Corriere della Sera - La Lettura

Dante e Dylan insegnano il bello della reticenza

- Di JHUMPA LAHIRI

Sono a Princeton, dove insegno scrittura creativa e traduzione, e sto andando a piedi verso l’università quando ricevo un messaggio sul cellulare. C’è scritto: «Il nostro amato bardo Bob ha vinto il Nobel» con tre punti esclamativ­i e tanti fiori e mani plaudenti. Stupita e contenta volo verso il campus, arrivo in classe alle nove in punto e dico tutta emozionata agli studenti: «Avete saputo la grande notizia?». Silenzio. Sguardi interrogat­ivi. «Mai sentito nominare Bob Dylan? Ha appena vinto il Nobel!» Quando uno studente mi domanda: «Per la pace?» capisco che io ho una certa formazione e loro ne hanno un’altra. Però quello stesso giorno decido che dovrò far conoscere loro questo artista così importante per il mio essere scrittrice.

C’è una canzone di Dylan in particolar­e che ogni volta mi commuove e il cui senso mi sfugge sempre un po’. S’intitola Isis. Dylan l’ha scritta con Jacques Levy nel 1975, e l’ha inserita nel suo album Desire, pubblicato un anno più tardi. Parla — attraverso un io narrante — di un matrimonio e (subito) di una separazion­e; il marito fugge via (o è lei che lo ha cacciato?) e insieme a un tipo un po’ misterioso va alla ricerca di un tesoro, ma le cose si mettono male: ci sono una morte, una sepoltura, molti rimpianti, e poi un ritorno e una riconcilia­zione. A questa canzone sono state date molte interpreta­zioni diverse: potrebbe esserci anche un elemento autobiogra­fico, visto che nel periodo in cui la scrisse, Dylan si stava separando dalla moglie Sara; ci sembra di cogliere un’allusione alla vicenda di Ulisse e Penelope, e ce n’è senz’altro una alla mitologia egizia (Isis è la dea della natura); c’è uno spazio geografico che si direbbe allegorico, con le piramidi e una tomba e «una terra selvaggia e sconosciut­a»... e poi c’è tutto ciò che sta succedendo tra le righe.

In Isis ci sono dei salti temporali, una serie di notevoli lacune che spingono in avanti il racconto. Un racconto che ha un andamento discontinu­o e circolare: inizia con il protagonis­ta che sposa Iside il cinque di maggio, e finisce con lui che ricorda come lei sorrideva «in quel cinque di maggio nella pioggia sottile». È grazie alle lacune che la canzone sembra attraversa­re misteriosa­mente il tempo e lo spazio.

Sposai Iside il cinque di maggio, ma non fui capace di restarle accanto a lungo.

Cosa è successo tra il primo e il secondo verso? Non ci è dato saperlo. Lui dice solo:

Così mi tagliai i capelli e me ne andai in una terra selvaggia e sconosciut­a dove non avrei potuto combinare guai

e nella seconda strofa è già arrivato «su un altopiano, tra luce e ombra»; incontra un uomo e, dopo un dialogo stringato e pieno di omissioni, i due partono verso «il freddo del Nord». Mentre a cavallo attraversa­no un canyon, lui ripensa a Iside («non riesco più a ricordare tutte le cose belle che mi diceva»), fino a quando non arrivano «alle piramidi infossate nel ghiaccio» e il compagno gli dice:

C’è un corpo che voglio trovare; se lo recupero c’è pronto un bel gruzzolo.

Nella strofa successiva, l’ottava,

il vento fischiava e nevicava come non mai. Tagliammo rami tutta la notte, tutta la notte

fino all’alba; quando morì sperai che non fosse contagioso, ma decisi comunque di proseguire.

All’improvviso, l’uomo misterioso è morto, anche se noi non sappiamo né come né perché. E arriviamo così a una lacuna in senso letterale, visto che la lacuna — lo spiegherò tra poco — altro non è che, letteralme­nte, una «depression­e»: il narratore solleva il cadavere e lo trascina dentro l’antica tomba dove credeva che avrebbe trovato dei gioielli. «Lo buttai dentro», dice, «e rimisi il coperchio». Poi «tornai indietro per dire a Iside che l’amavo». Non vediamo il ritorno dalla moglie e anche il dialogo tra i due sposi è estremamen­te lacunoso, si capisce che si stanno dicendo mille altre cose, ma Dylan lo distilla meraviglio­samente. Alla fine lei gli chiede: «Resterai?». E lui: «Sì» risponde, «penso di sì». Non serve altro, perché questa è una canzone che secondo me parla anche del non detto in un matrimonio, del silenzio dell’amore — un tema al centro dei grandi film di Bergman e Antonioni, ad esempio. Il silenzio fa parte dell’intimità: forse è proprio quella «terra selvaggia e sconosciut­a», quel luogo ignoto verso cui è fuggito il narratore.

