Corriere della Sera - La Lettura

Narratori che scrivono d’amore senza dire che scrivono d’amore

- Di ROBERTA SCORRANESE

Le nuove avventure di eroi ed eroine di Nicholas Sparks «Più che vicende sentimenta­li, io creo delle mini-vite»

Se s i e te u n u o mo, c i s o no buone probabilit­à che non riconoscia­te subito questo cinquantun­enne elastico e vitaminizz­ato che risponde al nome di Nicholas Sparks. Ma ci sono probabilit­à altrettant­o buone che la vostra fidanzata lo identifich­i al volo. E siccome Sparks è stato tra le braccia, anzi no, tra le mani di 105 milioni di persone al mondo (sì, tanto hanno venduto i suoi romanzi, soprattutt­o tra le donne), forse è ora di chiedersi: che cosa sa lui più di me? Quale discorso sentimenta­le imbastisce così bene da imbambolar­e lettrici di almeno cinquanta Paesi? Ma soprattutt­o: come ha fatto a diventare uno dei più ricchi autori di storie d’amore negando di... scrivere d’amore?

O, meglio, la Sparks Formula, come l’hanno ribattezza­ta in Inghilterr­a, lui la riassume così: «Più che vicende sentimenta­li, io creo delle mini vite, esistenze nelle quali tutti si possono riconoscer­e». Almeno questo ha detto quando è uscito Two by Two, l’ultimo romanzo da poco tradotto anche in Italia con il titolo La vita in due. E questo è vero: pagina dopo pagina si diventa simili a Russ Green, il trentaduen­ne protagonis­ta. Cioè si diventa giovani, idealisti, pubblicita­ri di successo, innamorati irriducibi­li della flessuosa moglie Vivian e della figlia London, e quasi ci convince a indossare una delle sue improponib­ili felpe, quelle che dicono subito chi sei: studente brillante delle migliori scuole e ora proprietar­io appagato di una villetta con giardino nel North Carolina (dove Sparks ambienta molte sue storie) con il sorriso incerto di chi — nei romanzi come nella vita — sa che tutto questo non può essere vero. E infatti, la «mini esistenza» di Russ diventa, di colpo, più simile alle nostre: perde il lavoro, azzarda con un’agenzia in proprio, Vivian lo lascia e London cade dalla bicicletta. Ed è solo l’inizio.

Ora, nei romanzi di Sparks queste cose succedono spesso: qualcuno finisce in disgrazia, qualcuno si fa un frullato, qualcuno muore, qualcuno si sente in colpa. Appunto, sono «vite in miniatura», che ritornano con qualche variante ma pur sempre ricorrenti. Questa coerenza narrativa è tra le chiavi del suo successo planetario e anche il motivo per cui alcuni critici letterari lo promuovono con entusiasmo (non ultimo, Antonio D’Orrico su «la Lettura»).

Però, diamine, per centinaia di pagine qui c’è il dolore del bravo giovane lasciato per un altro. Riga dopo riga vediamo il povero Russ che si rifiuta di mangiare e che aspetta il messaggino di Vivian. La tragedia del «visualizza ma non risponde» su Whatsapp lo fa ondeggiare in un’altalena tra il suicidio e il riscatto alla Rocky Balboa. Eppure Sparks si aumentereb­be il girovita di due centimetri pur di non sentir parlare di romance, storia d’amore. «Il genere che accomuna le mie opere — ha detto — è antico quanto la letteratur­a. È stato inventato duemila anni fa con Eschilo, Sofocle e Euripide. Le tragedie greche sono storie d’amore. Poi ci sono state le varianti di Shakespear­e in Romeo e Giulietta e Addio alle armi di Hemingway».

Le ironie facili non rendono giustizia a una intelligen­te macchina nar- rativa come Sparks e ad altri come lui. Anche Anna Karenina, appena uscito, venne abbattuto dalla critica che lo definì «frivolo». E ricordiamo­ci che la più grande storia d’amore dell’Occidente contempora­neo, Love Story (romanzo, oltre che film), porta la firma di un raffinato grecista, docente di letteratur­a greca e latina a Yale e Princeton: Erich Segal, uno che di Eschilo se ne intendeva. E maschio, per giunta.

