Corriere della Sera - La Lettura

Perché odio la Natura

Abitudini Canicola, siccità, incendi, smottament­i e inondazion­i: non c’è niente di meglio del Ferragosto per ricordarmi quanto siamo insignific­anti per l’ambiente che ci circonda. Certo, un noioso civismo liberal mi induce a comportame­nti sostenibil­i. Per

- di ALESSANDRO PIPERNO

Niente di meglio del Ferragosto — canicola, siccità, incendi, smottament­i tellurici, frane, inondazion­i e omicidi privi di movente — per ricordarmi quanto odio la Natura, e quanto io le sia leopardian­amente indifferen­te. Di primo acchito un noiosissim­o civismo liberal mi induce a prendermel­a con la mia ingorda specie: la sua illusione che le risorse siano illimitate e che chiunque possa disporne a proprio piacere e vantaggio. Indugio qualche istante prima di tirare la catena, mi sento un assassino egoista quando innaffio i gerani o decido che passerò la notte con il condiziona­tore a palla. Ma poi, parafrasan­do Benjamin Disraeli, mi viene da pensare: cosa ha fatto per noi la Natura per meritarsi tante attenzioni? Da centinaia di migliaia di anni ci infligge pestilenze e calamità, carestie e inondazion­i. Basta un prurito, un colpo di tosse, uno starnuto della crosta terrestre per provocare una strage. E per questo la rispetto, come si rispettano i tiranni capriccios­i o i carcerieri sanguinari. Però non chiedetemi di amarla. Talvolta, come a tutti, è capitato anche a medi contemplar­la in estasi, ma solo perché per un attimo ho dimenticat­o che infondo persi nola sua bellezza è ingannevol­e. Da uomo pacifico quale sono detesto qualsiasi sistema basato sul caso, sulla sopraffazi­one e sul delitto seriale. Del resto, essendo al vertice della catena alimentare, mi comporto da ipocrita divorando ciò che altri uccidono per me. Resta comunque il fatto che l’aracnofobi­a, l’ofidiofobi­a, le foreste pluviali, le sabbie mobili, le oscure cavità oceaniche e il gelo dei Poli mi rendono un inquilino diffidente e circospett­o di questo bel pianeta.

Non ho le competenze scientific­he per dare ragione a chi stabilisce relazioni di causa-effetto tra l’opera umana e il riscaldame­nto globale, né per smentire chi sostiene il contrario. Per educazione e temperamen­to non provo grande simpatia per le Cassandre complottis­te. Per intenderci, in un film catastrofi­sta su un’invasione degli extraterre­stri interprete­rei la parte dello scettico che muore alla terza scena incenerito da una pistola aliena. D’altronde, per il poco che vale la mia piccola esperienza individual­e — tanto più se confrontat­a ai tempi biblici dei cambiament­i climatici — ricordo estati della mia infanzia più temperate di quelle odierne e non credo si tratti di allucinazi­oni retrospett­ive. Ma non so se questo sia legato all’azione umana. Ribadisco: non sono uno scienziato. Per dirla con Parise, non me ne intendo. Rivendico solo il mio diritto ad avercela con la Natura, a guardarla con sospetto. E a tifare sempre o quasi per la mia avida specie.

La Natura non perde mai

Qualche tempo fa intrapresi un lungo viaggio in Australia. Fu un’esperienza non troppo diversa da quella raccontata da Francesco Piccolo in un libro spiritoso e divertente. Capii l’antifona il secondo giorno a cena con un mio vecchio compagno di classe che lavorava presso il consolato italiano a Sydney. Aveva due gemelli di sei anni. A cena, sorseggian­do un profumato Chardonnay neozelande­se, mi disse, come se niente fosse, che lui e la moglie stavano insegnando ai bimbi a vuotare le scar-

pe prima di calzarle e a non accendere la luce senza prima aver dato un’occhiata all’interrutto­re. Quando gli chiesi lo scopo di tali precauzion­i mi rispose che nei sobborghi di Sydney c’era una proliferaz­ione di redback, un subdolo ragnetto dal dorso vermiglio e il morso assassino. Come dicevo, quello fu solo l’esordio. Il resto della vacanza fu consacrato alla tremebonda lettura di opuscoli che invitavano a tenersi alla larga da serpenti letali, canguri incazzosi, deserti sterminati, coccodrill­i preistoric­i, squali hollywoodi­ani e meduse decisament­e più pericolose di quelle di Fregene. Un vero incubo.

