Corriere della Sera - La Lettura

I 30 anni del disco-leggenda che dannò i Guns N’ Roses

- Di F. GENOVESI e A. SACCHI

Capolavori Nel 1987 una band composta da cinque ventenni suonava e sopravvive­va tra gli eccessi in una baracca senza letti né frigo. «Appetite for Destructio­n» fu il loro primo album: una rivoluzion­e geniale. E non ebbe veri bis La copertina La band voleva usare una foto del disastro del Challenger che l’anno prima era esploso 73 secondi dopo il decollo con la morte dell’equipaggio

Io ci credo tantissimo, al dio della musica. La sua mano è così evidente, è chiaro che c’è lui dietro a tanti prodigi del creato musicale. Capolavori necessari e insieme casuali, nati per sbaglio e destinati a non morire mai, impossibil­i da attribuire all’opera degli esseri umani nel delirio traballant­e di una band.

Così è successo trent’anni fa, quando cinque ventenni perennemen­te strafatti, in guerra col mondo, tra loro e con se stessi, hanno tirato fuori Appetite for Destructio­n, il primo immenso disco dei Guns N’ Roses.

Perché anche il dio della musica non ne poteva più della roba che regnava a metà anni Ottanta. Nel sottosuolo già urlavano il trash e il death metal, ma il rock da classifica era una caramella appiccicos­a offerta da gruppi inoffensiv­i e plastifica­ti, più attenti alla cotonatura dei capelli che al calore delle canzoni. Morbido, prevedibil­e, rassicuran­te, il rock era diventato tutto quello che non doveva essere. Allora il dio della musica ha detto basta, ha fatto incontrare questi cinque disgraziat­i e li ha mandati a spaccare tutto.

È il 1985, e la storia dei Guns comincia con un mini-tour che si organizzan­o da soli. Il furgone muore lungo la strada, suonano in bar semidesert­i dove al posto dei soldi rimediano birre gratis e qualche buono pasto, ma tra quei palchi sgangherat­i scatta lo stesso la magia: sono partiti come un branco di sbandati su un furgone scassato, tornano a Los Angeles come una band.

«La band più grande del mondo» pensa Tom Zutaut, che li ascolta al Troubadour quando il passaparol­a li ha già trasformat­i nella nuova sensazione locale. Però il posto è pieno di discografi­ci come lui, allora dopo due pezzi urla «fanno schifo, vado a casa», e scappa a studiare il modo per farli firmare con la Geffen.

Il giorno dopo si presenta alla loro sala prove, una baracca dove il gruppo suona e vive, senza doccia né letti e col tetto pieno di buchi. «Eppure — ricorderà Slash — come suonavamo bene là dentro».

Altri scout si aggirano intorno alla catapecchi­a, ma i Guns ascoltano le loro proposte per il tempo che serve a scroccare un pranzo, poi li scacciano. Senza un soldo e senza cibo nel frigo (anzi, proprio senza frigo), l’indifferen­za che questi ragazzi riservano alle ricche offerte delle case discografi­che si spiega in un modo solo: il dio della musica li guida dall’alto verso il loro destino, e il loro destino è Zutaut.

Che ha pochi anni più di loro, ed è l’unico che li capisce davvero. Infatti i Guns decidono di firmare con lui, se entro venerdì gli porterà 75 mila dollari. Cifra difficile da mettere insieme in così poco tempo, Zutaut deve chiederla direttamen­te al grande capo David Geffen, che alla fine si lascia convincere: i soldi ci saranno, nessun problema.

Anzi, uno solo, e gigante. Mercoledì Axl chiama Zutaut e dice: «Abbiamo fatto una cosa stupida». Hanno promesso alla scout della Chrysalis che se entro le 6 di venerdì correrà nuda sul Sunset Boulevard fino alla Tower Records, firmeranno con lei. È assurdo, è suicida, ma così sono i Guns N’ Roses. E Zutaut deve passare quei due giorni alla finestra del suo ufficio, sperando di non vedere donne nude in corsa su per la strada. Ma alle 6.01 del venerdì può tornare a respirare, strette di mano e abbracci, i Guns stanno con lui. Eppure questa non è la fine delle difficoltà, è soltanto l’inizio. Perché qualsiasi cosa riguardi i Guns N’ Roses è destinata a naufragare in un vortice di delirio, conflitto e autolesion­ismo, uno spietato triangolo delle Bermuda dove cola a picco ogni carico di buon senso e di tranquilli­tà.

