Corriere della Sera - La Lettura

Il nonsense di Scialoja che smonta una zanzara

Mondi Torna la raccolta di versi per giovanissi­mi del pittore e autore romano, scritti nel corso degli anni Settanta e Ottanta: la ricerca sonora dell’artista gioca con le tecniche della filastrocc­a e dello scioglilin­gua

- di ROBERTO GALAVERNI

Quando si dice la scoperta di una vocazione! In genere si è portati a pensare a un evento già dotato di una precisa intenziona­lità estetica, a un’illuminazi­one carica di implicazio­ni culturali, di determinaz­ione, di coerenza, di pensiero. Eppure nel caso di Toti Scialoja (1914-1998) le cose sembrano essere andate molto diversamen­te. Questo il fatto, così come lo racconta Paolo Mauri nell’ottima prefazione scritta qualche anno fa per i Versi del senso perso, la fortunata raccolta delle poesie per bambini di Scialoja pubblicata nel 1989 e ristampata ora da Einaudi: «Toti cammina per la strada, gli occhi a terra. Nella testa sente un suono, lo “zzzz” della (di una) zanzara. Improvvisa­mente “vede” la parola (non la zanzara) e subito comincia a smontarla: dentro la zanzara c’è Zara, ma anche l’incipit di Zanzibar. E dentro a Zanzibar? Non c’è un bar bello e pronto?».

Eppure se si dà retta a una simile, un poco stravagant­e leggenda iniziatica, per altro direttamen­te accreditat­a dall’autore, ci si trova di fronte a un piccolo apologo che può valere come una dichiarazi­one di poetica molto precisa e coerente. Anzi, in quest’immagine, ch’è insieme ingenua e astutissim­a, si riconosce come allo stato puro il movimento controcorr­ente e alternativ­o impresso da Scialoja alla sua arte poetica. Innanzitut­to, direi, per la primogenit­ura concessa al suono, e più precisamen­te — pensando anche alla particolar­e attitudine dell’occhio di quello che è stato un importante artista figurativo — alla singola parola percepita come immagine sonora. All’inizio c’è il suono, non la realtà, c’è il significan­te, non il significat­o, c’è una parola e poi un’altra e un’altra ancora, ma non ci sono le cose. Da questo punto di vista la parola poetica di Scialoja (sta qui anche la sua relazione con il portato esteticame­nte eversivo delle avanguardi­e) intende nascere, se possibile, in totale gratuità, libera cioè dai significat­i codificati e imbriglian­ti, dai condiziona­menti ideologici, dai percorsi di senso già confeziona­ti e previsti. Realtà, cose, significat­i, arriverann­o, sì, ma solo al termine di un procedimen­to compositiv­o, detto proprio in senso tecnico-artistico, che volendo preservare qualcosa di quella sorgiva, lieta, ma anche un po’ selvatica movenza iniziale, darà comunque adito a una riconfigur­azione complessiv­a del senso.

I Versi del senso perso comprendon­o i vari libri di poesie per bambini che Scialoja aveva pubblicato nel corso degli anni Settanta e Ottanta, da Amato topino caro del 1971 a Tre lievi levrieri del 1985. La sua cronistori­a poetica era cominciata però in apertura del decennio precedente, quando Scialoja, che era allora un artista molto riconosciu­to, aveva iniziato a comporre poesie per i suoi nipotini e a illustrarl­e di propria mano. Ne uscì un album di poesie e disegni di forme tonde e di pochi incisivi colori, intitolato Tre per un topo, che soltanto molto più tardi, nel 2014, è stato riprodotto e pubblicato da Quodlibet. I tre sono i nipotini, mentre il topo (o sorcio), uno degli animali fondamenta­li del suo nutrito bestiario poetico, è proprio lui, il poeta-disegnator­e, come poi suggerirà una delle sue poesie più note: «Quando il sorcio/ beve un sorso/ di fernet/ si contorce/ dal rimorso/ d’esser me».

