Corriere della Sera - La Lettura
Perché odio la Natura
Abitudini Canicola, siccità, incendi, smottamenti e inondazioni: non c’è niente di meglio del Ferragosto per ricordarmi quanto siamo insignificanti per l’ambiente che ci circonda. Certo, un noioso civismo liberal mi induce a comportamenti sostenibili. Per
Niente di meglio del Ferragosto — canicola, siccità, incendi, smottamenti tellurici, frane, inondazioni e omicidi privi di movente — per ricordarmi quanto odio la Natura, e quanto io le sia leopardianamente indifferente. Di primo acchito un noiosissimo civismo liberal mi induce a prendermela con la mia ingorda specie: la sua illusione che le risorse siano illimitate e che chiunque possa disporne a proprio piacere e vantaggio. Indugio qualche istante prima di tirare la catena, mi sento un assassino egoista quando innaffio i gerani o decido che passerò la notte con il condizionatore a palla. Ma poi, parafrasando Benjamin Disraeli, mi viene da pensare: cosa ha fatto per noi la Natura per meritarsi tante attenzioni? Da centinaia di migliaia di anni ci infligge pestilenze e calamità, carestie e inondazioni. Basta un prurito, un colpo di tosse, uno starnuto della crosta terrestre per provocare una strage. E per questo la rispetto, come si rispettano i tiranni capricciosi o i carcerieri sanguinari. Però non chiedetemi di amarla. Talvolta, come a tutti, è capitato anche a medi contemplarla in estasi, ma solo perché per un attimo ho dimenticato che infondo persi nola sua bellezza è ingannevole. Da uomo pacifico quale sono detesto qualsiasi sistema basato sul caso, sulla sopraffazione e sul delitto seriale. Del resto, essendo al vertice della catena alimentare, mi comporto da ipocrita divorando ciò che altri uccidono per me. Resta comunque il fatto che l’aracnofobia, l’ofidiofobia, le foreste pluviali, le sabbie mobili, le oscure cavità oceaniche e il gelo dei Poli mi rendono un inquilino diffidente e circospetto di questo bel pianeta.
Non ho le competenze scientifiche per dare ragione a chi stabilisce relazioni di causa-effetto tra l’opera umana e il riscaldamento globale, né per smentire chi sostiene il contrario. Per educazione e temperamento non provo grande simpatia per le Cassandre complottiste. Per intenderci, in un film catastrofista su un’invasione degli extraterrestri interpreterei la parte dello scettico che muore alla terza scena incenerito da una pistola aliena. D’altronde, per il poco che vale la mia piccola esperienza individuale — tanto più se confrontata ai tempi biblici dei cambiamenti climatici — ricordo estati della mia infanzia più temperate di quelle odierne e non credo si tratti di allucinazioni retrospettive. Ma non so se questo sia legato all’azione umana. Ribadisco: non sono uno scienziato. Per dirla con Parise, non me ne intendo. Rivendico solo il mio diritto ad avercela con la Natura, a guardarla con sospetto. E a tifare sempre o quasi per la mia avida specie.
La Natura non perde mai
Qualche tempo fa intrapresi un lungo viaggio in Australia. Fu un’esperienza non troppo diversa da quella raccontata da Francesco Piccolo in un libro spiritoso e divertente. Capii l’antifona il secondo giorno a cena con un mio vecchio compagno di classe che lavorava presso il consolato italiano a Sydney. Aveva due gemelli di sei anni. A cena, sorseggiando un profumato Chardonnay neozelandese, mi disse, come se niente fosse, che lui e la moglie stavano insegnando ai bimbi a vuotare le scar-
pe prima di calzarle e a non accendere la luce senza prima aver dato un’occhiata all’interruttore. Quando gli chiesi lo scopo di tali precauzioni mi rispose che nei sobborghi di Sydney c’era una proliferazione di redback, un subdolo ragnetto dal dorso vermiglio e il morso assassino. Come dicevo, quello fu solo l’esordio. Il resto della vacanza fu consacrato alla tremebonda lettura di opuscoli che invitavano a tenersi alla larga da serpenti letali, canguri incazzosi, deserti sterminati, coccodrilli preistorici, squali hollywoodiani e meduse decisamente più pericolose di quelle di Fregene. Un vero incubo.
