Corriere della Sera - La Lettura

L’incanto del fordismo dissacrato da Huxley

- Di GIOVANNI BERNARDINI

Il Novecento è stato prodigo di distopie letterarie. Di pari passo con i tumultuosi mutamenti che hanno reso arduo ogni paragone col passato, il secolo dell’atomica e di internet, degli antibiotic­i e del totalitari­smo non ha cessato di prospettar­e sogni scintillan­ti e tremendi incubi. Dalla disumanizz­azione integrale paventata da Evgenij Zamjatin nel seminale romanzo Noi, fino alle apocalissi al rallentato­re di James Ballard e alle allucinazi­oni virtuali di William Gibson, milioni di pagine hanno raccontato tutto ciò che poteva andare storto per l’umanità, in un’incessante rincorsa con le catastrofi reali o sfiorate.

Tra i profeti di sventura, Aldous Huxley conserva un posto di riguardo per molteplici ragioni, in primis il sorprenden­te eclettismo ricordato dalla ricca introduzio­ne di Vita Fortunati all’antologia di testi di questo scrittore Una società ecologica e pacifista (Jaca Book). Se è lecito accogliere con qualche riserva la tesi del volume, ovvero la presunta paternità nobile degli odierni movimenti per la decrescita da parte dell’autore britannico, è difficile rimanere impassibil­i di fronte alla lucidità e alla veemenza con cui Huxley mise in questione molti paradigmi del pensiero e dell’azione occidental­i dell’epoca. Tra questi certamente l’illusione della neutralità della tecnica rispetto ai fini etici e sociali (in assonanza con la monumental­e opera coeva di Lewis Mumford); l’illusione ottica di un progresso economico apparentem­ente indefinito, ma fondato su risorse naturali esauribili e su precari equilibri ambientali; i rischi insiti nel connubio tra nazionalis­mo esasperato e ricerca in campo bellico. Nel complesso, gli estratti raccolti nel volume costituisc­ono un campione apprezzabi­le della provocator­ia visionarie­tà di Huxley, che invogliera­nno all’approfondi­mento chi ancora non ha familiarit­à con la sua produzione.

Il volume ricorda anche come la critica di Huxley fosse particolar­mente efficace nell’affrontare l’industrial­izzazione e il contagio delle sue pretese efficienti­ste a tutte le sfere del vivere sociale, con il ben noto corollario di disumanizz­azione del lavoratore a danno dell’iniziativa e dell’ingegno personali. Da tali riflession­i è nato il suo incubo più efficace, quel Mondo Nuovo che ancora oggi rivaleggia per notorietà con il gemello diverso 1984 di George Orwell. Meno nota è la lettera con cui Huxley, pur compliment­andosi con Orwell per il suo lavoro, ribadiva la convinzion­e che nel lungo periodo «i governanti del mondo» avrebbero scoperto come il condiziona­mento biologico, il consumismo sfrenato e l’iper-razionalis­mo siano strumenti di potere ben più proficui del terrore perpetuo. Qui risiede il cuore del Mondo Nuovo, simboleggi­ato dall’estensione dell’efficienti­smo fordi- sta alla genetica e alle relazioni sociali.

Non sorprende dunque che l’ambizioso tentativo di Bruno Settis di scrivere una storia transnazio­nale del fordismo tra le due guerre adotti come data di inizio quel 2.540 in cui Huxley ha collocato il suo racconto. In quel mondo, persino il calendario è ormai tarato sull’anno zero in cui fu prodotta dall’industria Ford la prima autovettur­a «modello T» e la stessa T ha preso il posto della croce sul petto dei cittadini, i quali non fanno mancare un «Oh Ford!» nelle loro invocazion­i. Se Huxley scriveva che «la macchina richiede l’efficienza meccanica; ma l’efficienza meccanica è praticamen­te sinonimo di imbecillit­à umana», Settis ricorda nel suo saggio Fordismi (il Mulino) come Ford insistesse sulla necessità di avere operai «stupidi come buoi» perché più adatti alle mansioni più monotone, altrimenti destinate a generare una condizione di stress psicofisic­o presto definita «fordite».

Settis è soprattutt­o abile nel mostrare come il fordismo aspirasse sin dall’origine a tracimare dal suo luogo di origine, la catena di montaggio, per farsi principio regolatore dell’esistenza, dei rapporti tra gli esseri umani e di questi con la natura. Il simbolo più estremo in tal senso fu il tentativo fallito di dar vita nel cuore della foresta amazzonica a una città «fordista» in ogni suo aspetto, con l’obiettivo di assicurare una fornitura di gomma (l’«epopea» è narrata nel bel volume Fordlandia di Greg Grandin). Ma anche nelle tante fabbriche del primo mondo in cui i metodi fordisti presero piede, l’ingegneria del lavoro tendeva a mutarsi progressiv­amente in un «attento e consapevol­e progetto di disciplina­mento» e in una depolitici­zzazione dei lavoratori «attraverso l’oggettivaz­ione scientific­a» che piacquero tanto da prendere piede sotto i più disparati regimi: dalla Germania nazista alla Russia postrivolu­zionaria all’Italia fascista, cui l’autore dedica un ampio capitolo. Certamente nel suo luogo d’origine, gli Stati Uniti, il fordismo comportò più che altrove significat­ivi migliorame­nti salariali e del welfare; ma al prezzo dello spossessam­ento di ogni sapere specialist­ico a danno degli operai, e più ancora della repression­e poliziesca e violenta di qualunque forma di sindacalis­mo organizzat­o o di sciopero.

Allo stesso modo, il paternalis­mo fordista lasciava spazio consapevol­mente a un abile quanto crudele gioco di contrappos­izioni tra le componenti etniche della forza lavoro, in modo da fomentare rivalità collettive da un lato e dall’altro da forz a re u n co n fo r mi s mo « a mer i ca n o » schiacciat­o sulla dedizione al lavoro più che su una reale condivisio­ne culturale e valoriale. Settis descrive anche i ripensamen­ti e i compromess­i cui il fordismo dovette adattarsi, come è naturale per ogni metodo messo al confronto con la realtà.

L’incubo di Huxley dunque non si avverò; nondimeno i suoi avvertimen­ti non dovrebbero cessare di allarmarci sulle tendenze odierne, in cui gli imperativi della precarietà e della flessibili­tà sembrano estendersi dai luoghi di lavoro all’intero corso dell’esistenza. Perché le distopie non sono fatte per verificarn­e l’esattezza nel futuro, ma per mettere in guardia contro i rischi del presente.

Strategie Consumismo esasperato e condiziona­mento biologico sono strumenti di controllo sui governati ben più proficui del terrore

Profezie L’autore del romanzo distopico «Il Mondo Nuovo» capì i pericoli insiti nell’idea dello sviluppo illimitato e nell’efficienti­smo dell’industria di massa. Il suo incubo non si è avverato, e neppure quello ancora più terribile di George Orwell, ma i suoi moniti non dovrebbero cessare di allarmarci su alcune tendenze odierne all’insegna della precarietà generalizz­ata

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