A partire dalla singola immagine o cellula sonora del nome, queste poesie si autogenera­no e si sgranano poi come rosari. A volte sembra trattarsi di una germinazio­ne, altre volte di un richiamo reciproco, di una aggregazio­ne tra entità altrimenti lontane e inaccostab­ili, proprio come accade nel componimen­to a cui ci siamo subito richiamati (la zanzara, un altro animale elettivo di questo poeta): «Una zanzara di Zanzibàr/ andava a zonzo, entrò in un bar,/ “Zuzzerello­na!” le disse un tal/ “mastica zenzero se hai mal di mar”». Suono chiama suono, nome rimanda a nome, parola genera parola, come per un libero, spontaneo proce- dimento associativ­o, che tuttavia, sta proprio qui l’arte del poeta, si stabilizza ogni volta in una composizio­ne assolutame­nte compiuta e definita. Perl’ intraprend­enza e l’ imprevedib­ilità associativ­a, la trasfusion­e di sostanze( animali che diventano luoghi, luoghi che diventano animali), Scialoja sembra davvero il poeta del colore del suono. Un procedimen­to poetico per trasfusion­i, combinazio­ni e sinestesie come quello messo in atto da Rimbaud nella sua celebre poesia sulle vocali, non deve essergli stato estraneo. Ma poi, anche un poeta coltissimo come Zanzotto, quanto ha fatto ricorso, proprio in nome dell’infanzia, a questi stessi procedimen­ti, a questo automatism­o associativ­o che di fatto un vero automatism­o non è?

Molto spesso sembra trattarsi di etimologie al contrario, in cui anziché verso la radice si procede in senso opposto, verso l’apertura e l’espansione della scatola della lingua, verso la sospension­e delle regole e delle gerarchie (quello di Scialoja, come in genere quello delle poesie per bambini, è un universo per eccellenza antigerarc­hico). In queste poesie gli ingredient­i della tradizione colta e di quella popolare, della vena sperimenta­le e di quella più leggera e cantabile sono tutti presenti e fusi tra loro. L’autore gioca continuame­nte con la tradizione più alta: Petrarca, Leopardi, Eliot, Montale, ma come fossero neutralizz­ati e resi, per così dire, solubili. E poi i procedimen­ti della filastrocc­a, dello scioglilin­gua, del calembour; e ancora il piacere del gioco, soprattutt­o delle rime, il divertimen­to e il sovvertime­nto gratuito, le ripetizion­i, la componente ironica, favolistic­a, anche malinconic­a. E del resto i Versi del senso perso nascono proprio come riparazion­e contro l’umor nero, il dolore, l’angoscia esistenzia­le, che questo autore conosceva molto bene. Scialoja è stato sicurament­e un maestro nel genere del nonsense, com’è stato subito riconosciu­to da Calvino, ad esempio, ma anche da Manganelli, Porta, Raboni. E questo significa che la sua operazione è stata, certo a modo suo, molto sensata.

Del resto, nel confronto tra non senso e senso, tra libertà associativ­a e chiusura formale, si puòri conoscere la stessa tensione tra gesto e disegno, tra forza espressiva e astrazione che ha animato la sua opera figurativa. Sempre così, dunque: tra indetermin­azione e orientamen­to del senso, tra irresponsa­bilità e rigore, tra infanzia e maturità. Ma forse anche, a questo punto, senza vera età.

 ?? Corriere della Sera ?? LC'era un geco presso Amalfi all’ingresso del suo speco ridacchiav­a sotto i baffi e mi disse: «Pissi, pissi. È cent’anni che qui vissi». Poi mi disse: «Passi! Passi! Non vedrà che sassi e sassi». a zanzara dello Zambia quando zompa su una zampa da...
Corriere della Sera LC'era un geco presso Amalfi all’ingresso del suo speco ridacchiav­a sotto i baffi e mi disse: «Pissi, pissi. È cent’anni che qui vissi». Poi mi disse: «Passi! Passi! Non vedrà che sassi e sassi». a zanzara dello Zambia quando zompa su una zampa da...

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