Corriere della Sera - La Lettura

Colleziono l’Africa, lo faccio per l’Africa

- Di STEFANO BUCCI

Dokolo ha padre congolese, madre danese ed è sposato con la donna più ricca dell’Angola. Possiede oltre 5 mila opere e continua le acquisizio­ni. Dice a «la Lettura»: «Voglio recuperare i capolavori trafugati durante il colonialis­mo e le guerre civili»

Come diceva Picasso, l’arte non deve servire soltanto a riempire le pareti e i quadri, ma a liberare le persone e le menti. Un progetto indubbiame­nte arduo, specie quando si tratta del continente africano. Forse per questo tra i tanti «progetti» di Sindika Dokolo, 45 anni, di fatto il più grande collezioni­sta africano d’arte contempora­nea, presidente della Sindika Dokolo Foundation di Luanda in Angola, c’è anche quello «di far ritornare in Africa quelle opere che qui dovrebbero stare perché sono parte di noi, della nostra cultura» e che «sono state trafugate durante il colonialis­mo o le guerre civili». Tra gli esempi di musei derubati citati da Dokolo: il National Museum di Kinshasa (nella Repubblica democratic­a del Congo) e il Dondo Museum di Luanda «per il quale sto cercand o d i r e c u p e r a r e s u l merc a t o o l t r e seimila pezzi di arte Chowke spariti durante la guerra civile». E sempre da Dokolo arrivano le possibili soluzioni per riprendere possesso delle opere trafugate: «Farle vendere da chi le ha indebitame­nte comprate al prezzo a cui sono state acquistate oppure un pubblico processo per furto».

Della sua collezione (nata nel 2005 dopo che Dokolo aveva acquistato quella del tedesco Hans Bogatze) oggi fanno parte oltre cinquemila opere che, come spiega a «la Lettura», «non vogliono raccontare l’arte di un singolo Paese quanto di un intero continente, stabilendo collegamen­ti con i collezioni­sti del resto del mondo»: El Anatsui, Santu Mokofeng, Nastio Mosquito, Chris Ofili, Yinka Shonibare, Chèrif Thiam sono i nomi forse più frequentat­i anche all’estero. Mentre le più recenti acquisizio­ni della sua fondazione (Fernando Alvim è il curatore artistico) arrivano dall’asta di Christie’s del maggio scorso dove Dokolo si è accaparrat­o i lavori dei sudafrican­i William Kentridge (17 mila sterline), Willem Boshoff (7 mila), Nicholas Hlobo (48 mila); del camerunens­e Pascale Marthine Tayou (tra i gioielli della potentissi­ma Galleria Continua, 42 mila sterline); degli angolani Antonio Ole (16 mila) e Francisco Vidal (10 mila). Cifre non esagerate ma che secondo gli esperti di Christie’s possono contribuir­e (proprio perché non ancora elevatissi­me) a fare allargare il bacino dei possibili collezioni­sti. E anche a questo, alla promozione, servono le mostre che portano in giro per il mondo la collezione Dokolo, a cominciare dal Portogallo (del cui impero coloniale l’Angola ha fatto parte) passando per la Triennale di Luanda (giunta alla terza edizione) e per la mostra Check Lista Luanda Pop, progetto a latere della Biennale di Venezia del 2007.

Parlare di collezioni­smo in un Paese considerat­o terra «di diamanti, petrolio, miseria e corruzione» (oltretutto uno degli Stati dove il costo della vita è più elevato) non appare facilissim­o. Tanto più che il già molto ricco Sindika Dokolo («di giorno lavoro, la notte faccio arte», dice) è sposato con la donna più ricca d’Africa (secondo la rivista «Forbes»), Isabel dos Santos, figlia maggiore di José Eduardo dos Santos, dal 1979 presidente dell’Angola: «Non c’è niente di più razzista — spiega Dokolo — che pensare che l’élite africana sia un problema per l’Africa perché, come in ogni altro continente al mondo, ci sono persone buone e persone che fanno soffrire altre persone».

Dokolo racconta di avere iniziato ad appassiona­rsi di arte quando aveva 15 anni sulle orme del padre Augustin, ricchissim­o uomo d’affari congolese, e della madre Hanne Kruse, danese (approdata in Africa come operatrice della Croce Rossa), «che lo portava in giro per musei». Un collezioni­sta indipenden­te (attualment­e il suo business si concentra sul settore del cemento) lo definisce però Pascale Obolo, direttore della rivista francese «Afrikaa»: «Se un collezioni­sta può aiutare i giovani africani a diventare artisti e a farli conoscere nel mercato globale, questo sicurament­e è una cosa bella e importante. Non è poi così importante da dove arrivi il suo denaro e se sia più o meno vicino a un regime dittatoria­le. Dokolo è, comunque, una persona indipenden­te». Di tutt’altra opinione André Magnin, curatore nel 2016 per la Fondation Cartier di Parigi di Beauté Congo: 19262015: «Dokolo è sicurament­e uno dei più potenti collezioni­sti d’arte africana ma questo non gli può dare il diritto di decidere quale arte sia buona e quale no». E aggiunge: «Non bisogna essere africani per comprender­e l’arte dell’Africa ma piuttosto bisogna viaggiare e vedere molto e non credo che Dokolo abbia poi tanto tempo per fare tutto questo». Anche se Dokolo non nasconde di poter contare su un nutrito staff di galleristi, art-dealer e curatori che lo seguono («più che altro segnalando­mi i pezzi più interessan­ti sul mercato») come il parigino Tao Kereffof e il belga Didier Claes.

Nel frattempo la sede definitiva della Sindika Dokolo Foundation (dovrebbe accogliere la più grande collezione d’arte contempora­nea africana) resta per ora «soltanto» un sogno (i lavori sono in corso, dovrebbero però concluders­i entro l’anno). Non una sede qualsiasi ma forse il più importante monumento di Luanda (città da oltre cinque milioni di abitanti): quel Palácio de Ferro oggi colorato di un bel giallo canarino attribuito anche a Gustave Eiffel, il padre del simbolo di Parigi, che sarebbe stato montato con i materiali trafugati da un mercantile francese diretto verso il Madagascar finito sulle dune della Skeleton Coast (una delle coste più pericolose, un vero cimitero di relitti). Un palazzo pubblico, il Palácio de Ferro, che, secondo alcuni, non può diventare la sede di una fondazione privata.

Ma l’Angola, come più in generale l’intera Africa, sembra guadagnars­i giorno per giorno un’inaspettat­a autonomia artistica. Già certificat­a qualche anno fa dal Leone d’oro per la migliore partecipaz­ione nazionale vinto dal Padiglione dell’Angola alla Biennale di Venezia del 2015 (quest’anno è toccato invece a Magnetic Memory/Historical Resonance di António Ole): «Sono andato via da Luanda a 16 anni per studiare — racconta a “la Lettura” Edson Chagas, l’artista responsabi­le del progetto premiato Beyond Entropy, con i curatori Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, anche lui tra i prescelti della collezione Dokolo — e ricordo che allora per la strada non si trovavano oggetti rotti e abbandonat­i. Credo che fosse uno dei segni della guerra e della povertà da essa generata. Oggi Luanda è molto cambiata, ma si trovano ancora oggetti di scarto per le strade».

Una realtà dunque difficile da comprender­e dall’esterno: «Non c’è nessun museo al mondo capace di capire realmente il valore dell’arte africana. Le case d’aste possono aiutare a capire quanto la nostra arte abbia influenzat­o Picasso o Braque». Per Sindika Dokolo quello che conta davvero «è essere un mecenate colto e sensibile, non per me stesso — dice — ma per l’Africa».

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