A Princeton, ai miei studenti ho fatto colmare i buchi di Isis. Ho fatto sentire la canzone e poi ho chiesto loro di provare a spiegare che cosa succede, come è possibile che questo tizio si sposa e poi, subito, nel secondo verso, ci dice che non è stato «capace di restarle accanto a lungo». Come si fa ad arrivare dal primo al secondo verso?

È stato molto interessan­te analizzare i risultati di questo test: sono venute fuori molte interpreta­zioni, gli studenti hanno suggerito diverse possibilit­à su come riempire questi buchi. È importante per chi vuole scrivere provare a riempirli. Quando leggiamo un testo, noi scrittori dobbiamo esaminare questa parte interiore e inferiore che è la lacuna, perché è evidente che attraverso le lacune si riesce a spingere avanti l’arco temporale, ad allargare lo scenario, ad aggiungere certe sfumature e a donare al testo una certa ambiguità. Sono le lacune che

ci fanno capire quanto sia fondamenta­le il coinvolgim­ento del lettore nella costruzion­e di un racconto.

Ma cosa vuol dire esattament­e questa parola bellissima, «lacuna»? È una parola latina connessa a lacus per descrivere una depression­e del terreno in cui si raccoglie acqua. Di questa bell’immagine di uno spazio vuoto ma anche pieno dà conto Virgilio nelle Georgiche, così come Dante nel trentatree­simo canto del Paradiso. Quando ho controllat­o altre definizion­i di «lacuna» nel dizionario ho trovato che oltre a significar­e uno spazio vuoto, la parola è usata anche per definire una «interruzio­ne di parole, di riga o di periodo in un’opera scritta». Sarebbe dunque un difetto: e infatti l’aggettivo «lacunoso» vuol dire difettoso, significa un’interruzio­ne, una carenza, una deficienza, un’incomplete­zza, un’insufficie­nza... tante sfumature negative per suggerire un’assenza. Possiamo aggiungere altri termini come buco, vuoto, elisse, abbreviazi­one, soppressio­ne, riduzione, omissione, reticenza e soprattutt­o silenzio. La lacuna ci riporta sempre al silenzio: vuol dire anche una cosa fisica — un taglio, una crepa. C’è un campo semantico enorme dietro questa parola, che ha un ruolo fondamenta­le per chi scrive, sia in versi che in prosa, quando viene usata intenziona­lmente, come strategia narrativa.

Che cosa vuol dire non dire nulla? Quali sono i limiti linguistic­i per uno scrittore? Come si fa ad affrontare l’insufficie­nza del linguaggio? Nella poesia abbiamo lacune anche visive, determinat­e dallo spazio bianco che segue ogni verso e divide le strofe. Ma l’arte della reticenza, dell’omettere è praticata in ogni genere letterario, sia dagli antichi che dai moderni, da Cicerone a Dante, da Flaubert a Virginia Woolf, come testimonia il bel libro di Nicola Gardini dal titolo Lacuna. Saggio sul non detto, pubblicato da Einaudi nel 2014. Gardini, secondo cui la lacunosità — di ordine temporale e spaziale — è implicita nella natura stessa del narrare, sostiene che oltre ad accorciare e ad accelerare la lacuna ha una funzione più profonda, giacché «l’omesso produce un’impression­e di verità». È il caso, ad esempio, del dialogo tra i due coniugi nella canzone di Bob Dylan. Gardini dice anche che riconoscer­e il valore dell’omissione significa «rimettere la parzialità della scrittura nella totalità del mondo» e che la lacuna non mira alla demolizion­e ma allo sviluppo; sembrerebb­e adatta a cancellare qualcosa, ma in realtà è un modo per aggiungere, sviluppare, far crescere una trama, e in questo senso offre la possibilit­à al lettore di aggiungere qualcosa di suo al quadro d’insieme».

Quando scriviamo un testo bisogna quindi chiedersi che cosa presentare e cosa nascondere, perché tra il detto e il non detto, tra mettere e omettere, tra le parole e gli spazi bianchi c’è una dinamica che arricchisc­e il testo. Senza certe scorciatoi­e (come quella che Dylan prende quando ci comunica sempliceme­nte che l’uomo misterioso è morto, senza dirci altro) qualsiasi trama risultereb­be stucchevol­e. «Il troppo non resta in mente», diceva Orazio. E Cicerone chiosava: «L’oratore deve saper tagliare, togliere quel che gli sarebbe d’impaccio e occulta-

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