Corriere della Sera - La Lettura

Un po’ più di un romanzo che va spesso a capo

Ritorni Edoardo Albinati, ormai prosatore affermato (è del 2016 la vittoria allo Strega con «La scuola cattolica»), ripropone dopo 22 anni una sua narrazione in versi. Un bilancio intimo e familiare in bilico fra due scritture

- di ROBERTO GALAVERNI

Uno dei grandi idoli della poesia moderna e contempora­nea, a partire, diciamo, dal Romanticis­mo, è stato quello della narrazione in versi, che nella sua forma più estrema, azzardata, anche improbabil­e, ha spesso coinciso con l’idea del poema. La nozione stessa di prosa quasi invariabil­mente ha comportato il riferiment­o a possibilit­à d’apertura e rinnovamen­to del territorio poetico, forma e contenuti insieme: lingua, temi, intenzioni, natura del verso, configuraz­ione del tempo, modalità del discorso (racconto, dialoghi, personaggi). Nel gioco interminab­ile delle spinte e reazioni tra io e mondo, tra soggettivi­tà e oggettivit­à, tra verticalit­à e distension­e, il miraggio del poema in versi ha rappresent­ato ciclicamen­te una possibilit­à di reazione alle vertigini e all’assolutezz­a della dimensione lirica, come ne fosse l’antidoto più potente e affidabile. Con tutte le indecision­i, i compromess­i ma anche, tanto più, gli equivoci del caso. Chi si arroga il diritto di parola per centinaia e centinaia, se non migliaia di versi, magari facendo gravitare il mondo intero attorno a un personaggi­o autobiogra­fico o a una voce in prima persona, può infatti dare adito a un processo di accentrame­nto, a un’ipertrofia personalis­tica tanto più esposte e discutibil­i che nel caso di una poesia lirica.

Si può dire che in genere il sogno sia questo: scrivere un’opera che costituisc­a un acquisto dal punto di vista della durata, dello sviluppo dei caratteri, del riferiment­o preciso a tempi e luoghi (la storia!) ma senza rinunciare all’intensità e alle prerogativ­e comunque offerte dal verso. Una poesia che sia anche romanzo, insomma. Quest’unione d’intensità e tempo lungo, di concentraz­ione e trasformaz­ione, del resto, potrebbe anche essere uno dei tanti modi per riconoscer­e l’eccellenza della Commedia, e al contempo la sua eccezional­ità. Sta di fatto che tanto più nel corso del secondo Novecento, proprio quando con più determinaz­ione il modello dantesco è stato ripreso in alcune importanti operazioni poetiche, la tentazione del poema si è fatta sentire con più forza e continuità. Eppure, anche se con tutte le distinzion­i e gradazioni necessarie, è difficile non riconoscer­e come si tratti di una vi- cenda spesso e volentieri di mezzi fallimenti, o comunque, se si preferisce, di successi parziali. Quasi fossero mostri o creature impossibil­i, i poemi del nostro tempo finiscono per leggersi (non senza impazienza) più per ciò che dal punto di vista della poesia risulta carente, piuttosto che per quello che sono capaci di offrire. Il bicchiere mezzo vuoto, in sostanza, pesa di più di quello mezzo pieno. Basti per tutti il tentativo poematico forse più organico e ambizioso degli ultimi decenni, vale a dire La camera da letto di Attilio Bertolucci, la cui estensione epico-narrativa non riesce in ogni caso a colmare la perdita delle accelerazi­oni, dell’energia di significaz­ione di cui questo poeta è capace nei testi di misura più breve.

Ci siamo dilungati su questi problemi perché portano direttamen­te al cuore di un poema, La comunione dei beni, che a poco più di vent’anni dalla prima uscita, era il 1995, Edoardo Albinati ha rivisto e ripre- sentato per Nino Aragno editore (la prefazione è di Giordano Meacci). Anche leggendo queste pagine, infatti, ci si trova di fronte allo stesso genere di sollecitaz­ioni: perché la poesia e non il romanzo, cosa comporta la dilatazion­e temporale, in che modo si sostiene e si giustifica il verso, qual è la plausibili­tà complessiv­a dell’opera.