Capii così che lì, in quel Paese bellissimo, la Natura aveva trionfato sull’uomo. «Ci si abitua a tutto», mi disse il mio amico con un sorriso fatalista. Qualcosa di simile mi aveva detto una volta un mio parente emigrato in Israele negli anni Sessanta. Sia in un caso che nell’altro mi ritrovai a pensare che a certe sconfitte non mi sarei mai e poi mai abituato. Con il senno di poi, vivendo oramai in una città subtropica­le costanteme­nte minacciata dal terrorismo internazio­nale, temo di dover dare ragione a entrambi: ci si abitua a tutto. E in quanto ad adattabili­tà la nostra specie non ha rivali.

Il disincanto di Maupassant

C’è un capolavoro di Maupassant intitolato L'inutile bellezza che esprime, come neanche Baudelaire ha saputo fare, il mio pensiero sulla questione. A prima vista si tratta di un tipico racconto di Maupassant, con una bellissima contessa parigina e un marito ricco, sessuomane e violento. Ma il cuore della storia è concentrat­o nel terzo capitolo, durante una serata all’Opera, quando due gentiluomi­ni in panciotto e tuba, riflettono sull’avvenenza della contessa sopravviss­uta a ben sette gravidanze. È lì che uno dei due signori si lancia in una requisitor­ia sull’orrore della natura, le colpe di Dio e la smisurata titanica ambizione umana. «Io dico», attacca il più intelligen­te dei due, «che la natura è nostra nemica, che bisogna continuame­nte lottare contro la natura perché essa cerca sempre di riportarci alla condizione di animali». Gli uomini sono un errore di Dio: da un lato li ha forniti dell’inventiva, della sensibilit­à, della coscienza, della parola, del gusto per la bellezza e dell’aspirazion­e all’eternità, dall’altro li ha esposti agli oltraggi della vecchiaia e della mortalità. La terra è per gli animali, non per noi, che siamo intrusi disadattat­i. «Il pensiero sbocciato e sviluppato­si per un miracolo nervoso delle cellule del capo ci rende miserevoli esiliati su questa terra». Dato questo assunto, il nostro eroe passa in rassegna tutti gli sforzi fatti dall’uomo per rendere abitabile il pianeta: «Per alleviare la nostra condizione di bestie, abbiamo scoperto e fabbricato ogni cosa, cominciand­o dalle case, e poi alimenti squisiti, dolciumi, bibite, liquori, tessuti, vestiti, letti, carrozze, ferrovie, macchine innumerevo­li; per di più abbiamo inventato le scienze e le arti, la scrittura e i versi, la musica e la pittura. Tutti gli ideali provengono da noi, e anche gli abbellimen­ti della vista».

Lessi questo racconto da ragazzo e me ne innamorai (i racconti di Maupassant sono un gradino sotto a quelli di Cechov e di Kafka), ma solo ora lo capisco, lo sento, adesso che i giochi sono fatti e il tempo che mi separa dalla morte è presumibil­mente più breve di quello che mi divide dalla mia nascita.

È vero, dietro c’è l’ombra oscura di Baudelaire, la sua polemica contro i romantici. È lui ad aver eletto l’artificio umano ad antidoto contro la brutalità della Natura. Dobbiamo a lui questa magnifica intuizione. La Natura non ha saputo creare niente di più preciso della matematica, niente di più emozionant­e di una sinfonia di Mozart, niente di più maestoso di un affresco di Michelange­lo. Nulla è più infinito e audace dell’immaginazi­one umana. La più salubre acqua di fonte vale meno di un buon vino d’annata; nessun frutto è degno di una cioccolata con la panna e nessun prato è comodo come un materasso.

Lo riconosco, probabilme­nte stiamo abusando della Natura, e per questo verremo puniti; riconosco anche che occorrerà rivedere un po’ le priorità per proteggere la nostra specie dal disastro. Eppure è questo che siamo, in noi è connaturat­a una tensione al piacere, al divertimen­to, alla comodità. Forse se ci mettiamo dalla parte di un orso bianco o di un leone della savana, noi siamo gli infestator­i, i parassiti che si nutrono delle risorse che dovrebbero essere spartite con maggiore equità tra tutte le creature della terra. Ma in fondo anche l’ecologia e il senso di giustizia sono una nostra invenzione. Siamo una specie spietata, ma siamo anche la sola ad avere orrore della propria spietatezz­a. Se la Natura è indifferen­te, noi, quando ce ne ricordiamo, coltiviamo ideali più profondi del mare e più alti delle montagne.

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LE ILLUSTRAZI­ONI IN ALTO SONO DI MASSIMO CACCIA di Konrad Lorenz, vi è tutta una letteratur­a nata da scienziati e divulgator­i: zoologi ed etologi come Gerald Durrell con La mia famiglia e altri animali, Richard Dawkins con Il gene egoista o Stephen J. Gould con Il pollice del panda. Tra scrittura e...
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