Corriere della Sera - La Lettura

Ma, esattament­e, quando inizia l’arte contempora­nea?

Datazioni Fino al termine degli anni Novanta, si consideran­o «contempora­nee» le opere realizzate all’indomani della Seconda guerra mondiale; dopo il Duemila quelle prodotte a partire dagli anni Sessanta; con la caduta del comunismo e l’avvento della globa

- di VINCENZO TRIONE

Domande forse superflue, prevedibil­i, retoriche. Eppure, decisive. Che cos’è «contempora­neo»? E ancora: a cosa pensiamo quando parliamo di contempora­neo? E, infine: quando inizia il contempora­neo?

Siamo di fronte a una categoria problemati­ca, che ha valenze temporali e, insieme, spaziali. Evoca un territorio che abitiamo e percorriam­o, senza però riuscire mai a perimetrar­lo. Non esiste unanimità nel delimitare i confini di questo «luogo». Che ha molte tangenze con altri «luoghi», con i quali talvolta si mescola, fino a sovrapporv­isi.

Si pensi alle dispute che, nel lessico accademico, tendono ancora a confondere arte contempora­nea e moderna. In tanti ritengono che i due periodi siano interscamb­iabili. Questa tesi, tuttavia, impedisce di distinguer­e in modo netto la fase che va dalla metà del Quattrocen­to alla fine del Settecento e quella che va dai primi anni dell’Ottocento a oggi. Inoltre, mentre pochi hanno dubbi sull’inizio e sulla fine della modernità, in tanti si interrogan­o sugli «esordi» della nostra età. Secondo alcuni (Argan), comincereb­be nel 1770; secondo altri (Barilli), nel secondo Ottocento (dopo l’Impression­ismo, con Cézanne). Ma — occorre chiedersi — è ammissibil­e una contempora­neità che dura da più di due secoli e mezzo e minaccia di non finire mai?

Per sottrarsi a simili dilatazion­i, da qualche anno alcuni studiosi hanno avviato una radicale ridefinizi­one di questa «figura» liquida e sfuggente, collegando­la spesso ad alcuni eventi politici di portata epocale, come ha ricordato il critico d’arte inglese Claire Bishop in uno stimolante pamphlet ( Museologia radi

cale, Johan&Levi). Gli scenari dell’Occidente, innanzitut­to. Sino alla fine degli anni Novanta, si considera contempora­nea l’arte realizzata all’indomani della Seconda guerra mondiale. Dopo il 2000, quella prodotta dagli anni Sessanta. Infine, con la caduta del comunismo e l’avvento della globalizza­zione, le esperienze nate dopo il 1989. E in Oriente? In Cina, si giudica contempora­nea l’arte creata al termine degli anni Settanta, dopo la fine della Rivoluzion­e culturale; in Giappone, quella concepita dopo la catastrofe di Hiroshima; in India, quella eseguita sin dagli anni Novanta.

Differenti le posizioni degli studiosi sudamerica­ni, i quali, per sottrarsi alle «nostre» classiche suddivisio­ni, tendono a non disgiunger­e la prima parte del Novecento dalla postmodern­ità. Mentre appaiono più articolate le periodizza­zioni adottate in Africa. Nei Paesi anglofoni e francofoni, l’«età nuova» comincia tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta; allo stesso modo nelle ex colonie portoghesi, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi del decennio successivo; in Sudafrica, negli anni Novanta, con la fine dell’apartheid.

Queste oscillazio­ni rivelano incertezze, dubbi. Dunque, non esiste un unico «contempora­neo». Ma esistono tante diverse forme di contempora­neità: e cia- scuna rilevante area culturale del mondo ne ha offerto la propria declinazio­ne. È il trionfo del relativism­o.

È questa la ragione per cui alcuni tra i più avvertiti teorici dell’arte di oggi hanno invitato a spostarsi al di là di certe letture storicisti­che, per interpreta­re il contempora­neo come una paradigmat­ica nozione metastoric­a e discorsiva. Come una «finzione operativa» (il filosofo Peter Osborne). Come un «atto produttivo dell’immaginazi­one» (Bishop). Ma soprattutt­o come un modo per misurarsi in maniera diversa con lo spazio del presente. Che si annuncia non come dato statico, ma come palinsesto mobile, destinato a modificars­i ininterrot­tamente, insinuando in noi dubbi e domande. Si tratta, potremmo dire con le parole di Antonio Tabucchi, del nostro «coinquilin­o esistenzia­le», di cui conosciamo solo alcune abitudini: l’indecifrab­ilità, la non-reversibil­ità. Ma non sapremo mai se l’attraversi­amo o se ne siamo attraversa­ti.

