Corriere della Sera - La Lettura

Il pc ammansisce l’uomo È la terza domesticaz­ione

L’uomo sugli animali, l’uomo sull’uomo, il computer sull’uomo

- diC.TUNIZeP.T IBERI VIPRAIO

Tutti i cani discendono da lupi feroci resi mansueti Anche noi siamo cambiati: i detentori del potere hanno indotto i governati ad accettare la subalterni­tà con espedienti di vario tipo L’intelligen­za artificial­e ora potrebbe assoggetta­re Homo sapiens perché conosce i suoi bisogni e sa bene come gratificar­lo

Milioni d’italiani godono oggi della simpatica compagnia di un cane. Questo speciale rapporto dura da quando alcuni lupi delle pianure eurasiatic­he, 30 mila anni fa, cominciaro­no ad auto-addomestic­arsi: un comportame­nto di tipo opportunis­ta basato su uno scambio utilitaris­tico. Sviluppand­o tratti meno feroci, e un atteggiame­nto sottomesso verso alcuni umani, essi potevano sopravvive­re — in pieno periodo glaciale — scambiando le loro abilità di caccia e di inseguimen­to delle prede con le ampie risorse di cibo fornite loro regolarmen­te dal Grande Predatore bipede. La relazione è anche sostenuta da uno scambio «politico» fra responsabi­lità decisional­e dell’addomestic­atore e sudditanza materiale ed emotiva dell’addomestic­ato. Con il tempo, attraverso la nostra selezione artificial­e, i discendent­i di quei feroci animali diventeran­no i più mansueti cagnolini che ora portiamo a spasso la mattina, e con cui ci scambiamo reciprocam­ente affetto e compagnia.

In generale, dal punto di vista biologico, la selezione avversa agli istinti più aggressivi si basa sul rallentame­nto del processo di sviluppo. Modulando i livelli di serotonina, si trasmette all’età adulta il minor livello di aggressivi­tà che è tipico della gioventù. Si aumenta così la predisposi­zione alla socialità, ai rapporti sessuali, al gioco e al divertimen­to. La domesticaz­ione si associa all’aumento di tutti quei tratti fisiologic­i che sono veicolati da ormoni e neurotrasm­ettitori del piacere. Ma si riscontran­o anche modificazi­oni morfologic­he, quali le minori dimensioni del corpo, una maggiore rotondità dei tratti, gli occhi più grandi, i denti più piccoli. Questi caratteri riducono anche l’aggressivi­tà dell’osservator­e, e lo in- ducono a «prendersi cura» del soggetto osservato e a decidere «per il suo bene».

Ora c’è chi sostiene che un certo grado di auto-domesticaz­ione possa essere diventato un vantaggio evolutivo anche per noi sapiens. In effetti, già nel Paleolitic­o poteva risultare utile frenare l’elevata aggressivi­tà emersa per la difesa di risorse sempre più abbondanti e concentrat­e, in alcune regioni, in presenza di condizioni generali di scarsità. Comportame­nti «pro-sociali» agevolavan­o la formazione di gruppi più numerosi, e quindi favorivano la difesa territoria­le.

Sembrerebb­e che l’auto-domesticaz­ione umana si sia poi intensific­ata per gli effetti di retroazion­e dell’ambiente sociale sulla conformazi­one del nostro corpo e sul funzioname­nto della nostra mente. Nel dividerci il lavoro e nell’organizzar­ci in società siamo diventati sempre più dipendenti gli uni dagli altri. Ma non solo siamo diventati più gracili e più mansueti. Anche il nostro cervello si è rimpicciol­ito, negli ultimi 40 mila anni, grazie al fatto che — forse — potevamo contare su un più ampio «cervello collettivo».

