Corriere della Sera - La Lettura
L’incanto del fordismo dissacrato da Huxley
Il Novecento è stato prodigo di distopie letterarie. Di pari passo con i tumultuosi mutamenti che hanno reso arduo ogni paragone col passato, il secolo dell’atomica e di internet, degli antibiotici e del totalitarismo non ha cessato di prospettare sogni scintillanti e tremendi incubi. Dalla disumanizzazione integrale paventata da Evgenij Zamjatin nel seminale romanzo Noi, fino alle apocalissi al rallentatore di James Ballard e alle allucinazioni virtuali di William Gibson, milioni di pagine hanno raccontato tutto ciò che poteva andare storto per l’umanità, in un’incessante rincorsa con le catastrofi reali o sfiorate.
Tra i profeti di sventura, Aldous Huxley conserva un posto di riguardo per molteplici ragioni, in primis il sorprendente eclettismo ricordato dalla ricca introduzione di Vita Fortunati all’antologia di testi di questo scrittore Una società ecologica e pacifista (Jaca Book). Se è lecito accogliere con qualche riserva la tesi del volume, ovvero la presunta paternità nobile degli odierni movimenti per la decrescita da parte dell’autore britannico, è difficile rimanere impassibili di fronte alla lucidità e alla veemenza con cui Huxley mise in questione molti paradigmi del pensiero e dell’azione occidentali dell’epoca. Tra questi certamente l’illusione della neutralità della tecnica rispetto ai fini etici e sociali (in assonanza con la monumentale opera coeva di Lewis Mumford); l’illusione ottica di un progresso economico apparentemente indefinito, ma fondato su risorse naturali esauribili e su precari equilibri ambientali; i rischi insiti nel connubio tra nazionalismo esasperato e ricerca in campo bellico. Nel complesso, gli estratti raccolti nel volume costituiscono un campione apprezzabile della provocatoria visionarietà di Huxley, che invoglieranno all’approfondimento chi ancora non ha familiarità con la sua produzione.
Il volume ricorda anche come la critica di Huxley fosse particolarmente efficace nell’affrontare l’industrializzazione e il contagio delle sue pretese efficientiste a tutte le sfere del vivere sociale, con il ben noto corollario di disumanizzazione del lavoratore a danno dell’iniziativa e dell’ingegno personali. Da tali riflessioni è nato il suo incubo più efficace, quel Mondo Nuovo che ancora oggi rivaleggia per notorietà con il gemello diverso 1984 di George Orwell. Meno nota è la lettera con cui Huxley, pur complimentandosi con Orwell per il suo lavoro, ribadiva la convinzione che nel lungo periodo «i governanti del mondo» avrebbero scoperto come il condizionamento biologico, il consumismo sfrenato e l’iper-razionalismo siano strumenti di potere ben più proficui del terrore perpetuo. Qui risiede il cuore del Mondo Nuovo, simboleggiato dall’estensione dell’efficientismo fordi- sta alla genetica e alle relazioni sociali.
Non sorprende dunque che l’ambizioso tentativo di Bruno Settis di scrivere una storia transnazionale del fordismo tra le due guerre adotti come data di inizio quel 2.540 in cui Huxley ha collocato il suo racconto. In quel mondo, persino il calendario è ormai tarato sull’anno zero in cui fu prodotta dall’industria Ford la prima autovettura «modello T» e la stessa T ha preso il posto della croce sul petto dei cittadini, i quali non fanno mancare un «Oh Ford!» nelle loro invocazioni. Se Huxley scriveva che «la macchina richiede l’efficienza meccanica; ma l’efficienza meccanica è praticamente sinonimo di imbecillità umana», Settis ricorda nel suo saggio Fordismi (il Mulino) come Ford insistesse sulla necessità di avere operai «stupidi come buoi» perché più adatti alle mansioni più monotone, altrimenti destinate a generare una condizione di stress psicofisico presto definita «fordite».
Settis è soprattutto abile nel mostrare come il fordismo aspirasse sin dall’origine a tracimare dal suo luogo di origine, la catena di montaggio, per farsi principio regolatore dell’esistenza, dei rapporti tra gli esseri umani e di questi con la natura. Il simbolo più estremo in tal senso fu il tentativo fallito di dar vita nel cuore della foresta amazzonica a una città «fordista» in ogni suo aspetto, con l’obiettivo di assicurare una fornitura di gomma (l’«epopea» è narrata nel bel volume Fordlandia di Greg Grandin). Ma anche nelle tante fabbriche del primo mondo in cui i metodi fordisti presero piede, l’ingegneria del lavoro tendeva a mutarsi progressivamente in un «attento e consapevole progetto di disciplinamento» e in una depoliticizzazione dei lavoratori «attraverso l’oggettivazione scientifica» che piacquero tanto da prendere piede sotto i più disparati regimi: dalla Germania nazista alla Russia postrivoluzionaria all’Italia fascista, cui l’autore dedica un ampio capitolo. Certamente nel suo luogo d’origine, gli Stati Uniti, il fordismo comportò più che altrove significativi miglioramenti salariali e del welfare; ma al prezzo dello spossessamento di ogni sapere specialistico a danno degli operai, e più ancora della repressione poliziesca e violenta di qualunque forma di sindacalismo organizzato o di sciopero.
Allo stesso modo, il paternalismo fordista lasciava spazio consapevolmente a un abile quanto crudele gioco di contrapposizioni tra le componenti etniche della forza lavoro, in modo da fomentare rivalità collettive da un lato e dall’altro da forz a re u n co n fo r mi s mo « a mer i ca n o » schiacciato sulla dedizione al lavoro più che su una reale condivisione culturale e valoriale. Settis descrive anche i ripensamenti e i compromessi cui il fordismo dovette adattarsi, come è naturale per ogni metodo messo al confronto con la realtà.
L’incubo di Huxley dunque non si avverò; nondimeno i suoi avvertimenti non dovrebbero cessare di allarmarci sulle tendenze odierne, in cui gli imperativi della precarietà e della flessibilità sembrano estendersi dai luoghi di lavoro all’intero corso dell’esistenza. Perché le distopie non sono fatte per verificarne l’esattezza nel futuro, ma per mettere in guardia contro i rischi del presente.
Strategie Consumismo esasperato e condizionamento biologico sono strumenti di controllo sui governati ben più proficui del terrore
Profezie L’autore del romanzo distopico «Il Mondo Nuovo» capì i pericoli insiti nell’idea dello sviluppo illimitato e nell’efficientismo dell’industria di massa. Il suo incubo non si è avverato, e neppure quello ancora più terribile di George Orwell, ma i suoi moniti non dovrebbero cessare di allarmarci su alcune tendenze odierne all’insegna della precarietà generalizzata