Corriere della Sera - La Lettura
Narratori che scrivono d’amore senza dire che scrivono d’amore
Le nuove avventure di eroi ed eroine di Nicholas Sparks «Più che vicende sentimentali, io creo delle mini-vite»
Se s i e te u n u o mo, c i s o no buone probabilità che non riconosciate subito questo cinquantunenne elastico e vitaminizzato che risponde al nome di Nicholas Sparks. Ma ci sono probabilità altrettanto buone che la vostra fidanzata lo identifichi al volo. E siccome Sparks è stato tra le braccia, anzi no, tra le mani di 105 milioni di persone al mondo (sì, tanto hanno venduto i suoi romanzi, soprattutto tra le donne), forse è ora di chiedersi: che cosa sa lui più di me? Quale discorso sentimentale imbastisce così bene da imbambolare lettrici di almeno cinquanta Paesi? Ma soprattutto: come ha fatto a diventare uno dei più ricchi autori di storie d’amore negando di... scrivere d’amore?
O, meglio, la Sparks Formula, come l’hanno ribattezzata in Inghilterra, lui la riassume così: «Più che vicende sentimentali, io creo delle mini vite, esistenze nelle quali tutti si possono riconoscere». Almeno questo ha detto quando è uscito Two by Two, l’ultimo romanzo da poco tradotto anche in Italia con il titolo La vita in due. E questo è vero: pagina dopo pagina si diventa simili a Russ Green, il trentaduenne protagonista. Cioè si diventa giovani, idealisti, pubblicitari di successo, innamorati irriducibili della flessuosa moglie Vivian e della figlia London, e quasi ci convince a indossare una delle sue improponibili felpe, quelle che dicono subito chi sei: studente brillante delle migliori scuole e ora proprietario appagato di una villetta con giardino nel North Carolina (dove Sparks ambienta molte sue storie) con il sorriso incerto di chi — nei romanzi come nella vita — sa che tutto questo non può essere vero. E infatti, la «mini esistenza» di Russ diventa, di colpo, più simile alle nostre: perde il lavoro, azzarda con un’agenzia in proprio, Vivian lo lascia e London cade dalla bicicletta. Ed è solo l’inizio.
Ora, nei romanzi di Sparks queste cose succedono spesso: qualcuno finisce in disgrazia, qualcuno si fa un frullato, qualcuno muore, qualcuno si sente in colpa. Appunto, sono «vite in miniatura», che ritornano con qualche variante ma pur sempre ricorrenti. Questa coerenza narrativa è tra le chiavi del suo successo planetario e anche il motivo per cui alcuni critici letterari lo promuovono con entusiasmo (non ultimo, Antonio D’Orrico su «la Lettura»).
Però, diamine, per centinaia di pagine qui c’è il dolore del bravo giovane lasciato per un altro. Riga dopo riga vediamo il povero Russ che si rifiuta di mangiare e che aspetta il messaggino di Vivian. La tragedia del «visualizza ma non risponde» su Whatsapp lo fa ondeggiare in un’altalena tra il suicidio e il riscatto alla Rocky Balboa. Eppure Sparks si aumenterebbe il girovita di due centimetri pur di non sentir parlare di romance, storia d’amore. «Il genere che accomuna le mie opere — ha detto — è antico quanto la letteratura. È stato inventato duemila anni fa con Eschilo, Sofocle e Euripide. Le tragedie greche sono storie d’amore. Poi ci sono state le varianti di Shakespeare in Romeo e Giulietta e Addio alle armi di Hemingway».
Le ironie facili non rendono giustizia a una intelligente macchina nar- rativa come Sparks e ad altri come lui. Anche Anna Karenina, appena uscito, venne abbattuto dalla critica che lo definì «frivolo». E ricordiamoci che la più grande storia d’amore dell’Occidente contemporaneo, Love Story (romanzo, oltre che film), porta la firma di un raffinato grecista, docente di letteratura greca e latina a Yale e Princeton: Erich Segal, uno che di Eschilo se ne intendeva. E maschio, per giunta.
