Corriere della Sera - La Lettura
L’attrice che mise i pantaloni Gli scandali di Lyda Borelli
C’era Eleonora Duse, naturalmente. E c’era Francesca Bertini. E poi c’era lei, diva del cinema muto ma con la lingua molto tagliente, una delle grandi interpreti del primo Novecento. Un libro, una mostra e un film celebrano la donna che in scena rinunciò alla gonna per indossare una jupe-culotte. E aprire la strada al femminismo
Oltre la Duse c’è lei, Lyda Borelli, la diva del cinema muto. Nel seminterrato della sua casa a Roma, Domizia Alliata aveva decine di scatoloni pieni di ricordi di famiglia che nel tempo erano stati aggrediti da muffe e allagamenti. «Con mia grande sorpresa apparvero diversi materiali d’epoca relativi a Lyda Borelli, la nonna materna, di cui in casa si esitava a parlare». Lyda Borelli è stata, con Francesca Bertini, una delle grandi attrici del primo Novecento. In quella cantina sono state ritrovate lettere di Gabriele d’Annunzio, Ada Negri, Guido Gozzano, Matilde Serao; ritagli di giornale; foto che la ritraggono nella tournée in Sudamerica, sui primi rudimentali monoplani accanto al pilota, o al volante di un’automobile: «Il mio più gran piacere è quello di slanciarmi sull’auto, godendo di riempirmi i polmoni con un torrente d’aria. È la febbre del possesso, del dominio». Ecco che quel volto preraffaellita, gioioso e enigmatico, riprese i suoi lineamenti, quegli «occhi pensosi», quelle immagini antiche piene di «mondanità garbata» si fecero emozione nei discendenti che le guardavano. La nipote era «confusa, titubante e allo steso tempo desiderosa di conoscere… era giunto il momento di rendere pubblico quello che finora era rimasto privato?».
Non si tratta solo di un affetto familiare ritrovato. Lyda Borelli, con il suo modo di vivere fuori e dentro l a s ce na, è st a t a una donna coraggiosa e emancipata, una sorta di pioniera del femminismo. Diceva: «Bisogna sfatare la leggenda che attribuisce alle donne tutto ciò che è debole e fatuo». Dettò le mode per la ricchezza di toilettes che ne esaltavano avvenenza e grazia fisica. Fu la prima a recitare senza gonna, in jupeculotte, il primo pantalone femminile (creato a Parigi), nel 1911 durante Il Marchese di Priola di Henri Lavedan al Teatro Politeama Nazionale di Firenze: il cronista del «Corriere della Sera» telegrafò: «La great attraction della serata era costituita dal fatto che Lyda Borelli doveva vestire la jup-culotte. Il pubblico ha accolto l’entrata della bella artista con un mormorio indefinibile», l’indomani scoppiò il caso tra favorevoli e contrari sugli altri giornali: «movenze feline»; no, «goffa, sgraziata».
Incarnò l’immagine di quel gusto decadente che nel volgere di poco sarebbe stato inghiottito dai cannoni e dalle trincee della Prima guerra mondiale e dalle avanguardie letterarie e artistiche che facevano capo al Futurismo; un’attrice che smetteva di essere la bella statuina alla mercé del gusto maschile. Aderì all’idea di Eleonora Duse per la costruzione di una casa biblioteca per le giovani attrici a Roma, dove poter studiare e riposare tra una tournée e l’altra. Le copertine dei settimanali la ritraevano con le gambe accavallate e la mano appoggiata al mento, postura non comune per una donna dell’epoca.
L’insieme dei ricordi è stato riordinato e accompagnato da alcuni saggi confluiti nel volume Il teatro di Lyda Borelli, a cura di Maria Ida Biggi e Marianna Zannoni (Fratelli Alinari): dagli esordi all’addio alla scena. Il primo settembre si aprirà una mostra su di lei alla Fondazione Cini di Venezia, e la Fenice il 4 ospiterà il film Rapsodia satanica con musica dal vivo di Mascagni, che scrisse la colonna sonora.