Capii così che lì, in quel Paese bellissimo, la Natura aveva trionfato sull’uomo. «Ci si abitua a tutto», mi disse il mio amico con un sorriso fatalista. Qualcosa di simile mi aveva detto una volta un mio parente emigrato in Israele negli anni Sessanta. Sia in un caso che nell’altro mi ritrovai a pensare che a certe sconfitte non mi sarei mai e poi mai abituato. Con il senno di poi, vivendo oramai in una città subtropicale costantemente minacciata dal terrorismo internazionale, temo di dover dare ragione a entrambi: ci si abitua a tutto. E in quanto ad adattabilità la nostra specie non ha rivali.
Il disincanto di Maupassant
C’è un capolavoro di Maupassant intitolato L'inutile bellezza che esprime, come neanche Baudelaire ha saputo fare, il mio pensiero sulla questione. A prima vista si tratta di un tipico racconto di Maupassant, con una bellissima contessa parigina e un marito ricco, sessuomane e violento. Ma il cuore della storia è concentrato nel terzo capitolo, durante una serata all’Opera, quando due gentiluomini in panciotto e tuba, riflettono sull’avvenenza della contessa sopravvissuta a ben sette gravidanze. È lì che uno dei due signori si lancia in una requisitoria sull’orrore della natura, le colpe di Dio e la smisurata titanica ambizione umana. «Io dico», attacca il più intelligente dei due, «che la natura è nostra nemica, che bisogna continuamente lottare contro la natura perché essa cerca sempre di riportarci alla condizione di animali». Gli uomini sono un errore di Dio: da un lato li ha forniti dell’inventiva, della sensibilità, della coscienza, della parola, del gusto per la bellezza e dell’aspirazione all’eternità, dall’altro li ha esposti agli oltraggi della vecchiaia e della mortalità. La terra è per gli animali, non per noi, che siamo intrusi disadattati. «Il pensiero sbocciato e sviluppatosi per un miracolo nervoso delle cellule del capo ci rende miserevoli esiliati su questa terra». Dato questo assunto, il nostro eroe passa in rassegna tutti gli sforzi fatti dall’uomo per rendere abitabile il pianeta: «Per alleviare la nostra condizione di bestie, abbiamo scoperto e fabbricato ogni cosa, cominciando dalle case, e poi alimenti squisiti, dolciumi, bibite, liquori, tessuti, vestiti, letti, carrozze, ferrovie, macchine innumerevoli; per di più abbiamo inventato le scienze e le arti, la scrittura e i versi, la musica e la pittura. Tutti gli ideali provengono da noi, e anche gli abbellimenti della vista».
Lessi questo racconto da ragazzo e me ne innamorai (i racconti di Maupassant sono un gradino sotto a quelli di Cechov e di Kafka), ma solo ora lo capisco, lo sento, adesso che i giochi sono fatti e il tempo che mi separa dalla morte è presumibilmente più breve di quello che mi divide dalla mia nascita.
È vero, dietro c’è l’ombra oscura di Baudelaire, la sua polemica contro i romantici. È lui ad aver eletto l’artificio umano ad antidoto contro la brutalità della Natura. Dobbiamo a lui questa magnifica intuizione. La Natura non ha saputo creare niente di più preciso della matematica, niente di più emozionante di una sinfonia di Mozart, niente di più maestoso di un affresco di Michelangelo. Nulla è più infinito e audace dell’immaginazione umana. La più salubre acqua di fonte vale meno di un buon vino d’annata; nessun frutto è degno di una cioccolata con la panna e nessun prato è comodo come un materasso.
Lo riconosco, probabilmente stiamo abusando della Natura, e per questo verremo puniti; riconosco anche che occorrerà rivedere un po’ le priorità per proteggere la nostra specie dal disastro. Eppure è questo che siamo, in noi è connaturata una tensione al piacere, al divertimento, alla comodità. Forse se ci mettiamo dalla parte di un orso bianco o di un leone della savana, noi siamo gli infestatori, i parassiti che si nutrono delle risorse che dovrebbero essere spartite con maggiore equità tra tutte le creature della terra. Ma in fondo anche l’ecologia e il senso di giustizia sono una nostra invenzione. Siamo una specie spietata, ma siamo anche la sola ad avere orrore della propria spietatezza. Se la Natura è indifferente, noi, quando ce ne ricordiamo, coltiviamo ideali più profondi del mare e più alti delle montagne.