Sarà complicata pure la scelta di un produttore: senza la minima soggezione, i Guns scacciano nomi come Paul Stanley dei Kiss e Bob Ezrin, l’uomo dietro The Wall dei Pink Floyd. Questa gente vuole ripulire il loro suono, addomestic­are la band e piegarla alle morbidezze del momento, e i Guns rispondono con una scarica di rifiuti e offese che termina solo all’arrivo di Mike Clink, con il suo gusto vintage e la capacità di assecondar­li.

Clink ha una regola unica e inesorabil­e: in studio niente droga, fuori fate come vi pare. È un regime a cui i cinque possono adattarsi, e se ogni notte si perdono tra i locali di L.A. fino a sfiorare la morte, all’alba il dio della musica li agguanta per i capelli e li rimette grosso modo in piedi, lo strumento in braccio e il microfono davanti. E così, nella follia, nell’incoscienz­a

Già all’esordio incidono, con la strafotten­za di un gruppo affermato, un lp rabbioso, sporco e brutalment­e sincero: quel che i ragazzi di tutto il pianeta aspettavan­o come la pioggia nel deserto, per spararlo a massimo volume nelle loro camere e ottenere finalmente la sana disapprova­zione dei genitori

più totale, i Guns N’ Roses incidono uno dietro l’altro dodici pezzi clamorosi, nati nella loro baracca e destinati a sconvolger­e il mondo.

Si rifanno al rock sanguinole­nto e viscerale del passato, ma insieme la loro cosa è nuova e devastante. Si capisce già dall’attacco di Welcome to the Jungle, quando Steven con una mazzata di rullante scatena la battaglia. Ci si tuffano chitarre furiose, riff scalmanati, la voce isterica di Axl che passa dagli acuti taglienti del primo pezzo al ruggito di It’s

So Easy, mentre grida parole scritte da un dissociato nemico dell’umanità e insieme capaci di raggiunger­e il fondo di ogni cuore.

Paradise City chiude la prima facciata dell’ultimo grande disco pensato per i due lati del vinile e della cassetta, poi un’altra scarica di canzoni forsennate, con un solo attimo di tregua per l’immancabil­e ballad romantica. Però questa si chiama Sweet Child O’ Mine, ha un riff tra i più monumental­i della storia, e se riesci ad ascoltarla senza un brivido che ti frusta il petto, allora hai l’anima fatta di stagnola.

I Guns sono all’esordio ma suonano con la strafotten­za di una band affermata, per un album rabbioso, sporco e brutalment­e sincero: quel che i ragazzi di tutto il pianeta aspettavan­o come la pioggia nel deserto, per spararlo a massimo volume nelle loro camere e ottenere finalmente la sana disapprova­zione dei genitori.

Solo che all’inizio nessuno se ne accorge: Appetite for Destructio­n esce il 31 luglio 1987, e con oltre 30 milioni di copie diventerà uno degli album più venduti di sempre, ma la strada è lunga e tutta in salita.

Perché radio e tv rifiutano di passarlo: ci sono i Bon Jovi che sussurrano: «Ricordi quella sera al ballo, abbiamo litigato, ma la band ha suonato la nostra canzone preferita e ti ho abbracciat­a forte». I Def Leppard propongono: «Mettimi addosso un po’ di zucchero, in nome dell’amore»; e gli Whitesnake si chiedono: «È amore quel che sento? È amore o sto sognando?».

Difficile trovare un posto per i Guns, che urlano: «Il tuo paparino lavora nel porno, ora che mamma non c’è più, lei amava l’eroina, adesso è sottoterra».

La copertina poi non aiuta: la band voleva usare una foto del disastro del Challenger, lo shuttle che l’anno prima era esploso 73 secondi dopo il decollo con la morte dell’equipaggio. La casa discografi­ca la trova di cattivo gusto ma accetta la seconda proposta, un’opera di Robert Williams dove un robot assassino sta davanti a una ragazza stuprata, stesa per terra con gli slip calati alle caviglie. Molti negozi si rifiutano di esporre il disco, e così l’unica promozione restano i concerti, incendiari e devastanti e imprevedib­ili, con la band strafatta e sempre pronta a litigare.

I mesi passano, è febbraio ormai e Zutaut riceve l’ordine di lasciar perdere i Guns e dedicarsi ad altri progetti. Ma lui non ci sta, e di nuovo grazie a David Geffen convince Mtv a trasmetter­e il video di

Welcome to the Jungle. Una volta sola e a notte fonda, ma ai Guns non serve altro: le telefonate mandano in tilt i centralini, e da lì a un mese sarà il video più richiesto dell’anno, mentre i Guns schizzano in testa alle classifich­e.

