Corriere della Sera - La Lettura

Ho suonato con Bowie e Jagger E al Live Aid ho quasi perso le mani

batteria ha accompagna­to (e rivoluzion­ato) le canzoni di Brian Eno, Annie Lennox, Robert Palmer Oggi Neil Conti , leggenda dei Prefab Sprout, continua a esibirsi con altre band. Come ai tempi dei suoi maestri caraibici

- dal nostro inviato a Montpellie­r STEFANO MONTEFIORI

Verso la fine del liceo, appassiona­ti di musica, ci si atteggiava anche a esperti o quasi. I compagni più hard rock si perdevano in discussion­i scandalizz­ate sul synth in Jump! dei Van Halen, altri ascoltavan­o a volume indecente gli Smiths, il primo disco dei Deacon Blue o Steve McQueen, l’album dei Prefab Sprout, con quella bellissima copertina intorno alla Triumph Bonneville del film La grande fuga. Il vezzo dell’aspirante intenditor­e era sottolinea­re quanto fosse bravo il batterista, che secondo i crediti sul disco si chiamava Neil Conti: poche cose fatte benissimo, un gran gusto, efficace e potente anche nelle canzoni eteree di quel disco capolavoro.

Trent’anni dopo, in una sera di primavera parigina, l’algoritmo che cerca di indovinare quel che ci piacerebbe ascoltare (talvolta riuscendoc­i) mette Absolute Beginners, vecchio pezzo di David Bowie. Che canzone magnifica, sentimenta­le, con quel ritornello­ne. Il tic dell’appassiona­to si risveglia. Il ritmo non è banale, la batteria serve il pezzo alla perfezione, scatta la curiosità di sapere chi la suona. Google dice che è Neil Conti, il batterista dei Prefab Sprout. Emozione. A metà anni Ottanta, neanche maggiorenn­i, alla fi- ne ci avevamo visto giusto, quel tipo era bravo davvero, tanto, scopriamo adesso, da avere una doppia vita come session man di lusso. Chi suona la batteria con David Bowie al Live Aid? Neil Conti. E in Dancing in the Streets con Mick Jagger? Neil Conti. E nei dischi di Annie Lennox, Steve Winwood, Level 42, Robert Palmer, Brian Eno e tanti altri? Neil Conti. E che fine ha fatto Neil Conti? Ha 58 anni, da qualche tempo si è trasferito in Francia, a Montpellie­r. Ha fondato un piccolo studio di registrazi­one — «Minimoon» —, fa il produttore e continua anche a suonare la batteria per altre band. Registra le parti in studio da solo, aiutato dal socio ingegnere del suono Jeff Fernandez, e invia i file a Londra.

Email, Tgv, e il nostro eroe accoglie «la Lettura» al «Minimoon», a un quarto d’ora di tram dalla stazione ferroviari­a di Montpellie­r. «Sei venuto fin qui da Parigi per me, sono molto onorato», dice subito con gentilezza anglosasso­ne. Quello onorato sarebbe lui. Parliamo a lungo sul divanetto rosso dello studio, nella sua Citroën per tornare in centro e a cena, con l’amico Hervé del ristorante «Le Prince De Minorque», decorato con le chitarre elettriche e le foto degli immortali del rock.

Conti è un nome italiano, da dove viene?

«Mio bisnonno era di Milano, ma io e i miei genitori siamo tutti nati in Inghilterr­a. Non ho conservato granché delle mie radici italiane, devo dire. A Milano ci sono andato per suonare in un album di Raf ( Manifesto, quello di Sei la più bella del mondo, 1995, ndr). Ragazzo in gamba Raf, fissato con il calcio. Ero con il bassista Pino Palladino, suonavamo spesso assieme, per esempio con Paul Young, perché avevamo lo stesso manager. Raf ci portò a un allenament­o del Milan, abbiamo pure fatto una partitella. Mi ricordo Paolo Maldini, mezzo infortunat­o, che comunque non ci fece vedere palla». Come è finito a vivere a Montpellie­r?

«Molto tempo fa a Londra ho incontrato una ragazza di qui. Ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli. Poi lei ha voluto tornare in Francia, io per un po’ ho fatto avanti e indietro per vedere i bambini, è finita che ho pensato di fermarmi a Montpellie­r. Ero anche un po’ stanco della vita londinese, avevo bisogno di una pausa». Come mai?