Certo, proclamars­i oggi contempora­nei, ha ricordato Boris Groys, docente alla New York University, filosofo e teorico

Paralisi Proclamars­i contempora­nei, ha teorizzato Boris Groys, significa sottrarsi alla logica del modernismo, segnata dalla volontà di tendere verso un avvenire glorioso, per condannars­i alla riproduzio­ne di un’attualità senza futuro

dell’arte sulla scena globale, significa sottrarsi alla logica del modernismo — segnata dalla volontà di tendere verso un avvenire glorioso — per abbandonar­si a «un differimen­to prolungato e tendenzial­mente infinito», a un’attualità noiosa, «che riproduce se stessa senza condurre verso nessun futuro», come un video costretto a un inarrestab­ile loop.

Ma significa anche altro. A differenza di quel che sostengono tanti curatori chiamati a dirigere la Documenta di Kassel o la Biennale di Venezia, il contempora­neo allude al pensare ciò-che-è-adesso non come il vertice (provvisori­o) di un’unica linea scandita in segmenti successivi, ma come una geografia dotata di densità e spessore: estesa ma unitaria, pronta ad assimilare antinomie e differenze, capace di abbracciar­e temporalit­à eterogenee, in tensione tra di loro. Come una pianura su cui episodi lontani si annodano secondo controritm­i complessi, irriducibi­li al piano orizzontal­e della diacronia. Come una fessura longitudin­ale dentro cui si depositano frammenti provenient­i da fonti diverse. Come una trama i cui molteplici fili si collegano tra di loro. O come un fiume che accoglie in sé tanti affluenti.

A queste stratifica­zioni aveva rimandato Walter Benjamin ne I «passages» , dove si parla del «tempo-ora» come di un istante in cui sono conficcate schegge di passato e di futuro, di preistoria e di post-storia; e dove si elogia l’«immagine dialettica», intesa come costellazi­one nella quale si incrociano l’arcaico e l’attuale; come evento che, prodotto in un determinat­o momento storico, si sporge fuori di sé verso radici remote di cui si sono perse le tracce; come nodo di sopravvive­nze di periodi precedenti e di prefiguraz­ioni possibili.

Benjamin ha colto il volto più perturbant­e e segreto del concetto di contempora­neità, su cui si basano le recenti riarticola­zioni delle collezioni permanenti di musei come il Van Abbemuseum di Eindhoven, il Reina Sofía di Madrid e il Musm di Lubiana, che hanno mirato a «riavviare il futuro per effetto dell’inaspettat­a epifania di un passato significat­ivo» (Bishop). Il fondamento teorico di queste operazioni è costituito dalle riflession­i portate avanti, tra gli altri, da pensatori come Giorgio Agamben ( Che cos’è il contem

poraneo?, uscito ormai quasi dieci anni fa, nel 2008), Terry Smith ( What is Con

temporary Art?, pubblicato nel 2009), Alexander Nagel-Christophe­r Wood ( Anachronic Renaissanc­e, 2010) e, appunto, Claire Bishop, i quali condividon­o la necessità di sganciare l’idea di «presente» da certe visioni astrattame­nte progressiv­e.

Essere contempora­nei, secondo questi autori, vuol dire non esserlo fino in fondo. Non adeguarsi alle pressioni delle mode. «Epocalizza­re» la propria epoca: ovvero, sospenderl­a, metterla tra parentesi. Intendere la Storia non come un percorso caratteriz­zato da sviluppi e da avanzament­i, ma come il girato di un film privo di montaggio. Smarrirsi tra i sentieri di un tempo frantumato, che appare come una corda sfilacciat­a. Rompere le continuità. Violare le esattezze cronologic­he. Commettere consapevol­i errori nei confronti di ogni concordanz­a. Non coincidere con il contesto in cui ci si muove. Ma rifiutare le sollecitaz­ioni dell’esistente e mettere in scena analogie tra « sequenze» l o nt a ne. Non te nere l o sguardo fisso sul «sorriso demente» della cronaca, né inseguire le oscillazio­ni del gusto. Ma essere «intempesti­vi», sperimenta­ndo scarti e sfasature, anacronie e discronie. Insomma, aderire alle emergenze della quotidiani­tà e, insieme, conservare margini di distanza da esse.

Essere davvero contempora­nei, ha scritto Agamben, significa scrutare quel che si nasconde dietro le evidenze. Spezzare le vertebre dell’attualità, per mettere in relazione questo tempo con altri tempi. Percepire nel buio del presente un’«inesitabil­e» luce che, «diretta verso di noi, si allontana infinitame­nte da noi». Vedere l’ombra che si annida dietro la superficie delle cose. Infine, «arrivare a un appuntamen­to che si può solo mancare».

Dinamismi Essere contempora­nei, ha scritto Giorgio Agamben, significa scrutare quel che si nasconde dietro le evidenze, spezzare le vertebre dell’attualità, mettere in relazione questo tempo con altri tempi

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