Michele Rak, ordinario di Scienze dei linguaggi all’Università di Siena, nel saggio Rosa. La letteratura del divertimento amoroso (Donzelli), parla di «andamento mitico» nei romanzi di genere, a dispetto della struttura e delle funzioni elementari. A volte, insomma, la narrativa di consumo, proprio perché non pone domande (come fa quella «alta») bensì ci «accompagna» nei desideri più intimi e nelle profondità pi ù ancestrali , r i s ul t a molto più abile a costruire una bella storia. Che è il fine ultimo di ogni scrittore. Il problema è nella reticenza di alcuni a definirsi autori di storie d’amore. Specie se maschi.
Sparks ricorre alla spiegazione delle tematiche universali come cardini delle sue opere, dicendo che i romance sono diversi. «Lì c’è uno schema predefinito, nei miei romanzi non c’è mai». Con molta più ironia, lo scrittore francese più venduto al mondo per i suoi libri grondanti sentimento, Marc Levy, risponde così a chi gli fa notare che a ogni uscita la critica lo massacra: « Eh bien, mais l’amour compte plus que le Goncourt » (il più importante premio letterario france- se). Nemmeno Levy osa definirsi autore di romance, nonostante le vagonate di destino, lacrime, addii-e-ritorni, anime gemelle e quella venatur a di miste ro c he a vo l te r i co rda Carolina Invernizio. E nonostante le copertine traboccanti di donne dai capelli al vento. Per non parlare dei titoli (nelle traduzioni italiane): Sparks ha scritto Le parole che non ti ho detto, Levy ha risposto con Quello che non ci siamo detti. Di certo, nessuno dei due finora ha detto: «Sissignori, scrivo d’amore e me ne vanto».
Se Barbara Cartland nel 1983 ammetteva: «Ho puntato tutto su bellezza e amore, la gente vuole romanticismo e felicità» e l’intelligente Sophie Kinsella (maestra nella declinazione glam della letteratura rosa) oggi spiega che «le lettrici hanno imparato a ridere di se stesse, anche dei sentimenti e dello shopping, quindi perché non scriverne?», l’austriaco Daniel Glattauer, autore di una favola moderna come Le ho mai raccontato del vento del Nord (Feltrinelli) è riluttante ad accettare l’etichetta di narratore romantico e si definisce feel-good-author. Cioè scrittore piacevole. E aggiunge, anche lui: «Invento storie verosimili».
Mini vite, insomma. Tutto sommato normali. Con buoni sentimenti, poco eros, tanti dialoghi. Ecco quello che potrebbe unire i più popolari scrittori di sentimenti, oggi. Non fa eccezione l’italiano Fabio Volo, che della normalità amorosa ha fatto un canone. Miti rassicuranti, distanti anni luce dalla spregiudicatezza delle madrine del genere bodice rippers (letteralmente «strappa corsetti»), l’inclinazione che il romanzo rosa al femminile prese a partire dagli anni Settanta e Ottanta. Nei romanzi di Jackie Collins o di Rosemary Rogers c’era sì l’amore, ma quasi ogni capitolo aveva una conclusione in orizzontale, possibilmente su lenzuola di seta. Ma all’epoca (e anche prima) ci fu un uomo che della narrativa di consumo fece una bandiera: Harold Robbins, l’autore di L’uomo che non sapeva amare. Distrutto dalla critica, ma trionfante nei numeri, non si limitò a striare il «rosa» con sesso e storie di squali della finanza. Si costruì poco alla volta, con metodo, una biografia somigliante a uno dei suoi volumi. Ma le regine dell’amore piccante rimanevano le donne. Un genere che poi è confluito nell’attuale provocative romance, il filone delle Cinquanta sfumature, per capirci, o del sesso esplicito di Lisa Hilton. Che è nato anche dalla trasgressione della chick-lit, modello Candace Bushnell.
Nel genere rosa le donne hanno sperimentato, osato, forse anche sbagliato di più. E se pensiamo che, in ordine di tempo, l’ultima star del sentimento al maschile è John Green, quello di Colpa delle stelle che cosa possiamo concludere? Che c’è un ritorno al filone Love Story tra i maschi post-romantici? Forse. Ma una cosa è certa: in questo campo le donne non hanno dovuto cambiare nome al maschile per farsi pubblicare. Anzi, sono stati gli uomini a dover scegliere uno pseudonimo al femminile. Come Deanna Dwyer, nom de plume del celebre autore di thriller Dean Koontz, adottato quando scriveva storie un po’ rosa e un po’ gotiche. Capita.
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