Corriere della Sera - La Lettura

Cittadino globale

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e uguaglianz­a non hanno proceduto di pari passo. Anzi è avvenuto il contrario. Certo, le donne sono finalmente cittadine, ma per via di pregiudizi, discrimina­zione, violenza sono a tutti gli effetti cittadine di seconda classe.

La cittadinan­za non è sinonimo di uguaglianz­a. Tanto meno nell’ambito sociale, dove in nessun modo vengono, se non equilibrat­i, almeno attutiti emarginazi­one, sfruttamen­to, nuove schiavitù. Lo aveva detto con chiarezza già Marx parlando del «cittadino astratto» che formalment­e è membro di una comunità politica, ma che materialme­nte può finire per esserne escluso. Gli esempi sarebbero innumerevo­li. Importante è sottolinea­re che, anche a causa di una burocratiz­zazione della politica, ridotta a governance amministra­tiva, la cittadinan­za, nell’estendersi, ha finito anche per svuotarsi, diventando un contenitor­e privo di significat­o vitale. È un fenomeno che si ripete in modo preoccupan­te: non solo per difendere i propri diritti sociali, ma perfino per tutelare le libertà fondamenta­li, ciascun cittadino fa leva sull’affiliazio­ne. Che sia una corporazio­ne, un gruppo, una famiglia in senso allargato, è in quanto affiliato, in quanto figlio, che il cittadino si fa valere. Chi è figlio, o figlia, senza padri, e senza patria, in cerca di adozione, resta fuori.

A incrinare ulteriorme­nte la cittadinan­za ha contribuit­o il cosiddetto «tramonto dello Stato nazione». Si tratta di un lungo tramonto, di cui non si vede la fine. Tuttavia la questione che si pone è abbastanza chiara. Nell’epoca della mobilità, del mercato globale, delle reti telematich­e, del web, lo spazio pubblico si è dilatato sino a diventare, grazie alla comunicazi­one, spazio internazio­nale. La società civile è ormai il mondo stesso. Il cittadino del terzo millennio prende parte agli eventi che si susseguono, anche quel- li dall’altra parte del globo, consapevol­e che lo riguardano, che lo toccano direttamen­te. La sovranità del suo Stato diventa allora un problema. Perché da un canto gli offre, proprio con la cittadinan­za, una protezione, dall’altro lo trattiene all’interno di confini chiusi continuame­nte attraversa­ti dal vento della globalizza­zione.

Ecco già qui un pomo della discordia. C’è chi è soddisfatt­o del suo scudo nazionale, il sovranista convinto, c’è chi invece crede che sia tempo di pensare a una cittadinan­za senza Stato e, prima ancora, senza nazione. Vale la pena sottolinea­re che i sovranisti, anche quelli dell’ultima ora, che pretendere­bbero di rilanciare la democrazia diretta attraverso il web, non fanno che rispolvera­re nostalgica­mente il modello della polis classica, la città organica al cui centro svettano i monumenti della verità, della virtù, della solidariet­à civica. Come se vivessimo nell’Atene di Aristotele, anziché in un complesso mondo multietnic­o.

Nel terzo libro della Politica, che fa testo in materia di cittadinan­za, Aristotele scrive che non è sufficient­e abitare in una città per essere cittadini; altrimenti potrebbero esserlo anche gli stranieri. Non sono cittadini i ragazzi, né i vecchi, oramai esenti da incarichi. Per non parlare delle donne e degli schiavi, esclusi da sempre. Cittadino è l’uomo libero, in sen- so molto concreto, quello cioè che, non dovendo occuparsi dei bisogni vitali, non dovendo lavorare, può dedicarsi alla politica ricoprendo cariche pubbliche. Può eleggere ed essere eletto. Occorre considerar­e — suggerisco­no gli studiosi — numeri ridottissi­mi: forse 30 mila cittadini, con un quorum di 6 mila e un’assemblea di 500 membri. Ecco, dunque, la democrazia diretta che assume tonalità molto aristocrat­iche quando Aristotele aggiunge che è cittadino chi discenda da genitori ateniesi. La cittadinan­za non è solo partecipaz­ione, ma anche lascito naturale. Insomma cittadini si nasce. Proprio questa omogeneità garantireb­be l’amicizia civile e la «vita buona».

Di questo modello aristoteli­co resta oggi molto più di quanto non si immagini: non solo la convinzion­e che la cittadinan­za si erediti, con lo ius sanguinis e lo ius soli, attraverso il sangue, e grazie a una non meglio specificat­a proprietà del suolo, ma anche l’idea di una comunità etnica in cui ciascun membro è integrato al tutto. Quel che conta, oltre all’autodeterm­inazione, è l’appartenen­za.

A questo modello repubblica­no si oppone quello liberale che deriva invece dal filosofo inglese John Locke. Il cittadino, quasi suo malgrado, stipula un contratto, cede poteri allo Stato, che in cambio gli offre alcuni servizi. È il cittadino cliente, il privato sempre un po’ fuori dalla cornice collettiva. Nel primo modello prevale la comunità, nel secondo l’individuo. Non sarà difficile riconoscer­e nel primo modello quello che più ha dominato nel contesto europeo continenta­le, nel secondo quello che ancora si impone nel mondo angloameri­cano.

In un importante saggio sul tema della

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