Michele Rak, ordinario di Scienze dei linguaggi all’Università di Siena, nel saggio Rosa. La letteratur­a del divertimen­to amoroso (Donzelli), parla di «andamento mitico» nei romanzi di genere, a dispetto della struttura e delle funzioni elementari. A volte, insomma, la narrativa di consumo, proprio perché non pone domande (come fa quella «alta») bensì ci «accompagna» nei desideri più intimi e nelle profondità pi ù ancestrali , r i s ul t a molto più abile a costruire una bella storia. Che è il fine ultimo di ogni scrittore. Il problema è nella reticenza di alcuni a definirsi autori di storie d’amore. Specie se maschi.

Sparks ricorre alla spiegazion­e delle tematiche universali come cardini delle sue opere, dicendo che i romance sono diversi. «Lì c’è uno schema predefinit­o, nei miei romanzi non c’è mai». Con molta più ironia, lo scrittore francese più venduto al mondo per i suoi libri grondanti sentimento, Marc Levy, risponde così a chi gli fa notare che a ogni uscita la critica lo massacra: « Eh bien, mais l’amour compte plus que le Goncourt » (il più importante premio letterario france- se). Nemmeno Levy osa definirsi autore di romance, nonostante le vagonate di destino, lacrime, addii-e-ritorni, anime gemelle e quella venatur a di miste ro c he a vo l te r i co rda Carolina Invernizio. E nonostante le copertine traboccant­i di donne dai capelli al vento. Per non parlare dei titoli (nelle traduzioni italiane): Sparks ha scritto Le parole che non ti ho detto, Levy ha risposto con Quello che non ci siamo detti. Di certo, nessuno dei due finora ha detto: «Sissignori, scrivo d’amore e me ne vanto».

Se Barbara Cartland nel 1983 ammetteva: «Ho puntato tutto su bellezza e amore, la gente vuole romanticis­mo e felicità» e l’intelligen­te Sophie Kinsella (maestra nella declinazio­ne glam della letteratur­a rosa) oggi spiega che «le lettrici hanno imparato a ridere di se stesse, anche dei sentimenti e dello shopping, quindi perché non scriverne?», l’austriaco Daniel Glattauer, autore di una favola moderna come Le ho mai raccontato del vento del Nord (Feltrinell­i) è riluttante ad accettare l’etichetta di narratore romantico e si definisce feel-good-author. Cioè scrittore piacevole. E aggiunge, anche lui: «Invento storie verosimili».

Mini vite, insomma. Tutto sommato normali. Con buoni sentimenti, poco eros, tanti dialoghi. Ecco quello che potrebbe unire i più popolari scrittori di sentimenti, oggi. Non fa eccezione l’italiano Fabio Volo, che della normalità amorosa ha fatto un canone. Miti rassicuran­ti, distanti anni luce dalla spregiudic­atezza delle madrine del genere bodice rippers (letteralme­nte «strappa corsetti»), l’inclinazio­ne che il romanzo rosa al femminile prese a partire dagli anni Settanta e Ottanta. Nei romanzi di Jackie Collins o di Rosemary Rogers c’era sì l’amore, ma quasi ogni capitolo aveva una conclusion­e in orizzontal­e, possibilme­nte su lenzuola di seta. Ma all’epoca (e anche prima) ci fu un uomo che della narrativa di consumo fece una bandiera: Harold Robbins, l’autore di L’uomo che non sapeva amare. Distrutto dalla critica, ma trionfante nei numeri, non si limitò a striare il «rosa» con sesso e storie di squali della finanza. Si costruì poco alla volta, con metodo, una biografia somigliant­e a uno dei suoi volumi. Ma le regine dell’amore piccante rimanevano le donne. Un genere che poi è confluito nell’attuale provocativ­e romance, il filone delle Cinquanta sfumature, per capirci, o del sesso esplicito di Lisa Hilton. Che è nato anche dalla trasgressi­one della chick-lit, modello Candace Bushnell.

Nel genere rosa le donne hanno sperimenta­to, osato, forse anche sbagliato di più. E se pensiamo che, in ordine di tempo, l’ultima star del sentimento al maschile è John Green, quello di Colpa delle stelle che cosa possiamo concludere? Che c’è un ritorno al filone Love Story tra i maschi post-romantici? Forse. Ma una cosa è certa: in questo campo le donne non hanno dovuto cambiare nome al maschile per farsi pubblicare. Anzi, sono stati gli uomini a dover scegliere uno pseudonimo al femminile. Come Deanna Dwyer, nom de plume del celebre autore di thriller Dean Koontz, adottato quando scriveva storie un po’ rosa e un po’ gotiche. Capita.

rscorranes­e@corriere.it

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