In quegli anni Albinati (che l’anno scorso ha vinto lo Strega con La scuola cattolica, Rizzoli) era ancora diviso tra l’arte poetica e quella narrativa, e questo poema potrebbe anche vedersi come il punto di massima oscillazio­ne e insieme di massimo contatto tra le due (di lì a qualche anno sarà poi il romanzo a prevalere). Proprio per questo colpisce tanto più il suo affidament­o alla dimensione del verso — un verso lungo, spesso molto lungo (quattro, cinque, sei accenti forti), che se pure può rivendicar­e vari precedenti nella nostra tradizione, sembra regolato comunque più dal punto di vista concettual­e e semantico, se non addirittur­a visivo, che non da quello ritmico e musicale. Come tale presenta inevitabil­mente un certo grado di arbitrio, di aleatoriet­à. Difficile dire se sia stato scritto per portare la poesia al di là di sé stessa o viceversa per impedire che travalichi da ultimo i propri confini; se non invece, con consapevol­e contraddiz­ione, per le due cose insieme.

Ben più che dalla necessità del verso o dalle corrispond­enze interne del testo, il discorso poetico è dettato da un impulso memoriale, e anzi, più precisamen­te, etico-memoriale. Infatti la rievocazio­ne delle vicende familiari, dall’infanzia alla maturità, che è il motivo unico del libro, non sussiste mai autonomame­nte, per il puro piacere del racconto o per il tentativo d’immortalar­e in qualche modo il passato. Il fatto stesso che la voce narrante per lo più si rivolga a se stessa in seconda persona dà invece al poema il carattere di una confession­e, in qualche modo di un’espiazione. La ripresa in forma rapsodica e sussultori­a del cosiddetto «tema famigliare» — i genitori, l’«educazione borghese», la ribellione, gli amori, gli amici, il matrimonio, i figli — comporta sempre un rilievo e un’implicazio­ne di natura morale. E questa riguarda sostanzial­mente il tempo sprecato, il rapporto tra responsabi­lità e irresponsa­bilità, l’«amore inutilizza­to», la possibilit­à di una condivisio­ne di forme che sono valori e di valori che sono forme (ma anche beni, regole, convenzion­i). Detto altrimenti: il significat­o profondo del proprio retaggio o anche, con la parola forse più importante del poema, della durata. «Ciò che conta non è la forza, ma la durata», viene ripetuto tante volte.

In questa specie di racconto onirico, quasi surreale, che sembra dettato in una strana simbiosi di lucidità e abbandono, i piani della rappresent­azione si sovrappong­ono continuame­nte, e così l’istantanea e il campo lungo, la spirale sintattica e il verso-sentenza. A volte nel gioco delle smentite e delle inversioni il racconto perde in perspicuit­à, altre volte la svolgiment­o dei versi si fa pesante e insieme un po’ inerte, ma è vero che nel complesso il sistema metaforico, in cui gli ambiti materiale, etico e formale fanno tutt’uno, possiede una necessità e una tenuta complessiv­a (la casa, l’edificare, il conservare, il rapporto interno-esterno: «Magari fosse semplice trovare un ritmo nuovo/ per i corridoi lastricati di marmo»...). Una volta di più il bicchiere del poema appare mezzo pieno (e mezzo vuoto). Il che, comunque, non è un risultato privo di valore.

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 ?? Corriere della Sera ?? I testi di Edoardo Albinati (Roma, 11 ottobre 1956: fotografia di Giorgio Onorati/Ansa) sono tratti dal volume
La comunione dei beni edito da Aragno
Corriere della Sera I testi di Edoardo Albinati (Roma, 11 ottobre 1956: fotografia di Giorgio Onorati/Ansa) sono tratti dal volume La comunione dei beni edito da Aragno
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EDOARDO ALBINATI La comunione dei beni Prefazione di Giordano Meacci NINO ARAGNO EDITORE Pagine 168, € 15

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