Corriere della Sera - La Lettura
Venite al museo e fate un sonnellino
Il caso Tedi Asher è una neuroscienziata di meno di trent’anni che il Peabody Essex Museum, in Massachusetts (Usa), ha assunto per ottimizzare la percezione delle opere da parte degli spettatori. «La fruizione dell’arte oggi deve tenere conto di tante varianti, compresa l’abitudine a scattare fotografie. Occorre sapersi fermare, anche riposarsi»
Un minuto. Inclusi quei secondi che servono per scattare una foto con lo smartphone. Ecco il tempo che, in media, ciascuno di noi dedica a un dipinto o a una scultura esposti in una mostra o nella collezione di un museo. È la conclusione a cui è giunta Tedi Asher, neuroscienziata quasi trentenne, assunta due mesi fa dal Peabody Essex Museum (Pem) di Salem, nel Massachusetts. E se poi parliamo di musei affollati come il Louvre o gli Uffizi, rischiamo di passare davanti a opere apparentemente semplici ma in realtà complesse, e di eluderne il messaggio. Per esempio, I papaveri di Monet, del 1873, ha una struttura falsamente elementare (due donne con i rispettivi bambini che attraversano un campo di fiori rossi) ma il vero piano di lettura dell’opera si coglie solo con un’osservazione lenta, attenta, persino pigra: quell’invisibile vento che fa ondeggiare i fiori e l’erba, come se ciascuno di noi fosse non davanti, ma dentro la tela. In poche parole: in un minuto è impossibile percepire la reale rivoluzione degli Impressionisti.
Qual è il risultato di questo sguardo sbagliato sull’arte? «Che spesso non la comprendiamo. Ecco perché qualche volta certi artisti e le loro opere ci sembrano oscuri, lontani dalla nostra vita», spiega a «la Lettura» Asher, la cui assunzione ha fatto discutere: se le consulenze esterne degli specialisti di neuroscienze sono frequenti nei luoghi d’arte, innesti simili di competenze sono un sintomo per capire quanto difficile sia diventato il rapporto con dipinti e sculture. «Oggi — dice la ricercatrice — la fruizione dell’arte deve tenere conto di tanti fattori. La disposizione delle opere, la quantità di queste in esposizione, la capacità di attenzione di chi guarda, gli stimoli esterni, l’abitu- dine a fare foto e altro». Se a fine Ottocento I papaveri potevano stravolgere il corso di un’epoca, oggi, davanti a un dipinto come questo, siamo più miopi: dalla fretta all’attitudine a leggere le immagini in sequenza (come in una serie tv, cercando il finale), si rischia di annullare secoli di cultura pittorica.
Che fare? «Innanzitutto — spiega Asher — fermarsi. Riposare. Sì, ogni museo o sala espositiva dovrebbe prevedere, tra una stanza e l’altra, delle aree di relax senza opere, per far assimilare le cose viste. Si chiama palette cleanser, una sorta di pulizia mentale». Riposare, anzi, farsi un sonnellino, anche per metabolizzare un’emozione: ci sono musei nei quali (per un periodo dell’anno) si può dormire, come nel Rubin di Chelsea a New York. Qui, dal 2012 viene proposto il progetto Dream Over: pagando 108 dollari a persona e portandosi dietro il letto o un futon, si può dormire una notte sotto la propria opera preferita, annotando, al risveglio, i sogni fatti — che poi verranno analizzati da specialisti. Il progetto è stato replicato anche al Maxxi di Roma nel 2015 e nel 2016. Un’esperienza simile l’ha vissuta lo studioso di arte Stefan Kasper che, come premio per essere stato il visitatore «numero 10 milioni», ha potuto dormire al Rijksmuseum di Amsterdam sotto la Ronda di notte di Rembrandt.
«Anche senza arrivare a questo — sorride Asher — nei musei bastano dei divanetti; l’importante è che la mostra non diventi una maratona. Non bisogna enfatizzare troppo i segnali che conducono alla stanza successiva. Inoltre, l’allestimento dovrebbe prevedere un numero esiguo di pezzi per volta. È dimostrato che
guardare più opere nello stesso tempo non solo distrae, ma rende più debole la rappresentazione di un dato oggetto o di una forma umana nel cervello». Quando guardiamo i Girasoli di van Gogh, per esempio, andiamo a recuperare le sensazioni che l’immagine di un vaso di fiori evoca in noi e questo «bagaglio» di emozioni è diverso da persona a persona. «Ecco perché — continua la neuroscienziata — un altro degli approcci più comuni e più discutibili è quello di disporre le opere in stanze bianche e vuote, asettiche, convinti che questo valorizzi l’arte. No, meglio stimolare, con intelligenza, il meccanismo che recupera le emozioni. Un esempio: l’anno scorso il Pem ha organizzato una mostra di sculture di Rodin integrandole con performance di danzatori professionisti i quali accentuavano il movimento che lo scultore voleva dare alle forme. Queste integrazioni, però, non devono sovrastare le opere: è qui la sfida».
Sfida che, secondo Asher, si estende alla presenza di installazioni multimediali nelle mostre: «Bene ma solo se servono ad approfondire l’opera, a incuriosire o a spiegare. Un tema ancora sperimentale, poi, è quello della stimolazione olfattiva. Nella mostra allestita nel febbraio 2016 al Pem, Asia in Amsterdam: The Culture of Luxury in the Golden Age, ad accompagnare i quadri c’erano dei contenitori riempiti di cannella e di altre spezie esotiche. Serviva a ricreare l’atmosfera che si respirava in Olanda nel glorioso Diciassettesimo secolo».
Musica, danza, profumi, persino un sonnellino: la visita al museo, nel futuro, assomiglierà a un’esperienza sensoriale studiata dai neuroscienziati? «Il punto — dice Dan Monroe, direttore del Pem — è che l’arte e quindi anche i musei devono tornare a essere centrali nelle nostre vite. E le neuroscienze ci dicono che una mostra oggi ha bisogno di stimolare dei sistemi cognitivi» per catturare l’attenzione. Ma quello del Pem è un manifesto che deve fare i conti con il fenomeno delle «mostre blockbuster» (con tante opere di artisti popolari che girano le città a mo’ di pacchetti preconfezionati) e con la tendenza diffusa a fotografare le opere prima ancora di guardarle. «Il nostro obiettivo — conclude Tedi Asher — non è facile. Ma da neuroscienziata sono convinta che una volta sperimentato un autentico godimento dell’opera d’arte, poi sarà difficile farne a meno. La realtà di una mostra vissuta bene è molto più seducente del virtuale».