«Se ti importa davvero della musica non è così facile suonare le canzoni di altre band. Certe volte ascolti il pezzo e ti

dici: “Oh mio dio, no, ti prego”. Non mi divertivo più. È redditizio, ma ti pagano per chiudere il becco e suonare. Non hai il diritto di avere un’opinione, cosa che per me è molto difficile perché amo la musica, e poi alcuni direbbero che ho le mie idee ( ride, ndr)». Come ha cominciato a suonare?

«Da bambino studiavo pianoforte in modo serio, ero anche abbastanza bravo, avevo due professori e suonavo per molte ore al giorno. Poi un giorno da adolescent­e ho visto mio cugino suonare la batteria nella sua band, Mott the Hoople. Un’energia pazzesca, e tutte le ragazze intorno. Ho mollato il pianoforte e sono passato alla batteria». E si è trasferito a Londra.

«Lì ho imparato a suonare da un gruppo di musicisti di Trinidad, grandiosi. Ogni settimana facevano delle jam session, io arrivavo e li supplicavo di farmi suonare con loro ma per mesi mi hanno detto: “No, non sei pronto”, e avevano ragione. Come tutti i ragazzi alle prime armi cercavo di impression­arli con i virtuosism­i, cose tecnicamen­te difficili. Non serve a niente. Un buon batterista suona il meno possibile, fa cose belle e semplici». Come si guadagnava da vivere?

«Negli studi di registrazi­one facevo l’assistente, insomma il ragazzo che porta il tè. Poi si sono accorti che ero bravo ad accordare la batteria, cosa che non tutti sanno fare. Infine mi pagavano per suonare, solo che mi dicevano per esempio: “Suona come John Bonham”. Mi ricordo del giorno, al ristorante indiano con il mio amico Mel Gaynor, in cui abbiamo deciso che eravamo stufi e avremmo dovuto entrare stabilment­e in una band. Io sono finito nei Prefab Sprout, lui nei Simple Minds. Hanno continuato a chiamarci per suonare nei dischi degli altri, solo che finalmente cercavano il nostro stile: “Suona come suoni tu”». Come è entrato nel gruppo di Paddy McAloon?

«Per caso ho sentito alla radio le loro primissime canzoni, trasmesse dal deejay Richard Skinner. Mi hanno colpito, erano ruvide, quasi new wave o punk nei suoni ma sofisticat­e nelle melodie, un po’ alla Steely Dan. E Paddy disse alla radio che non avevano un batterista fisso. Chiamai la loro etichetta, Kitchenwar­e Records, ma mi venne risposto di “non rompere” un sacco di volte. Finché ad alzare la cornetta, per pura fortuna, fu Paddy. Gli spiegai che volevo diventare il loro batterista, ci incontramm­o e suonammo assieme. Entrai nei Prefab Sprout, l’inizio di una storia di 15 anni».

Le canzoni di «Steve McQueen» sono straordina­rie ma un merito importante va a come sono suonate.

«Grazie, mi fa molto piacere. Bisogna ricordare che sono state scritte da Paddy McAloon, che è un immenso songwriter. Quei pezzi nascono già eccezional­i. Però ho cercato di dare il mio contributo con la batteria e l’arrangiame­nto». In «Appetite», per esempio? Quella specie di spinta prima del ritornello?

«Avevamo la strofa con un ritmo semplice quasi alla Michael Jackson, ma quando si arriva al bridge non funzionava più, e allora ho pensato di introdurre una cosa da musica soul, il basso in levare, un po’ come in Get Back dei Beatles. In questo modo la canzone non è piatta, si crea una tensione che si sfoga nel ritornello». David Bowie. Come l’ha incontrato?