Stanno girando l’America come gruppo di apertura per mostri sacri come Iron Maiden e Aerosmith, ma è sempre più chiaro che il pubblico è lì per loro, canta i pezzi insieme ad Axl e impazzisce per la sua ipnotizzan­te snake dance.

Erano cinque straccioni, tornano a casa come stelle del rock. Ma così storditi da non capirlo davvero. Izzy gira per Los Angeles domandando­si come mai il di- sco vende milioni di copie eppure lui deve mendicare i soldi per una birra. Poi si cerca in tasca un improbabil­e spicciolo, e ci trova un foglietto spiegazzat­o. Sopra c’è scritta una cifra surreale che risolverà i suoi problemi economici, appena Izzy capirà come si riscuote un assegno.

Intanto Slash, Steven e Duff sono tornati a perdersi nelle notti di sostanze ed eccessi assortiti, con l’unica differenza che adesso non li buttano più fuori dai locali, anzi devono fuggire dalla folla che li acclama e si veste uguale a loro.

Axl invece si tiene lontano dalle droghe, ma è il più fuori di testa: vive chiuso in un appartamen­to che fa dipingere di nero e con mobili dello stesso colore, compresi il tappeto e il frigo. Per settimane resta sul divano nero senza farsi sentire, con accanto pistole, fucili e un mitragliat­ore Uzi, che gli danno «un senso di sicurezza».

E così, mentre brama un nuovo album che sfrutti il momento clamoroso, la casa discografi­ca deve assistere a litigi e arresti e quotidiani annunci di scioglimen­to, intervalla­ti da occasional­i overdose.

Quando qualcuno esagera, la Geffen lo convoca con la scusa di un’intervista, lo carica di forza su un aereo e lo porta alle Hawaii per ripulirsi. Ma poi tutto torna uguale, i soliti posti, i soliti vizi, le solite notti dove è così facile entrare e molto probabile non uscire mai più. Insomma, niente di nuovo, e soprattutt­o niente nuove canzoni. Come scrive la rivista «Rolling Stone», adesso «i Guns N’ Roses potrebbero far uscire un album di inni battisti, e lo stesso diventereb­be disco di platino». Sarebbe tutto così facile, liscio, in discesa, ma questa non è la strada dei Guns. In It’s So Easy lo cantano pure: «È così facile, ma niente mi soddisfa, è una sensazione così bella sparire nella notte».

E nella notte i Guns spariscono davvero. Mentre il mondo celebra la nascita di una nuova leggenda del rock, la band è già finita: Steven viene cacciato dai Guns N’ Roses per i suoi eccessi con le droghe, che è un po’ come essere estromessi da un torneo di sumo per troppa grassezza. Il suo posto se lo contendono mille batteristi più tecnici e profession­ali, ma si perde il suo tocco, pesante e swingato insieme. Però non è solo lui, è la magia che ha lasciato i Guns: il dio della musica ha ottenuto quel che voleva, e adesso li ha abbandonat­i.

Ci vorranno quattro anni per un vero secondo disco, il doppio Use your Illu

sion, dove i brani migliori saranno comunque quelli scritti agli inizi e rimasti fuori dal primo album. Venderà moltissimo e ne seguirà un mastodonti­co tour mondiale, ma data dopo data la loro grandezza si disintegra sul palco. E in questo senso è davvero profetica la copertina che i Guns avevano in mente per Ap

petite, uno shuttle che decolla nella potenza micidiale di razzi propulsori e subito esplode, riempiendo di fiamme l’orizzonte.

Ma il loro volo sciagurato ha fatto in tempo a regalarci un disco clamoroso, che trent’anni dopo incendia ancora l’anima come in quell’estate del 1987. Gli basta un riff, uno stacco, un grido che schizza in aria e ci porta con sé, strappando­ci alle ristrettez­ze micragnose del quotidiano, alle mille solite incomprens­ioni, ai lacci soffocanti della normalità. E ci scarica addosso quel brivido che dalle orecchie schizza al cuore, sale al respiro e poi giù in mezzo alle gambe, quell’attimo sciagurato e incandesce­nte che dà senso a tanti giorni piatti e una vita tutta di abitudini. Così meraviglio­so, così giusto e necessario che se ne frega dell’assurdo e dell’impossibil­e, prende la rincorsa e decolla e sempliceme­nte succede, sempliceme­nte scoppia e dà fuoco al nostro cielo, che non sarà mai più lo stesso.

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