Corriere della Sera - La Lettura
Un po’ più di un romanzo che va spesso a capo
Ritorni Edoardo Albinati, ormai prosatore affermato (è del 2016 la vittoria allo Strega con «La scuola cattolica»), ripropone dopo 22 anni una sua narrazione in versi. Un bilancio intimo e familiare in bilico fra due scritture
Uno dei grandi idoli della poesia moderna e contemporanea, a partire, diciamo, dal Romanticismo, è stato quello della narrazione in versi, che nella sua forma più estrema, azzardata, anche improbabile, ha spesso coinciso con l’idea del poema. La nozione stessa di prosa quasi invariabilmente ha comportato il riferimento a possibilità d’apertura e rinnovamento del territorio poetico, forma e contenuti insieme: lingua, temi, intenzioni, natura del verso, configurazione del tempo, modalità del discorso (racconto, dialoghi, personaggi). Nel gioco interminabile delle spinte e reazioni tra io e mondo, tra soggettività e oggettività, tra verticalità e distensione, il miraggio del poema in versi ha rappresentato ciclicamente una possibilità di reazione alle vertigini e all’assolutezza della dimensione lirica, come ne fosse l’antidoto più potente e affidabile. Con tutte le indecisioni, i compromessi ma anche, tanto più, gli equivoci del caso. Chi si arroga il diritto di parola per centinaia e centinaia, se non migliaia di versi, magari facendo gravitare il mondo intero attorno a un personaggio autobiografico o a una voce in prima persona, può infatti dare adito a un processo di accentramento, a un’ipertrofia personalistica tanto più esposte e discutibili che nel caso di una poesia lirica.
Si può dire che in genere il sogno sia questo: scrivere un’opera che costituisca un acquisto dal punto di vista della durata, dello sviluppo dei caratteri, del riferimento preciso a tempi e luoghi (la storia!) ma senza rinunciare all’intensità e alle prerogative comunque offerte dal verso. Una poesia che sia anche romanzo, insomma. Quest’unione d’intensità e tempo lungo, di concentrazione e trasformazione, del resto, potrebbe anche essere uno dei tanti modi per riconoscere l’eccellenza della Commedia, e al contempo la sua eccezionalità. Sta di fatto che tanto più nel corso del secondo Novecento, proprio quando con più determinazione il modello dantesco è stato ripreso in alcune importanti operazioni poetiche, la tentazione del poema si è fatta sentire con più forza e continuità. Eppure, anche se con tutte le distinzioni e gradazioni necessarie, è difficile non riconoscere come si tratti di una vi- cenda spesso e volentieri di mezzi fallimenti, o comunque, se si preferisce, di successi parziali. Quasi fossero mostri o creature impossibili, i poemi del nostro tempo finiscono per leggersi (non senza impazienza) più per ciò che dal punto di vista della poesia risulta carente, piuttosto che per quello che sono capaci di offrire. Il bicchiere mezzo vuoto, in sostanza, pesa di più di quello mezzo pieno. Basti per tutti il tentativo poematico forse più organico e ambizioso degli ultimi decenni, vale a dire La camera da letto di Attilio Bertolucci, la cui estensione epico-narrativa non riesce in ogni caso a colmare la perdita delle accelerazioni, dell’energia di significazione di cui questo poeta è capace nei testi di misura più breve.
Ci siamo dilungati su questi problemi perché portano direttamente al cuore di un poema, La comunione dei beni, che a poco più di vent’anni dalla prima uscita, era il 1995, Edoardo Albinati ha rivisto e ripre- sentato per Nino Aragno editore (la prefazione è di Giordano Meacci). Anche leggendo queste pagine, infatti, ci si trova di fronte allo stesso genere di sollecitazioni: perché la poesia e non il romanzo, cosa comporta la dilatazione temporale, in che modo si sostiene e si giustifica il verso, qual è la plausibilità complessiva dell’opera.
In quegli anni Albinati (che l’anno scorso ha vinto lo Strega con La scuola cattolica, Rizzoli) era ancora diviso tra l’arte poetica e quella narrativa, e questo poema potrebbe anche vedersi come il punto di massima oscillazione e insieme di massimo contatto tra le due (di lì a qualche anno sarà poi il romanzo a prevalere). Proprio per questo colpisce tanto più il suo affidamento alla dimensione del verso — un verso lungo, spesso molto lungo (quattro, cinque, sei accenti forti), che se pure può rivendicare vari precedenti nella nostra tradizione, sembra regolato comunque più dal punto di vista concettuale e semantico, se non addirittura visivo, che non da quello ritmico e musicale. Come tale presenta inevitabilmente un certo grado di arbitrio, di aleatorietà. Difficile dire se sia stato scritto per portare la poesia al di là di sé stessa o viceversa per impedire che travalichi da ultimo i propri confini; se non invece, con consapevole contraddizione, per le due cose insieme.
Ben più che dalla necessità del verso o dalle corrispondenze interne del testo, il discorso poetico è dettato da un impulso memoriale, e anzi, più precisamente, etico-memoriale. Infatti la rievocazione delle vicende familiari, dall’infanzia alla maturità, che è il motivo unico del libro, non sussiste mai autonomamente, per il puro piacere del racconto o per il tentativo d’immortalare in qualche modo il passato. Il fatto stesso che la voce narrante per lo più si rivolga a se stessa in seconda persona dà invece al poema il carattere di una confessione, in qualche modo di un’espiazione. La ripresa in forma rapsodica e sussultoria del cosiddetto «tema famigliare» — i genitori, l’«educazione borghese», la ribellione, gli amori, gli amici, il matrimonio, i figli — comporta sempre un rilievo e un’implicazione di natura morale. E questa riguarda sostanzialmente il tempo sprecato, il rapporto tra responsabilità e irresponsabilità, l’«amore inutilizzato», la possibilità di una condivisione di forme che sono valori e di valori che sono forme (ma anche beni, regole, convenzioni). Detto altrimenti: il significato profondo del proprio retaggio o anche, con la parola forse più importante del poema, della durata. «Ciò che conta non è la forza, ma la durata», viene ripetuto tante volte.
In questa specie di racconto onirico, quasi surreale, che sembra dettato in una strana simbiosi di lucidità e abbandono, i piani della rappresentazione si sovrappongono continuamente, e così l’istantanea e il campo lungo, la spirale sintattica e il verso-sentenza. A volte nel gioco delle smentite e delle inversioni il racconto perde in perspicuità, altre volte la svolgimento dei versi si fa pesante e insieme un po’ inerte, ma è vero che nel complesso il sistema metaforico, in cui gli ambiti materiale, etico e formale fanno tutt’uno, possiede una necessità e una tenuta complessiva (la casa, l’edificare, il conservare, il rapporto interno-esterno: «Magari fosse semplice trovare un ritmo nuovo/ per i corridoi lastricati di marmo»...). Una volta di più il bicchiere del poema appare mezzo pieno (e mezzo vuoto). Il che, comunque, non è un risultato privo di valore.