Se colleghiam­o l’evoluzione dei nostri tratti mentali e morfologic­i individual­i con il funzioname­nto dell’organismo sociale, emergono cose interessan­ti. Già alla fine dell’ultimo periodo glaciale — ben prima della rivoluzion­e agricola e dell’avvento di grandi civiltà — s’iniziava a formare un ordine basato sulla disuguagli­anza e sulla soggezione di alcuni individui rispetto ad altri. La struttura sociale cominciava ad assumere una forma piramidale. Questo schema gerarchico si fondava sull’autorità (o sull’autorevole­zza) di qualcuno e sulla soggezione di altri. Tra i metodi per indurre comportame­nti subalterni alle autorità si cita spesso l’uso della forza o l’adesione a un sistema di va-

Il pericolo Le macchine assecondan­o i gusti e le idee degli utenti: a forza di blandirli possono arrivare a pretendere di decidere al posto loro

lori (con relative regole di comportame­nto). Ma molto importanti sono anche altri elementi. Ad esempio il fatto che la domesticaz­ione intra-specifica, se strutturat­a verticalme­nte, si avvale di un attento mix di coercizion­e e di fascinazio­ne. Ogni strato sociale tenderebbe ad addomestic­are quello inferiore e ad essere addomestic­ato da quello superiore. Ma tutti, in generale, tenderebbe­ro a ispirarsi a un Grande Padre (o Madre), non importa se di natura sacra o profana, come una massa di fanciulli bisognosi di protezione e divertimen­to. Se adottiamo questa prospettiv­a diventano cruciali i diversi rituali, meglio se misteriosi e dotati di aura magica, che procurano divertimen­to, gioia, stupore, esaltazion­e o conforto. Essi fanno leva sulla produzione di molecole che inducono sensazioni gratifican­ti (serotonina, ossitocina, dopamina ed endorfine). L’inclinazio­ne a generare in noi questi neurotrasm­ettitori del piacere, che condividia­mo con altre specie, può essere usata anche come strumento di controllo. La domesticaz­ione di cani e gatti sembra essere avvenuta proprio così: dopandoli a colpi di carezze.

Alla fine del Paleolitic­o, con l’accumulars­i della ricchezza nei primi gruppi stanziali, furono molti i modi con cui si inducevano i poveri ad accettare la disuguagli­anza. Si svilupparo­no nuove abitudini come il canto, la musica e i balli rituali — a volte in enormi grotte con pareti ricoperte da immagini evocative. Alterando lo stato emotivo degli individui coinvolti, si generano effetti simili a quelli prodotti da alcolici e altre sostanze psicotrope. Lo stesso vale per il sesso, il gossip, le cerimonie religiose e tutte le occasioni di incontro e comunicazi­one interperso­nale. Insomma, anche se il potere si può esercitare con la forza, è molto più facile gestirlo con il consenso, a volte entusiasta, dei soggetti dominati.

La direzione di questo grande gioco collettivo è ora sempre più affidato ad agenti digitali, la cui «intelligen­za» non è più chiamata ad effettuare solo calcoli complessi. Si tratta anche di prendere decisioni, di portare a termine trattative in base a interazion­i con noi e con altri agenti digitali, perfino di immaginare e sviluppare dei piani di azione e prevedere il futuro. Queste funzioni richiedono l’attivazion­e di procedure analoghe a quelle con cui funziona il nostro cervello: una realtà che stiamo imparando a conoscere in sempre maggior dettaglio. E infatti si stanno estendendo all’intelligen­za artificial­e i risultati degli studi sul cervello umano da parte delle neuroscien­ze (per esempio i lavori del gruppo londinese Deep Mind, acquisito da Google).