Figlia d’arte, era nata a La Spezia il 22 marzo 1887. A 16 anni entrò nell’importante compagnia di Vittorio Talli e € Irma Gramatica. Nel 1904 partecipò a un evento storico nel mondo teatrale: la prima de La figlia di Iorio di d’Annunzio. Per Renato Simoni, il ruolo di Favetta con quel volto da madonna botticelliana è un’immagine «di grazia e di primavera». A 22 anni fu lanciata come primadonna dal grande Ruggero Ruggeri, che le affidò il ruolo pericoloso e perverso di Salomè: trasformò il bacio crudele sulle labbra della testa mutilata del profeta, il macabro trofeo, nel suo cavallo di battaglia. I critici lodavano le parti «di sentimento» restituite dalla sua voce roca. Nella Signora delle camelie morì non rivolta verso il pubblico, ma dandogli le spalle, mostrando solo le mani affilate, sottili, corrose dalla tisi: non l’aveva mai fatto nessuna attrice. D’Annunzio le scrisse: «Cara amica, Achille Ricciardi mio compagno ardentissimo viene a riporre un manoscritto su le vostre ginocchia probabilmente perfette». Al cinema esordì nel 1913 con Ma l’amor mio non muore! di Mario Caserini (interpreta un’attrice che veste i panni di Salomè). Potenza drammatica, sentimenti esplosivi: il cinema muto. Nell’arte del silenzio fu altrettanto brillante che nell’arte della parola. La sua popolarità esplose, ma lei si lamentava dello schermo: «Non ci si può truccare, una minima ruga viene ingrandita ed è perciò che non tutte le artiste possono lavorare». Una rivista pubblicò un referendum su di lei, coinvolgendo artisti e scrittori. «Qual è il vostro giudizio sulla bellezza di Lyda Borelli?». Silvio D’Amico dopo una prima al Valle di Roma: «Non è lecito ad una attrice esser bella fino a questo punto. E d’arte, oh Dio, si parlerà un’altra volta». Colta e raffinata, Lyda si inserì nel mondo intellett ual e, parteci pò a l Congresso Femminile di Cultura, parlava di Henry Bataille i cui personaggi passionali amava più di ogni altro, all’entrata in guerra dell’Italia si presentò al Teatro Manzoni di Milano impugnando il tricolore. Ma nel 1917 arrivò la stroncatura di Antonio Gramsci sulle pagine de «L’Avanti», ideologicamente contrario al teatro commerciale e borghese: «Nessuno sa spiegare cosa sia l’arte della Borelli, perché essa non esiste. Non sa interpretare nessuna creatura diversa da se stessa». Scrisse Orio Vergani: «Con lei si chiude un’epoca, un gusto, uno stile. Lyda Borelli aveva immortalato e bruciato al tempo stesso le immagini e gli accenti di tutta una generazione». Un’attrice unica, tanto che lo stile dannunziano dei suoi atteggiamenti, da ruoli estremi allora scandalosi come quello di Salomè di Oscar Wilde che lei portò al trionfo dopo l’insuccesso iniziale, al tipo di abbigliamento con i monumentali cappelli, le valse perfino un neologismo: nel Dizionario moderno del Panzini, c’è il termine «borelleggiare». «L’incantesimo di una creatura perfetta», scriveva Matilde Serao. Certo è curiosa la sua parabola. Come racconta Maria Ida Biggi, direttore dell’Istituto per il teatro e il melodramma della Fondazione Giorgio Cini, a quarant’anni dalla scomparsa del marito, il conte e senatore Vittorio Cini che, «vittima del pregiudizio di quanti vedevano un che di maledetto nel mestiere del teatro, aveva fatto di tutto per rimuovere le testimonianze della brillante carriera della moglie», la Fondazione che porta il nome dell’unico figlio di Vittorio e Lyda onora la memoria di quella grande attrice, morta nel 1959.