Corriere della Sera - La Lettura
Gli occhi ascoltano e sudano, è quasi musica
Il catalano Jaume Cabré intesse un contrappunto di 14 storie
Cela l’architettura di uno spartito musicale questa splendida raccolta di racconti di Jaume Cabré, voce fra le più significative della narrativa catalana che laNuovafrontiera sta meritoriamente proponendo al pubblico italiano (prima di Viaggio d’inverno erano usciti Le voci del fiume, Signoria e L’ombra dell’Eunuco).
Si legge, dunque, e in qualche modo si ascolta, quasi fosse la partitura di un’opera polifonica, con tanto di forme melodiche distinte ma combinate fra loro con la tecnica del contrappunto. Tali si presentano infatti i 14 racconti scritti nel corso di vent’anni da Cabré e poi pubblicati nel 2000 in Spagna. Storie diversissime fra loro per soggetti, temi, contesti storici, stili, registri, ma che il settantenne scrittore di Barcellona ha ripreso rimettendovi mano per radunarli in una sorta di libretto d’opera, tenendoli insieme grazie a un filo sottile comune e con un gioco di rimandi che ricorda da vicino, per l’appunto, le tecniche della composizione musicale a più voci.
Ma non è soltanto la struttura a «tradire» l’impianto, per così dire, musicale di questo libro: lo sono anche i protagonisti (musicisti, compositori, concertisti, appassionati), le trame, i luoghi e le atmosfere proposte (teatri lirici, disco-pub). E lo è soprattutto la scrittura dell’autore, melodicamente evocativa anche in virtù di un uso attento quanto efficace della sinestesia: quella peculiare associazione di parole appartenenti a differenti ambiti sensoriali (lo «sguardo che soffre», «gli occhi che sudano» o «ascoltano» per citare qualche esempio) e capace dunque di caricare il testo di suggestioni ed effetti espressivi.
Dentro questo «concerto» la bacchetta del direttore dà voce di volta in volta ai singoli «strumenti», ciascuno con i suoi tratti ma tutti racchiusi nel comune sparti- to in cui si trova a «suonare» l’intero arco dell’esistenza umana: con le sue passioni, i suoi drammi, le sue gioie, le sue follie, di ieri come di oggi. Siano esse a palesarsi nell’Anversa dei gioiellieri del XVII secolo o nella fredda e anodina Norvegia contemporanea; nell’orrore del campo di sterminio di Treblinka o negli intrighi senza tempo della Roma vaticana; nelle disumane prigioni di Ferdinando VI Borbone o nella Gerusalemme sott’assedio della guerra dei Sei giorni.
Cabré dà sfoggio di grande perizia stilistica e compositiva, dimostrando di padroneggiare assai bene registri, tecniche e materiali narrativi diversissimi, messi al servizio di un’indagine inesausta sull’uomo, le sue grandi domande, il suo anelito costante alla felicità: quel miraggio che ne muove (o ne frena irrimediabilmente) i passi come rivela l’ormai anziana Margit nell’ultimo, dolente racconto che dà il nome al libro ( Winterreise, lo schubertiano «viaggio d’inverno» in italiano), quando davanti alle insistenze dell’amato — ma sempre rifuggito — Zoltán che le chiede il perché del suo ritrarsi, risponde: «Perché mi fa paura avere in mano la felicità. Brucia, ho paura che esploda». E contro tanta paura nulla può la mano rassicurante che lui prova a porgerle.