Corriere della Sera - La Lettura
Colleziono l’Africa, lo faccio per l’Africa
Dokolo ha padre congolese, madre danese ed è sposato con la donna più ricca dell’Angola. Possiede oltre 5 mila opere e continua le acquisizioni. Dice a «la Lettura»: «Voglio recuperare i capolavori trafugati durante il colonialismo e le guerre civili»
Come diceva Picasso, l’arte non deve servire soltanto a riempire le pareti e i quadri, ma a liberare le persone e le menti. Un progetto indubbiamente arduo, specie quando si tratta del continente africano. Forse per questo tra i tanti «progetti» di Sindika Dokolo, 45 anni, di fatto il più grande collezionista africano d’arte contemporanea, presidente della Sindika Dokolo Foundation di Luanda in Angola, c’è anche quello «di far ritornare in Africa quelle opere che qui dovrebbero stare perché sono parte di noi, della nostra cultura» e che «sono state trafugate durante il colonialismo o le guerre civili». Tra gli esempi di musei derubati citati da Dokolo: il National Museum di Kinshasa (nella Repubblica democratica del Congo) e il Dondo Museum di Luanda «per il quale sto cercand o d i r e c u p e r a r e s u l merc a t o o l t r e seimila pezzi di arte Chowke spariti durante la guerra civile». E sempre da Dokolo arrivano le possibili soluzioni per riprendere possesso delle opere trafugate: «Farle vendere da chi le ha indebitamente comprate al prezzo a cui sono state acquistate oppure un pubblico processo per furto».
Della sua collezione (nata nel 2005 dopo che Dokolo aveva acquistato quella del tedesco Hans Bogatze) oggi fanno parte oltre cinquemila opere che, come spiega a «la Lettura», «non vogliono raccontare l’arte di un singolo Paese quanto di un intero continente, stabilendo collegamenti con i collezionisti del resto del mondo»: El Anatsui, Santu Mokofeng, Nastio Mosquito, Chris Ofili, Yinka Shonibare, Chèrif Thiam sono i nomi forse più frequentati anche all’estero. Mentre le più recenti acquisizioni della sua fondazione (Fernando Alvim è il curatore artistico) arrivano dall’asta di Christie’s del maggio scorso dove Dokolo si è accaparrato i lavori dei sudafricani William Kentridge (17 mila sterline), Willem Boshoff (7 mila), Nicholas Hlobo (48 mila); del camerunense Pascale Marthine Tayou (tra i gioielli della potentissima Galleria Continua, 42 mila sterline); degli angolani Antonio Ole (16 mila) e Francisco Vidal (10 mila). Cifre non esagerate ma che secondo gli esperti di Christie’s possono contribuire (proprio perché non ancora elevatissime) a fare allargare il bacino dei possibili collezionisti. E anche a questo, alla promozione, servono le mostre che portano in giro per il mondo la collezione Dokolo, a cominciare dal Portogallo (del cui impero coloniale l’Angola ha fatto parte) passando per la Triennale di Luanda (giunta alla terza edizione) e per la mostra Check Lista Luanda Pop, progetto a latere della Biennale di Venezia del 2007.
Parlare di collezionismo in un Paese considerato terra «di diamanti, petrolio, miseria e corruzione» (oltretutto uno degli Stati dove il costo della vita è più elevato) non appare facilissimo. Tanto più che il già molto ricco Sindika Dokolo («di giorno lavoro, la notte faccio arte», dice) è sposato con la donna più ricca d’Africa (secondo la rivista «Forbes»), Isabel dos Santos, figlia maggiore di José Eduardo dos Santos, dal 1979 presidente dell’Angola: «Non c’è niente di più razzista — spiega Dokolo — che pensare che l’élite africana sia un problema per l’Africa perché, come in ogni altro continente al mondo, ci sono persone buone e persone che fanno soffrire altre persone».
Dokolo racconta di avere iniziato ad appassionarsi di arte quando aveva 15 anni sulle orme del padre Augustin, ricchissimo uomo d’affari congolese, e della madre Hanne Kruse, danese (approdata in Africa come operatrice della Croce Rossa), «che lo portava in giro per musei». Un collezionista indipendente (attualmente il suo business si concentra sul settore del cemento) lo definisce però Pascale Obolo, direttore della rivista francese «Afrikaa»: «Se un collezionista può aiutare i giovani africani a diventare artisti e a farli conoscere nel mercato globale, questo sicuramente è una cosa bella e importante. Non è poi così importante da dove arrivi il suo denaro e se sia più o meno vicino a un regime dittatoriale. Dokolo è, comunque, una persona indipendente». Di tutt’altra opinione André Magnin, curatore nel 2016 per la Fondation Cartier di Parigi di Beauté Congo: 19262015: «Dokolo è sicuramente uno dei più potenti collezionisti d’arte africana ma questo non gli può dare il diritto di decidere quale arte sia buona e quale no». E aggiunge: «Non bisogna essere africani per comprendere l’arte dell’Africa ma piuttosto bisogna viaggiare e vedere molto e non credo che Dokolo abbia poi tanto tempo per fare tutto questo». Anche se Dokolo non nasconde di poter contare su un nutrito staff di galleristi, art-dealer e curatori che lo seguono («più che altro segnalandomi i pezzi più interessanti sul mercato») come il parigino Tao Kereffof e il belga Didier Claes.
Nel frattempo la sede definitiva della Sindika Dokolo Foundation (dovrebbe accogliere la più grande collezione d’arte contemporanea africana) resta per ora «soltanto» un sogno (i lavori sono in corso, dovrebbero però concludersi entro l’anno). Non una sede qualsiasi ma forse il più importante monumento di Luanda (città da oltre cinque milioni di abitanti): quel Palácio de Ferro oggi colorato di un bel giallo canarino attribuito anche a Gustave Eiffel, il padre del simbolo di Parigi, che sarebbe stato montato con i materiali trafugati da un mercantile francese diretto verso il Madagascar finito sulle dune della Skeleton Coast (una delle coste più pericolose, un vero cimitero di relitti). Un palazzo pubblico, il Palácio de Ferro, che, secondo alcuni, non può diventare la sede di una fondazione privata.
Ma l’Angola, come più in generale l’intera Africa, sembra guadagnarsi giorno per giorno un’inaspettata autonomia artistica. Già certificata qualche anno fa dal Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale vinto dal Padiglione dell’Angola alla Biennale di Venezia del 2015 (quest’anno è toccato invece a Magnetic Memory/Historical Resonance di António Ole): «Sono andato via da Luanda a 16 anni per studiare — racconta a “la Lettura” Edson Chagas, l’artista responsabile del progetto premiato Beyond Entropy, con i curatori Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento, anche lui tra i prescelti della collezione Dokolo — e ricordo che allora per la strada non si trovavano oggetti rotti e abbandonati. Credo che fosse uno dei segni della guerra e della povertà da essa generata. Oggi Luanda è molto cambiata, ma si trovano ancora oggetti di scarto per le strade».
Una realtà dunque difficile da comprendere dall’esterno: «Non c’è nessun museo al mondo capace di capire realmente il valore dell’arte africana. Le case d’aste possono aiutare a capire quanto la nostra arte abbia influenzato Picasso o Braque». Per Sindika Dokolo quello che conta davvero «è essere un mecenate colto e sensibile, non per me stesso — dice — ma per l’Africa».