente, in senso opposto: l’uno in direzione dell’essenzialità e integrità della parola poetica, l’altro in direzione del discorso comune e della confidenza con la prosa. Come due facce della stessa medaglia, tuttavia, non di medaglie diverse.
Tensione L’anello tra le poesie di ora e quelle di allora è proprio nella ricerca. E tra le vie della città l’uomo vaga come faceva da ragazzo