Corriere della Sera - La Lettura
Il nonsense di Scialoja che smonta una zanzara
Mondi Torna la raccolta di versi per giovanissimi del pittore e autore romano, scritti nel corso degli anni Settanta e Ottanta: la ricerca sonora dell’artista gioca con le tecniche della filastrocca e dello scioglilingua
Quando si dice la scoperta di una vocazione! In genere si è portati a pensare a un evento già dotato di una precisa intenzionalità estetica, a un’illuminazione carica di implicazioni culturali, di determinazione, di coerenza, di pensiero. Eppure nel caso di Toti Scialoja (1914-1998) le cose sembrano essere andate molto diversamente. Questo il fatto, così come lo racconta Paolo Mauri nell’ottima prefazione scritta qualche anno fa per i Versi del senso perso, la fortunata raccolta delle poesie per bambini di Scialoja pubblicata nel 1989 e ristampata ora da Einaudi: «Toti cammina per la strada, gli occhi a terra. Nella testa sente un suono, lo “zzzz” della (di una) zanzara. Improvvisamente “vede” la parola (non la zanzara) e subito comincia a smontarla: dentro la zanzara c’è Zara, ma anche l’incipit di Zanzibar. E dentro a Zanzibar? Non c’è un bar bello e pronto?».
Eppure se si dà retta a una simile, un poco stravagante leggenda iniziatica, per altro direttamente accreditata dall’autore, ci si trova di fronte a un piccolo apologo che può valere come una dichiarazione di poetica molto precisa e coerente. Anzi, in quest’immagine, ch’è insieme ingenua e astutissima, si riconosce come allo stato puro il movimento controcorrente e alternativo impresso da Scialoja alla sua arte poetica. Innanzitutto, direi, per la primogenitura concessa al suono, e più precisamente — pensando anche alla particolare attitudine dell’occhio di quello che è stato un importante artista figurativo — alla singola parola percepita come immagine sonora. All’inizio c’è il suono, non la realtà, c’è il significante, non il significato, c’è una parola e poi un’altra e un’altra ancora, ma non ci sono le cose. Da questo punto di vista la parola poetica di Scialoja (sta qui anche la sua relazione con il portato esteticamente eversivo delle avanguardie) intende nascere, se possibile, in totale gratuità, libera cioè dai significati codificati e imbriglianti, dai condizionamenti ideologici, dai percorsi di senso già confezionati e previsti. Realtà, cose, significati, arriveranno, sì, ma solo al termine di un procedimento compositivo, detto proprio in senso tecnico-artistico, che volendo preservare qualcosa di quella sorgiva, lieta, ma anche un po’ selvatica movenza iniziale, darà comunque adito a una riconfigurazione complessiva del senso.
I Versi del senso perso comprendono i vari libri di poesie per bambini che Scialoja aveva pubblicato nel corso degli anni Settanta e Ottanta, da Amato topino caro del 1971 a Tre lievi levrieri del 1985. La sua cronistoria poetica era cominciata però in apertura del decennio precedente, quando Scialoja, che era allora un artista molto riconosciuto, aveva iniziato a comporre poesie per i suoi nipotini e a illustrarle di propria mano. Ne uscì un album di poesie e disegni di forme tonde e di pochi incisivi colori, intitolato Tre per un topo, che soltanto molto più tardi, nel 2014, è stato riprodotto e pubblicato da Quodlibet. I tre sono i nipotini, mentre il topo (o sorcio), uno degli animali fondamentali del suo nutrito bestiario poetico, è proprio lui, il poeta-disegnatore, come poi suggerirà una delle sue poesie più note: «Quando il sorcio/ beve un sorso/ di fernet/ si contorce/ dal rimorso/ d’esser me».
A partire dalla singola immagine o cellula sonora del nome, queste poesie si autogenerano e si sgranano poi come rosari. A volte sembra trattarsi di una germinazione, altre volte di un richiamo reciproco, di una aggregazione tra entità altrimenti lontane e inaccostabili, proprio come accade nel componimento a cui ci siamo subito richiamati (la zanzara, un altro animale elettivo di questo poeta): «Una zanzara di Zanzibàr/ andava a zonzo, entrò in un bar,/ “Zuzzerellona!” le disse un tal/ “mastica zenzero se hai mal di mar”». Suono chiama suono, nome rimanda a nome, parola genera parola, come per un libero, spontaneo proce- dimento associativo, che tuttavia, sta proprio qui l’arte del poeta, si stabilizza ogni volta in una composizione assolutamente compiuta e definita. Perl’ intraprendenza e l’ imprevedibilità associativa, la trasfusione di sostanze( animali che diventano luoghi, luoghi che diventano animali), Scialoja sembra davvero il poeta del colore del suono. Un procedimento poetico per trasfusioni, combinazioni e sinestesie come quello messo in atto da Rimbaud nella sua celebre poesia sulle vocali, non deve essergli stato estraneo. Ma poi, anche un poeta coltissimo come Zanzotto, quanto ha fatto ricorso, proprio in nome dell’infanzia, a questi stessi procedimenti, a questo automatismo associativo che di fatto un vero automatismo non è?
Molto spesso sembra trattarsi di etimologie al contrario, in cui anziché verso la radice si procede in senso opposto, verso l’apertura e l’espansione della scatola della lingua, verso la sospensione delle regole e delle gerarchie (quello di Scialoja, come in genere quello delle poesie per bambini, è un universo per eccellenza antigerarchico). In queste poesie gli ingredienti della tradizione colta e di quella popolare, della vena sperimentale e di quella più leggera e cantabile sono tutti presenti e fusi tra loro. L’autore gioca continuamente con la tradizione più alta: Petrarca, Leopardi, Eliot, Montale, ma come fossero neutralizzati e resi, per così dire, solubili. E poi i procedimenti della filastrocca, dello scioglilingua, del calembour; e ancora il piacere del gioco, soprattutto delle rime, il divertimento e il sovvertimento gratuito, le ripetizioni, la componente ironica, favolistica, anche malinconica. E del resto i Versi del senso perso nascono proprio come riparazione contro l’umor nero, il dolore, l’angoscia esistenziale, che questo autore conosceva molto bene. Scialoja è stato sicuramente un maestro nel genere del nonsense, com’è stato subito riconosciuto da Calvino, ad esempio, ma anche da Manganelli, Porta, Raboni. E questo significa che la sua operazione è stata, certo a modo suo, molto sensata.
Del resto, nel confronto tra non senso e senso, tra libertà associativa e chiusura formale, si puòri conoscere la stessa tensione tra gesto e disegno, tra forza espressiva e astrazione che ha animato la sua opera figurativa. Sempre così, dunque: tra indeterminazione e orientamento del senso, tra irresponsabilità e rigore, tra infanzia e maturità. Ma forse anche, a questo punto, senza vera età.