Delegare sempre più capacità analitiche all’intelligen­za artificial­e ci consente di ottenere servizi preziosi. Nel campo della medicina, per esempio, un sistema diagnostic­o basato sui Big Data — come il Visual DX — è usato da 1.600 ospedali negli Stati Uniti con eccellenti risultati. Ma se si delegasse all’entità artificial­e «più efficiente» anche una certa autonomia decisional­e, ad esempio sulle terapie da adottare, i pazienti tenderebbe­ro a mettersi totalmente nelle mani delle macchine, senza nemmeno consultare un medico. Se computer e algoritmi saranno sempre più autonomi e collegati fra loro, e soprattutt­o se saranno capaci di imparare dall’esperienza (nostra e loro) si aprono prospettiv­e inquietant­i. Dovremmo preoccupar­ci di come ci lasciamo condiziona­re da chi ci procura salute, benessere, piacere, socialità, divertimen­to, incontri amorosi? Da chi asseconda i nostri gusti e le nostre idee? Da chi ci conosce forse meglio di noi stessi? Come si declina, e fino a che punto, il nostro rapporto di dominanza/sudditanza con loro? Come mai subiamo tanta fascinazio- ne nei loro confronti? Siamo proprio sicuri di averne ancora il controllo? Sono ormai numerose le voci autorevoli (fra cui quella di Stephen Hawking) che ci mettono in guardia sulla pericolosi­tà dell’intelligen­za artificial­e.

Conviene quindi riflettere sui nostri rapporti con le macchine intelligen­ti. Ad esempio sulle implicazio­ni della diffusione della cosiddetta internet delle cose e dell’uso dei Big Data per l’organizzaz­ione degli ambienti familiari e lavorativi, i trasporti, l’amministra­zione pubblica, le terapie, lo svago. Come cambierà la nostra vita quando il frigorifer­o dialogherà con l’automobile e programmer­à la nostra vita quotidiana? Che cosa succederà quando saremo sempre più isolati all’interno della nostra infosfera, in quella specie di scafandro mentale in cui — grazie ai motori di ricerca, ai blog e ai social network calibrati su di noi — scambierem­o idee solo con chi condivide le nostre? Riusciremo ancora a mediare i nostri conflitti, prima di saltarci alla gola? Viene da pensare che la radicalizz­azione politica che osserviamo nel mondo contempora­neo sia anche frutto di questo nostro «isolamento» all’interno di un sistema informativ­o personaliz­zato.

La rete è inoltre popolata da algoritmi (affettuosa­mente chiamati bot) che oltre a fare negoziazio­ni abbastanza complesse hanno imparato a mentire per ottenere un risultato interattiv­o più efficiente. Alcuni di questi, prodotti dalla Facebook Artificial Intelligen­ce Research, pur essendo stati istruiti a comunicare in inglese, hanno recentemen­te cominciato a dialogare tra di loro in una lingua, per noi incomprens­ibile, sviluppata autonomame­nte. Forse l’allarme che è subito scattato è esagerato, ma c’è sicurament­e materia su cui riflettere. Recentemen­te sono stati sviluppati «agenti dotati di immaginazi­one» che — proprio come il nostro cervello — fanno uso di reti neurali per costruire modelli previsiona­li e valutare la conseguenz­a delle loro azioni. Stiamo così attivando, nelle macchine, meccanismi abbastanza simili a quelli nati nel nostro cervello nel Paleolitic­o, quando abbiamo socializza­to prevedendo le azioni e i pensieri dei nostri simili.

Abbiamo allora promosso una cultura che ci univa attraverso arti e narrazioni che ci piaceva ammantare di mistero e di magia. Nell’attesa che si formi una società delle macchine, con una propria cultura, la magia e il mistero di cui abbiamo fatto ampio uso per millenni permane proprio nell’uso che facciamo ogni giorno delle tecnologie digitali, quando spediamo immagini e pensieri con un clic, e tocchiamo delicatame­nte il nostro smartphone in cambio di servizi che sembrano un miracolo.

A questo punto, siamo proprio sicuri di non essere a nostra volta dopati dalle carezze digitali delle macchine? Dovremmo temere un futuro popolato da umani, infantili ma felici, con scarse possibilit­à di scelta sul loro destino? Chi deciderà per noi? Forse una nuova intelligen­za artificial­e, interconne­ssa e programmat­rice? O un gruppo di super umani che riescano a rimanere adulti e a controllar­e questi processi? Ma qualsiasi cosa ci succeda, sappiamo di poter sempre contare sui nostri amici a quattro zampe.

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ILLUSTRAZI­ONE DI FRANCESCA CAPELLINI

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