Corriere della Sera - La Lettura
Il multiculturalismo non è fallito: è già storia
L’americana Rita Chin: la convivenza procede per fasi successive
Il multiculturalismo esiste in Europa da decenni e dire che abbia «fallito» non aggiunge nulla alle questioni che comunque solleva. È una delle tesi espresse da Rita Chin, docente di Storia all’Università del Michigan, in The Crisis of Multiculturalism in Europe (Princeton University Press). «Fallimento»? Si tratta di una «conclusione profondamente fuorviante» perché, tra l’altro, «è come se si rinnegassero milioni di immigrati da tempo residenti in Europa» mentre, come architettura sociale, «il rifiuto del multiculturalismo nasconde i metodi in cui precedenti forme di razzismo sono riproposte sotto forma di differenze irriducibili tra i musulmani e la società liberaldemocratica europea». Chin non propone soluzioni politiche ma da storica invita a osservare il fenomeno secondo una prospettiva, appunto, storica.
Lei sottolinea come le società europee abbiano mutato col tempo i criteri per inquadrare gli immigrati: ora il discrimine è la religione. Quali sono i punti di svolta?
«Dipende dal gruppo di migranti e dal Paese. Semplificando, i primi lavoratori extraeuropei erano riconosciuti sulla base della categoria legale, della nazionalità o del Paese d’origine: “lavoratori ospiti” in Germania, West Indians in Gran Bretagna, “algerini” in Francia. Via via che la loro presenza si è stabilizzata, gli europei hanno preso a riferirsi a questi stranieri in base alla cultura d’origine o al gruppo etnico, anche se a volte le due categorie si sovrapponevano: i tedeschi identificavano dunque i Gastarbeiter come turchi, i britannici chiamavano Asian chi veniva dal Subcontinente indiano mentre i francesi continuavano a usare il termine “algerini”. Dopo l’89 sempre più europei hanno cominciato a classificare gli immigrati musulmani in base alla fede piuttosto che al Paese d’origine».
Il 1989 è un anno cruciale, lei scrive: non tanto per la caduta del Muro ma per la «fatwa» contro Rushdie per «I versi satanici» e, in Francia, per l’espulsione da scuola di alcune studentesse velate.
«Questi due eventi hanno mostrato all’opinione pubblica come diversi gruppi in Europa possano attribuire peso diverso a valori e principi. In entrambe le situazioni ci furono musulmani che cercarono di difendere apertamente le loro convinzioni e le loro pratiche, anche se risultavano incompatibili con le priorità europee mainstream. In Gran Bretagna si denunciò il corto circuito fra libertà di parola e fanatismo religioso, in Francia la laicité e l’integrità della Repubblica vennero messe in competizione con la richiesta di libertà di espressione da parte delle studentesse. La reazione negativa agli sforzi dei musulmani di difendere la loro religione e di esprimere in pubblico le loro credenze ha fatto sì che gli europei li vedessero come un gruppo religioso monolitico, la comunità di immigrati più problematica. Da qui, è stato facile assumere che l’incapacità dei migranti di adattarsi ai valori occidentali “liberali” mostrava la loro fondamentale incompatibilità con la società europea».
Perché la prospettiva di una «lunga storia» serve a comprendere il fenomeno del multiculturalismo?
«Tanti ritengono il multiculturalismo uno sviluppo recente, come se l’Europa non abbia esperienza del multietnico e del diverso. Invece no. E la prospettiva storica ci offre elementi di confronto e di contrasto».
Professoressa, lei descrive un doppio dilemma: da una parte, una maggiore apertura alle differenze che implica il cedimento ai valori illiberali che alcune culture portano con sé; dall’altra, la difesa della libertà a costo di fare a meno della tolleranza culturale. Quindi, aggiunge, il problema sta in una definizione univoca e fissa del termine libertà. Qual è, allora,
«Troppo spesso oggi sembra che l’idea di libertà si riduca a una nozione molto individualizzata. Come se fosse solo la capacità di ciascuno di muoversi nel mondo, di disporre del proprio corpo, del proprio denaro. Ma non funziona. La mia idea di libertà potrebbe opporsi alla tua, di libertà. Ma ci sono anche vie più collettive per comprendere la libertà: siamo una società libera quando ci si prende cura dei bisogni basilari di ciascuno. Se cominciamo a osservare la nostra libertà individuale come legata a quella altrui possiamo superare il nostro senso atomizzato della società».
Il suo libro critica la famosa affermazione del 2010 di Angela Merkel: «Il multiculturalismo ha fallito»...
«Sotto molti aspetti la “crisi” del multiculturalismo europeo è molto più uno stato mentale che una rappresentazione accurata delle condizioni sociali. Nelle grandi città del continente si osserva e sperimenta una società multiculturale. Un obiettivo del mio libro è capire perché il multiculturalismo in Europa sia ciclicamente definito “in crisi” e come questo comune sentire si sia radicato. Credo che l’affermazione della Merkel sia così problematica perché contribuisce al senso di crisi anziché alleviarlo».
Sembra che i valori che abbiamo sviluppato a partire dall’illuminismo possano minacciare una vera tolleranza.
«Ci battiamo per questo nucleo di principi essenziali, cioè democrazia, uguaglianza, libertà, da almeno 200 anni. Ce li siamo sudati, sono costati molte vite. Ma non sono acquisiti una volta per tutte, come dimostra la politica americana oggi. Il problema con il modo in cui il liberalismo è stato agitato nel dibattito europeo contemporaneo è che adesso è invocato come la radice di una cultura e di una civiltà specificamente occidentali piuttosto che un set di valori universali. Se i valori liberali fossero a disposizione solo degli europei, allora sì che il liberalismo minaccerebbe la tolleranza».
E dunque?
«Usare i valori liberali per tracciare una linea tra noi e loro è controproducente. Piuttosto che limitarsi a chiedere agli immigrati di aderire ai loro valori, gli europei, sia come Stati sia come società, devono essere all’altezza dei loro valori liberali. Parlare di “fallimento” del multiculturalismo, come si fa, comunica agli immigrati che non hanno posto nelle società europee. È u n a p p ro cc i o d e mocrat i co ? Fa vo r i s ce l’uguaglianza?».
Sul versante dell’immigrazione, il problema viene vissuto non solo nei termini qualitativi che affronta il suo libro, ma anche quantitativi. E i numeri cambiano i termini della questione.
«Sì, i numeri fanno la differenza. Praticamente ogni leader europeo ha ammesso che quantità limitate di migranti non siano un problema e anzi arricchiscano la società. Ma un afflusso significativo muta la percezione. E allora: come si inseriranno nella nostra società? Avranno un impatto sulla nostra cultura? Devono accedere alle nostre risorse?».
Come ne usciamo, dunque? Che cosa potrà salvare la democrazia e costruire sane società plurali?
«Una prospettiva storica che riconosca i cambiamenti nel tempo è importante: nulla è statico, né gli immigrati e la loro cultura né la società che li ospita. È così che possiamo vedere i problemi di un multiculturalismo di Stato ma anche lavorare a politiche che promuovano la diversità etnica e culturale. Ciascuno deve avere voce, spazio, e battersi perché prospettive diverse possano confrontarsi. Gli Stati europei devono partire dalla diversità etnica già in essere anziché consentire che segmenti importanti della popolazione fantastichino un ritorno a un’omogeneità etnica e culturale».