Corriere della Sera - La Lettura
I reportage? Li fa Google Street View
agorafobia m’impedisce di viaggiare», informa la bio del profilo Instagram Agoraphobic Traveller. «Così ho trovato un nuovo modo di vedere il mondo: Google Street View». A Londra sono le prime ore del mattino, ma Jacqui Kenny ha già visitato Messico, Senegal e Kirghizistan. Tutto senza muoversi da casa. Grazie al servizio di Google Maps che permette di esplorare intere città a livello di strada, con edifici privati e luoghi pubblici catturati dalla Google Car.
Kenny, di origini neozelandesi, soffre da anni di agorafobia, condizione che le impedisce di frequentare posti affollati, come gli aeroporti, ma anche remoti, per il timore di attacchi di panico e di non poter fuggire o chiedere aiuto. Nel 2016, in crisi per la chiusura della società di produzione digitale che aveva fondato, ha iniziato a scandagliare Street View nel tentativo di distrar- si. Inizialmente in modo casuale, curiosando tra le strade di città lontane — luoghi caldi, a volte estremi — e selezionando screenshot ogni volta che veniva colpita da un’immagine. Presto, l’evasione è diventata un progetto. Il viaggio virtuale non solo conforto, ma sfogo per la creatività. Quando, dopo qualche mese, ha riguardato il lavoro fatto, ha «scoperto» un archivio di oltre 26 mila foto. È nato così l’account Instagram @streetview.portraits, dove Kenny usa lo pseudonimo Agoraphobic Traveller e ha oltre 50 mila follower. Facendosi notare anche da Google, che l’ha chiamata per proporle una collaborazione.
Paesaggi aridi, spogli, con improvvise esplosioni di colore e cieli tersi. Edifici bassi, cactus, cespugli perfettamente potati. Kenny, che non si considera una vera fotografa ma ha un’estetica evidente, allenata da anni trascorsi nel cinema, predilige il minimalismo, le simmetrie, l’ordine. Le persone, quando occasionalmente appaiono nelle foto, sono dettagli accidentali, e però sono bimbi che giocano, una coppia che si bacia. Il suo sguardo così particolare è il motivo per cui è difficile identificare i luoghi delle foto, e una casa fucsia in Arizona trova corrispondenza in un palazzetto rosa e blu circondato da filo spinato nel deserto peruviano. Toni e atmosfere pastello che richiamano i film di Wes Anderson e le opere di Luigi Ghirri, ma con una tecnica del tutto originale (in questa pagina, nella foto grande: Callao District, Perù; e poi, dall’alto: Torreon, Messico; Arizona City, Usa; Saint-Louis, Senegal; Brasile). «Vorrei dare uno stile a tutto il mondo», scherza in un’intervista al magazine «Artsy» l’autrice, il cui lavoro, meticolosissimo, la porta ad applicarsi per giorni in cerca della giusta angolazione, della composizione perfetta. Anche la polvere sollevata dalla Google car contribuisce alla qualità surreale delle immagini. Soprattutto, tra luoghi remoti e scarsa presenza umana l’estetica di Kenny finisce per riflettere la realtà dell’agorafobia. Le sue foto sono romantiche, ma anche distaccate. «Un senso d’isolamento vestito di bellezza». È, anche, il suo, un esercizio nel cedere controllo: Kenny può arrivare ovunque nel mondo con Street View, ma ciò che vede è pre-determinato da Google. «Quante volte scorgo a distanza qualcosa che sembra bellissimo — racconta — ma poi la Google car cambia strada».
Per fortuna ha ancora miliardi di immagini da esplorare, e con Street View che continua a registrare il mondo, il materiale aumenta ogni giorno. Forse, una delle conseguenze più impreviste del progetto è il senso di vicinanza che Kenny ha sviluppato per i luoghi che ritrae. Come Piura, in Perù, dove aveva «trascorso» settimane quando la Google car vi era appena stata e in seguito la zona fu colpita dalle peggiori inondazioni degli ultimi vent’anni. «Perché non sei meno attaccato a un luogo se non ci sei stato davvero». Il vero viaggio è quello interiore. Ma ora che in alcuni di quei posti sono in programma mostre delle sue fotografie, promette che farà di tutto per andare.