Corriere della Sera - La Lettura
Plata o plomo, soldi o piombo La lunga Colombia di Escobar
«Killing Pablo», da poco uscito, racconta il ventennio del re della droga ed è alla base della serie su Netflix. Parla l’autore Mark Bowden
ark Bowden scrive. Scrive da sempre. Maledettamente bene, documentato e diretto. Originario di Saint Louis, il 66enne formatosi nel «Philadelphia Inquirer» e divenuto giornalista investigativo tra i migliori al mondo, è autore di articoli e libri d’inchiesta, con la predilezione — sua ammissione — per i secondi. In questa conversazione con «la Lettura», Bowden confessa di non riuscire nemmeno a immaginare di potere far altro nella vita. «Io amo raccontare storie e i libri mi danno il maggior spazio possibile per esplorarle». Un’opportunità, prima che una fatica: «Rispetto alla maggioranza delle persone, ho la fortuna di conoscere come e perché le cose accadono, e di entrare in contatto diretto con i protagonisti». E così avviene, nelle storie che Bowden ci regala.
Colmando una grave lacuna dell’editoria italiana, il 29 giugno Rizzoli ha mandato in libreria la traduzione di Killing Pablo (il titolo, riuscitissimo, è rimasto inalterato), ispiratore della sceneggiatura di Narcos, l’acclamata serie televisiva della piattaforma online Netflix. Pubblicato nel 2001 e imperniato sulla cattura del re della droga Pablo Escobar, Killing Pablo è il viaggio d’un cronista direttamente alla fonte, nei luoghi dei fatti e dei personaggi. Un’operazione necessaria per capire fino in fondo. Si fosse limitato all’esame delle carte delle inchieste e a telefonate ai testimoni, forse Bowden non avrebbe colto un passaggio centrale nella parabola di un criminale, di un popolo, di un’era. Questo, riassunto in due righe: «Talvolta il destino di un’intera nazione può dipendere dall’integrità di un singolo uomo».
Quell’uomo era il colonnello Hugo Martínez, ufficiale della polizia colombiana: rifiutò una mazzetta di sei milioni di dollari offerta da Escobar in una fase di enorme ascesa criminale. Con quella scelta in quel preciso momento, il colonnello svolse un ruolo decisivo nella battaglia contro il re della droga?
«Martínez ricoprì un incarico rifiutato da tutti gli altri, e non soltanto per le minacce e le violenze subite da lui e dalla sua famiglia. Disse di no alle tangenti che avrebbero potuto renderlo ricco e che, parliamoci sinceramente, in Colombia venivano via via accettate dalla stragrande maggioranza degli alti vertici dell’esercito, della polizia e della politica. Il colonnello avrebbe potuto approfittare della crescita di Escobar: se l’avesse fatto, di sicuro l’espansione del boss avrebbe raggiunto livelli in seguito difficili da contrastare. Tanto coraggio e tanta forza morale sono rare. Ed era raro sottrarsi alla scelta imposta da Escobar: plata o plomo, ovvero soldi o piombo. I soldi della corruzione, il piombo dei proiettili».
Ancora nel 1989, è scritto nel libro, l’ambasciata americana a Bogotà non aveva una precisa conoscenza dei cartelli della droga, e men che meno di chi li comandava. Quanto a Escobar, lo considerava soltanto uno dei tanti nomi di trafficanti. Eppure già nel 1971 il sequestro dell’industriale Diego Echavarría — un sequestro che destò allarme e terrore — era stato ricondotto allo stesso Escobar, il quale nel 1979 viveva tra gli agi sconfinati della sua reggia, la Hacienda Los Napoles, venti chilometri quadrati di campi da calcio, arene, eliporti, zoo: possibile che all’ambasciata, avamposto e sentinella del governo americano, nessuno sapesse? Fu ignoranza oppure connivenza?
«Mi sembra più semplice definire quei funzionari ignoranti anziché a libro paga. L’inizio dei duri attacchi degli Stati Uniti contro la cocaina non scattò prima degli anni Ottanta, quando molte persone si erano arricchite, e avevano accumulato immensi e remunerativi patrimoni immobiliari. Una volta “innescata”, la Dea, l’Agenzia federale antidroga americana, non impiegò molto a identificare Escobar quale obiettivo numero uno e a votarsi interamente a lui. Sono convinto che l’opinione pubblica abbia un giudizio sulle capacità di intelligence e contrasto delle agenzie di sicurezza superiore alle loro reali possibilità. Attenzione: parliamo comunque di investigatori esperti, preparati, in continuo aggiornamento, ma è un errore credere che essi conoscano in tempo reale e nel dettaglio quello che succede in altre nazioni. Perché non è affatto così».
Ad aprile il «Corriere» ha raccontato la storia di «El Ruso», braccio destro del boss colombiano della droga «Otoniel». «El Ruso», catturato in Italia dalla Guardia di finanza, è nato in Bosnia eppure ha scalato le posizioni dei cartelli sudamericani. Le fonti investigative che hanno lavorato su «El Ruso» ripetono che il mercato della cocaina è in veloce spostamento verso Est: l’Est dell’Europa così come del mondo, con la Cina «nel mirino». Quali sono i motivi di questo al-
«Ho il sospetto che l’odierno contrasto ai cartelli sia molto difficile, in considerazione del miglioramento dei mezzi tecnologici e dei giganteschi potenziali guadagni. Escobar andò oltre la strategia dei suoi competitor: certo, da una parte fu come gli altri attratto dall’ambizione del potere generata dai mezzi illegali; ma a differenza dei concorrenti cercò un’affermazione pubblica di quel potere e condusse un attacco diretto contro lo Stato. Adesso i signori della droga si muovono sottotraccia, sono più fluidi, evitano la ribalta, non sfidano platealmente le istituzioni».
Su «Otoniel» pende una taglia da cinque milioni di dollari. Ha un prezzo come lo ebbe Escobar, come l’hanno tutti i latitanti inseguiti dagli Usa e come invece non hanno i ricercati italiani di mafia e ’ndrangheta. Ma una taglia non rischia di innescare pericolose contese sanguinarie per riscuotere il denaro?
«A mio avviso le taglie funzionano. Del resto, se questo sistema non avesse portato dei risultati, o quantomeno se avesse più lati negativi che positivi, forse sarebbero già stato abbandonato. In ogni modo Escobar non fu catturato grazie alla taglia. Cadde nel fitto incrocio di nemici, dall’America al governo colombiano fino agli stessi cartelli rivali…».
Quale situazione vivono gli Stati Uniti nella lotta alla droga? Trump sta sottovalutando il fenomeno? Sono in atto contromosse?
«L’uso di droga rimane un problema di sconfinate dimensioni, soprattutto negli Stati più ricchi ed evoluti. La mia opinione è che si debba distinguere tra il consumo occasionale, a scopo diciamo ricreativo, e la dipendenza totale, patologica. In assenza di una chiara politica e di interventi mirati che mettano dei precisi paletti tra i due ambiti, i mercati illegali non faranno altro che prosperare. Negli Usa, dove oggi l’emergenza primaria è legata agli oppiacei, il trend va verso la legalizzazione della marijuana».
Leggendo «Killing Pablo», e poi guardando «Narcos», non si può non «sentire» una forte vicinanza per gli agenti della Dea Steve Murphy e Javier Peña,