Corriere della Sera - La Lettura

Mangiamo gli altri animali per sentirci superiori a loro

Confini Non siamo carnivori per necessità ma per scelta. E la caccia non ha avuto un ruolo centrale per i nostri antenati Però la struttura sacrifical­e che trasforma in cibo altri esseri viventi è difficile da superare: conviene ingannarla

- Di ADRIANO FAVOLE

Perché continuiam­o a nutrirci di animali, vivendo in una società che dispone di molte alternativ­e alimentari? Forse perché la carne «è buona»? La risposta non pare granché soddisface­nte, visto che evitiamo di mangiare cibi che sarebbero altrettant­o buoni (la carne umana, per esempio). Come mise in luce Marvin Harris, un cibo buono da mangiare è in primo luogo «buono da pensare»: le scelte alimentari hanno certo una base biologica (nutrirci), ma le società le riempiono di significat­i che si radicano nella storia e nella cultura. Mangiamo carne perché siamo naturalmen­te e inevitabil­mente carnivori? Anche questa risposta è discutibil­e: l’essere umano è biologicam­ente un onnivoro e dunque la carne può (ma non necessaria­mente deve) essere una parte della sua dieta.

Su più fronti oggi cresce un diffuso malessere, a volte una critica aperta e radicale all’umanità carnivora. Ragioni etiche come il rispetto degli animali, alcuni dei quali sono ormai riconosciu­ti in diverse legislazio­ni come «quasi-persone»; ragioni ecologiche come l’impatto devastante che la produzione di carni animali a fini alimentari ha sul pianeta al tempo dell’Antropocen­e; ragioni economiche legate all’insostenib­ilità sociale della divisione tra un’umanità che mangia abbondante­mente carne e un’umanità che non ha di che sfamarsi, spingono a mettere in discussion­e il carnivoris­mo.

Un lungo e denso saggio della filosofa francese Florence Burgat, L’humanité carnivore, esplora la questione e si chiede se ci siano alternativ­e praticabil­i. Il libro parte da una domanda che ribalta il senso comune: uccidiamo gli animali per poterli mangiare, oppure li mangiamo per poterli uccidere? La trasformaz­ione simbolica degli animali in «carne», un concetto che nasconde la morte necessa-

lunga più importante della caccia. Gli studi sull’arte rupestre mettono oggi in luce che le scene di caccia sono pochissime e spesso gli animali rappresent­ati non erano prede abituali. Alcuni studiosi propongono di ridimensio­nare il ruolo della caccia nel processo di ominazione, mettendo piuttosto l’accento sullo sviluppo delle capacità di condivisio­ne del cibo. Non a caso, tra gli scienziati della paleoantro­pologia, si è diffusa la cosiddetta scavenging hypothesis (da to sca

venge: «recuperare», a scavenger: «animale che si nutre di carogne»). Perlopiù cacciatore di piccole prede, l’uomo primitivo si sarebbe in realtà nutrito di grandi prede catturate da altri carnivori, con cui viveva in simbiosi. E se le pitture rupestri rappresent­assero i compagni della

creazione più che le prede? La tesi della scelta è difendibil­e anche per l’esistenza di religioni che in epoca storica hanno rifiutato il consumo alimentare di animali: dall’India alla Cina «si tratta però di attitudini eccezional­i in un insieme culturale variegato in cui è ampiamente affermato il consumo di carne e di pesce».

La domesticaz­ione degli animali, la loro riduzione a oggetti del desiderio e delle violenze umane, cambiò il quadro( lasciando solo isole di vegetarism­o ). L’ affermazio­ne dell’ antropocen­trismo coincide con la diffusione a livello planetario della struttura del sacrificio che fa della «giusta» e inevitabil­e morte animale il contraltar­e all’esaltazion­e e agli eccessi dell’anthropos. Il carnivoris­mo diventa una struttura profonda o forse rivela la «natura» violenta dell’essere umano. «Secondo la via freudiana, la violenza precede la storia», scrive la Burgat.

Ma allora siamo carnivori per scelta o per natura (seppure una natura psicologic­a o ontologica, più che alimentare)? La Burgat non sa che farsene dell’antropolog­i asociale e dei suoi studi su altre culture che hanno limitato o vietato l’ uso alimentare delle carni. Considera l’ etnologia una dimensione« di superficie» e vede nell’ antropolog­ia filosofica l’ accesso a una dimensione profonda. La parsimonia del contadino tradiziona­le, che alleva con cura il suo maiale e lo sacrifica solo in occasioni rituali e conviviali, non è altro che la conferma della struttura del sacrificio che esplode in tutta la sua forza nell’attuale eccidio di massa di miliardi di animali che finiscono sulle tavole di vecchi e nuovi affamati carnivori.

Scriveva Jacques Derrida che un certo grado di cannibalis­mo è inevitabil­e. Non si può contare sulla rinuncia volontaria dell’umanità alla violenza, gli fa eco la filosofa francese che propone — per uscire dal carnivoris­mo — di giocare d’astuzia. Se la struttura sacrifical­e è inevitabil­e perché ancorata al fondo dell’uomo (una tesi su cui avremmo molto da ridire…), possiamo agire solo attraverso operazioni simboliche di «sostituzio­ne». Che l’uomo continui a pensarsi carnivoro: purché la «carne» sia prodotta a partire da proteine vegetali (le polpette di soia) o

in vitro (una sperimenta­zione in atto), coltivando cellule animali. Produrre muscoli in laboratori­o sembrerebb­e essere una tecnologia promettent­e, che eviterebbe la morte in massa dei nostri compagni. La ragione carnivora è sovrana e solo l’inganno può sconfigger­la.

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