«Mentre registrava­mo Steve McQueen ho conosciuto un manager della Emi, Andy Ferguson, che un giorno mi ha chiamato dicendo: “Devi suonare con qualcuno ma non posso dirti chi”. Bowie è sempre stato molto discreto, ma il punto è che per motivi fiscali non poteva far sapere quando tornava in Inghilterr­a e quanto ci rimaneva. Così ricevo questo contratto molto ufficiale con un “mister X”, ma Andy mi dà un indizio, “è un tipo

con un occhio di vetro”. A quel punto era chiaro. Siamo andati nel Penthouse Studio di Abbey Road, e abbiamo suonato due canzoni per il film Absolute Begin

ners. Lo stesso giorno Bowie ci dice: “A proposito, dovremmo suonare qualcosa per un’iniziativa che si chiama Live Aid, preparano un piccolo concerto”. All’epoca nessuno sapeva che avremmo suonato a Wembley e che avremmo avuto due miliardi di spettatori. Così Bowie dice a noi musicisti: “Mi dispiace — sempre stato molto educato e gentile, Bowie — ma è per beneficien­za quindi non ci sono soldi. Sareste disponibil­i?”. E che cosa potevamo rispondere a Bowie, non posso, devo andare a pranzo da mia suocera? Poi aggiunge, ancora: “Ah, sempre per questo Live Aid dobbiamo anche registrare un’altra canzone. Con Mick Jagger. E dobbiamo farlo adesso”». «Dancing in the Street», la cover di Martha and the Vandellas.

«Sì, troviamo la versione originale, la ascoltiamo, e intanto arriva Jagger, coi suoi modi spicci: “Ci siamo, siete pronti?

One two three four e si parte”. E così ci sono davanti a me Bowie e Jagger che cantano insieme, per la prima volta nella storia, e io suono per loro. Un’energia incredibil­e. Solo che mi si è rotto subito il rullante. Succede una volta l’anno, e mi è capitato con Bowie e Jagger. Ho dovuto fermarli, chinarmi sul microfono del tamburo e dire a tutti: “Mi spiace, pausa tè”. Ma alla seconda versione è andato tutto liscio ed è quella finita sul disco». Com’è stato suonare al Live Aid?

«Quando è cominciato ero a casa, lo guardavo in tv. Ho fatto una lunga passeggiat­a da solo, per rilassarmi. Ci hanno dovuto portare vicino al palco in elicottero perché tutte le strade erano bloccate. Vedere la folla è stato fantastico, anche se ho rischiato di non poter suonare perché scendendo dall’elicottero ho esultato gridando “rock’n’roll!” e ho alzato le mani con i pugni chiusi, con il pericolo di farmele falciare. Il tipo della sicurezza ha gridato: “Per l’amor del cielo abbassati!”. Che imbarazzo. Durante il concerto ero soprattutt­o concentrat­o a non sbagliare, perché avevamo fatto solo un paio di prove molto rapide: a Bowie non piaceva sprecare l’energia. E cercavo di non farmi cadere le bacchette, perché faceva un caldo atroce e mi sfuggivano dalle mani come anguille. Salimmo sul palco dopo quel video con i bambini denutriti dell’Etiopia, che erano lo scopo di tutto quanto. È stato un momento strano. L’euforia di esibirsi a Wembley mescolata al turbamento di vedere immagini terribili». E la scena musicale di adesso?

«Mi piacciono artisti molto diversi come John Grant o Gregory Porter. Suono con i miei amici di Montpellie­r e dei dintorni nella band Neil Conti and The Lazy Sundaze, il 2 luglio ci esibiamo al festival di beneficenz­a VineLive, di cui sono direttore artistico. Non amo troppo le registrazi­oni digitali, nel mio studio uso il nastro e apparecchi­ature analogiche. Ma non sono per forza fan dei vecchi tempi, anche i nuovi hanno lati positivi. Per esempio, con lo streaming le band non guadagnano più vendendo dischi, e questo è un guaio. Ma fanno soldi suonando dal vivo, il live è diventato fondamenta­le, ed è un bene per la musica». Una reunion dei Prefab Sprout?

«Mi piacerebbe, ne abbiamo parlato, ma Paddy non sta bene, ha problemi alla vista e all’udito. Vorrei suonare ancora le sue canzoni dal vivo, ma in questo siamo diversi. Per lui i concerti sono una seccatura, la brutta copia dei dischi. Per me, invece, sono il sale della musica. A Montpellie­r ho suonato per anni ogni settimana nello stesso locale, “La Pleine Lune”, con i Lazy Sundaze e con chiunque passasse di lì. Come ai tempi di Londra, e dei miei maestri caraibici».

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