Corriere della Sera - La Lettura

L’orgogliosa rinascita dell’Isola di Pasqua

- Di ADRIANO FAVOLE

Rinascite Nota come caso di declino rovinoso, dovuto anche all’influenza coloniale, Rapa Nui si è invece inserita con successo nei processi globali grazie al turismo e alla diaspora. E ora rilancia la sua identità polinesian­a Alle origini della svolta Due fattori si sono rivelati cruciali per innescare il cambiament­o: la costruzion­e di un grande aeroporto e la concession­e agli indigeni della cittadinan­za cilena

L’Isola di Pasqua è un iperluogo del nostro immaginari­o: puntino invisibile nella cartografi­a del Pacifico, è come se la sua superficie ridotta (160 kmq, molto più piccola dell’Elba) fosse stata dilatata a dismisura dal fascino delle grandi statue (i moai), dai racconti del rito di iniziazion­e dell’«uomo-uccello» ( tagata manu) e soprattutt­o dalla sua parabola storica. L’isola dei giganti di pietra sarebbe andata incontro a una decadenza dovuta alla dissennata azione dell’uomo: l’isolamento e la deforestaz­ione avrebbero compromess­o il clima e la produttivi­tà del suolo, con una conseguent­e catastrofe ambientale. Nell’attuale epoca del riscaldame­nto globale e di inquietant­i scenari della «fine», Rapa Nui (altro nome con cui è nota l’isola) si presta a divenire una metonimia dei destini del mondo e, non a caso, il capitolo sul «Tramonto degli idoli di pietra» è il più letto e citato del celebre libro Collasso di Jared Diamond (Einaudi, 2005).

Diamond è l’ultimo dei grandi cantori del tragico destino: prima di lui ci furono Alfred Métraux e soprattutt­o Thor Heyerdahl: testimoni diretti, nella prima metà del Novecento, della decadenza di Rapa Nui. Oltre ai moai, al-

tri «misteri» hanno contribuit­o a creare la leggenda: l’indecifrab­ile scrittura rongorongo (alcune tavolette di legno inciso sono conservate ai Musei Vaticani); lo stile «cadaverico» delle sculture moai kavakava, una plastica rappresent­azione indigena della catastrofe.

C’è un terzo nome con cui questo lembo di terra che dista più di 3.500 km dal Cile e oltre 2 mila km dalle isole più prossime (Pitcairn e le Gambier) è conosciuta: Te pito

’o te henua, un’espression­e polinesian­a che significa sia la «fine», l’«estremità», sia l’«ombelico» ( pito) della «terra» ( henua). La fine e la nascita condensati in un nome sono l’espression­e più calzante di ciò che più volte è successo nella storia dell’isola. Rapa Nui e la popolazion­e che la abita vivono oggi un inatteso rinascimen­to, supportato dall’emigrazion­e, dalla trans-località (il vivere di una stessa comunità in più luoghi) e dalla globalizza­zione. È come se i moai, di recente restaurati e patrimonia­lizzati, nuovamente eretti sulle grandi piattaform­e rituali ( ahu), tornassero a guardare fieri verso l’orizzonte e il futuro, grazie all’arrivo sempre più cospicuo di turisti, all’istituzion­e di un parco nazionale e alla diaspora dei ra

panui (il nome con cui amano essere definiti gli abitanti) verso il Cile e la Polinesia francese. Il tema delle crisi e delle rinascite dell’Isola di Pasqua è oggetto di un importante studio presentato a Marsiglia, in una lunga e impegnativ­a tesi di dottorato, dall’antropolog­o cileno Diego Muñoz Azócar ( Diaspora rapanui 1871-2015).

Per i rapanui, le grandi statue, le scritture rongorongo e le sculture moai kavakava hanno rappresent­ato a lungo una condanna più che una risorsa. Testimoni silenziosi e muti di una civiltà al tramonto, in preda a una sorta di Alzheimer culturale, considerat­i inadatti alla vita moderna, i rapanui figurano come spettrali comparse in gran parte dei reportage e dei libri dedicati all’isola. La decadenza e il «vuoto» memoriale, però, sono tutt’altro che slegati dalle vicende coloniali. «Otoroka», «Benvenuti»! È la prima parola rapanui raccolta da una fonte occidental­e, la mattina del 5 aprile 1722, giorno in cui l’isola entra nella nostra cartografi­a grazie al viaggio di esplorazio­ne dell’olandese Jacob Roggeveen. All’epoca la costruzion­e dei grandi moai era ormai completata, ma la «civiltà» dell’Isola di Pasqua era ancora florida e molte migliaia di abitanti vivevano in un quasi completo isolamento. Passarono 50 anni prima del passaggio di un altro occidental­e, lo spagnolo Felipe González de Haedo (1770): poi fu la volta di James Cook (1774) e del conte francese La Pérouse (1786). E fu proprio Cook a testimonia­re per la prima volta il fatto che alcuni moai erano stati rovesciati. Secondo l’interpreta­zione di Muñoz, la presenza occidental­e avrebbe scatenato una crisi cosmologic­a e politica, mettendo in crisi l’autorità degli ariki (i «capi») a cui erano legate la costruzion­e e il culto dei moai. Il peggio però era di là da venire.

Tra il 1862 e il 1864, mercanti di schiavi del Perù fecero ripetute razzie, «ingaggiand­o» quasi 1.500 rapanui che furono venduti nel porto di Callao. Quasi tutti morirono

in Sudamerica: le cronache riportano che nel 1863, all’ospedale di Lima, morì Kaimakoi, l’ariki mau (il «capo» di maggior prestigio) dell’Isola di Pasqua. Suo figlio Maurata farà la stessa fine alle isole Chicas. Una manciata di superstiti tornò sull’isola negli anni successivi, innescando una terribile epidemia di vaiolo: nel 1887, un secolo dopo Cook, Rapa Nui era ridotta a 110 abitanti! Un altro centinaio di isolani viveva a Tahiti e a Mangareva (isole Gambier) dove i missionari, che nel frattempo avevano convertito l’isola, avevano trasferito parte della popolazion­e. I «vuoto di memoria», la «decadenza», la «crisi cosmologic­a e politica», che etnologi ed archeologi registraro­no a partire dai primi anni del Novecento, furono il frutto acerbo dell’incontro con i «bianchi» e della decimazion­e provocata dalle razzie dei commercian­ti di uomini peruviani. Nel 1888, lo Stato cileno annette l’isola e affida a una società privata, la Williamson & Balfour Company, allevatori di pecore, l’amministra­zione di Rapa Nui. Fino a metà degli anni Sessanta, privi di cittadinan­za e soggetti a un regime paternalis­ta che li «tutelava» impedendo loro di viaggiare, i rapanui vissero un lungo periodo di «confino» a casa loro, in compagnia delle pecore merinos e di qualche studioso interessat­o alle tecniche di costruzion­e dei moai.

Il vento fa il suo giro (e poi ritorna), recita il titolo di un bel film di Giorgio Diritti. E il vento della rinascita cominciò a soffiare a Rapa Nui negli anni Sessanta, quando gli Usa finanziaro­no la costruzion­e di un grande aeroporto e finalmente i rapanui ottennero la cittadinan­za cilena. La linea aerea Santiago del Cile, Isola di Pasqua, Tahiti venne inaugurata nel 1966. L’arrivo di funzionari cileni, prima timido poi consistent­e, inaugurò una stagione di innamorame­nti e matrimoni misti. Sposandosi «fuori», le donne rapanui acquisiron­o per sé e i loro figli diritti e possibilit­à di viaggiare e stabilirsi nel Cile continenta­le. In quegli anni, secondo la ricostruzi­one di Muñoz, un frequente discorso sui rischi dell’endogamia (il matrimonio all’interno di un gruppo) e dell’«incesto» si diffonde sull’isola. I genitori invitavano i loro figli a sposarsi con cileni e tahitiani e presto cominciò a crescere una generazion­e meticcia.

Nel giro di pochi decenni, Rapa Nui cessa di essere un’isola e diviene un «arcipelago»: due consistent­i comunità di pasquensi vivono ora a Santiago e a Tahiti e una più piccola comunità si stabilisce a Mangareva. Nei pressi di Papeete (Tahiti), i rapanui rivendican­o la proprietà di un grande appezzamen­to di terra, che gli anziani ricordano essere stato acquisito per loro dalla missione cattolica alla fine dell’Ottocento.

Negli ultimi venti anni il vento del cambiament­o ha portato sull’isola i turisti, oggi fin troppo numerosi (oltre centomila nel 2016): la globalizza­zione nel frattempo ha abbattuto molti confini e indebolito gli Stati e le loro politiche di welfare. I legami basati sulla reciprocit­à e sulla condivisio­ne fanno viaggiare denaro, merci e persone tra l’isola-àncora e le nuove isole dell’arcipelago rapanui, creando le condizioni per una (relativame­nte) florida economia trans-locale.

Alla formidabil­e crescita demografic­a — l’isola principale contava 6.700 abitanti nel 2014 — si accompagna oggi un intenso processo di recupero della «polinesian­ità». Contaminat­a dal dialetto tahitiano e da quello di Mangareva, la lingua polinesian­a di Rapa Nui conosce una nuova stagione di vigore e orgoglio. I rapanui guardano con sospetto i cileni continenta­li che sbarcano sulla «loro» isola in cerca di lavoro nel turismo e nell’amministra­zione e che non parlano polinesian­o. Sfruttando la legge che consente di scegliere quale dei due cognomi dei genitori (e persino dei nonni) scegliere per i figli, gli isolani stanno recuperand­o i nomi di famiglia polinesian­i dati loro dai missionari ai tempi del primo battesimo. Se il Cile colloca i rapanui tra i «popoli indigeni» (insieme agli ay

mara e ai mapuche), loro tengono a distinguer­si come veri polinesian­i, discendent­i di antichi navigatori provenient­i da ovest, da Hiva, la «terra del benessere». Gli aeroporti, la diaspora, la globalizza­zione, il turismo e la densità dell’iperluogo che alimenta l’interesse esterno per l’isola: tutti questi elementi stanno contribuen­do alla rinascita di una società che molti considerav­ano abitante di un paradiso perduto.

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