Corriere della Sera - La Lettura

Un algoritmo reinventa l’arte (ma non sarà mai Jackson Pollock)

- Di VINCENZO TRIONE

La Rutgers University ha elaborato falsi capolavori contempora­nei. Eccoli a confronto con quelli veri

Un immaginari­o museo dedicato all’astrazione contempora­nea. Al primo piano, i dipinti visionari di Pollock, de Kooning, Gorky, Hofmann, Kline, Motherwell, Newman, Reinhardt e Richter. Autori che intratteng­ono un rapporto inquieto con il visibile. Spesso, lo contraddic­ono. Erigono intorno a esso fossati invalicabi­li e sentieri impervi. Lo riducono agli elementi più puri.

Si pensi ai dripping di Pollock, che, nell e s ue cal l i graf i e, re gi st r a echi istantanei. I suoi quadri sono schermi ricoperti di schizzi. Una fantasmago­ria dove nulla è casuale. Osservati attentamen­te, questi grovigli di segni svelano un ordine segreto, un implicito ritmo. Inoltre, si pensi ai dipinti di Richter, invasi da un flusso spontaneo di colate cromatiche, sottolinea­te da agili spatolate, dense di rimandi all’informale. Parlando dei suoi lavori, l’artista ha detto: «Dipingere un quadro astratto è procedere a tentoni in modo quasi disperato, come una persona in- difesa lasciata in un ambiente che non conosce».

Al secondo piano della nostra pinacoteca impossibil­e, le «astrazioni mediate», come quelle di Brian Eno e di Nanni Balestrini, nelle quali vengono fuse soluzioni artigianal­i e artifici elettronic­i. Due esempi. 77 Million Pain

tings, work in progress in cui da anni il musicista inglese assembla una miriade di quadri, che poi un «sistema generativo» seleziona e dispone, lasciando affiorare vorticosi caleidosco­pi e paesaggi psichedeli­ci. Poi, Trista

noil di Balestrini. Un film montato da un computer che amalgama, in tanti capitoli di dieci minuti, oltre 150 videoclip. Ogni unità è diversa dall’altra pur trattando lo stesso tema: gli effetti distruttiv­i del petrolio sul pianeta. Grazie a un sofisticat­o software, Balestrini mette insieme eterogenei materiali. Con la tecnica del cut-up, calibra un remix di scene della serie tv Dallas, di news di disastri ecologici, d’immagini della Borsa, delle favelas e di episodi di cronaca.

Siamo al terzo piano del nostro museo. Attraversi­amo ora le sale dell’«astrazione meccanica». Alle pareti, le opere create dall’Art and Artificial Intelligen­ce Laboratory della Rutgers University, in New Jersey (in questa pagina proponiamo una selezione di sedici di queste opere. La scorsa settimana «la Lettura» aveva dedicato due pagine alle fotografie «inventate» da un algoritmo). L’autore? Non un artista ma un algoritmo, chiamato Can (Creative Adversaria­l Networks). Una sperimenta­zione che mira a mettere in crisi certi modelli umanistici, dischiuden­do orizzonti poetici seduttivi ma pericolosi. Per cogliere il significat­o di questa iniziativa, occorre riflettere sul potere di quelle presenze occulte, capaci di orientare le nostre vite e di governare le nostre scelte, che sono proprio gli algoritmi, ai quali Paolo Zellini ha dedicato un recente ciclo di articoli e il suo ultimo libro, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi). Alcune profezie avanzate da scritto-

ri come Asimov e Clarke sembrano avverarsi. Dalle tecniche industrial­i alla diagnostic­a medica, dai social network al volo degli aerei, dai big data ai motori di ricerca di Google e di Yahoo!: gli algoritmi sono ovunque. Si tratta di procedure complesse, cui «deleghiamo la buona riuscita di operazioni che gli esseri umani, da soli, non saprebbero eseguire». Sequenze matematich­e che, ha ricordato Zellini, devono soddisfare due requisiti: «A ogni passo della sequenza è già deciso, in modo determinis­tico, quale sarà il passo successivo, e la sequenza deve tendere a un risultato concreto, reale e virtualmen­te utile».

Gli algoritmi hanno un carattere ibrido. Sono essenze «dubbie»: ideali, eppure ancorate alla realtà. Si pongono tra dimensione concettual­e e concretezz­a. E, insieme, sono entità che ci illudiamo di conoscere e di dominare perfettame­nte; si basano, però, su «strutture matematich­e astratte».

Anche la psicologia ne è contaminat­a: un recente articolo apparso sul- l’«Economist» sostiene che, in futuro, i computer diventeran­no assistenti degli psichiatri, aiutandoli a decifrare i pensieri nascosti dietro le nostre espression­i facciali. Le medesime intenzioni sono sottese al progetto portato avanti dai ricercator­i della Rutgers, i quali dapprima hanno organizzat­o un vasto database di più di 80 mila opere d’arte tratte da WikiArt. Poi, hanno «chiesto» a Can (una sorta di storico dell’arte gestito dall’intelligen­za artificial­e) di ricombinar­le e di riarticola­rle, fino a rendere impossibil­e l’individuaz­ione degli originali. Infine, sono approdati a opere «ulteriori», spesso caratteriz­zate da una materia che sembra generarsi da sé. Composizio­ni talvolta felici ed efficaci: quasi-fauves, quasi-neoespress­ionisti. Vicine ai quadri di Hofmann, di Kline o di Richter. Sembra il compimento d i qu e l ch e a ve va so g n a to Warhol: «I want to be a machine».

Inoltre, gli scienziati americani hanno curato un’esposizion­e nella quale hanno accostato gli anonimi quadri «meccanici» ad alcune tele dei maestri dell’espression­ismo astratto statuniten­se. Con acume, hanno evitato ogni accompagna­mento informativ­o. Sulle orme di quel che aveva fatto la Schirn Kunsthalle di Francofort­e nel 2007 con la mostra Anonym, dove non era stata fornita nessuna indicazion­e del nome del curatore né dell’identità degli autori dei quadri e delle sculture. L’esito della provocazio­ne della Rutgers è stato inatteso: un sondaggio ha rivelato che il pubblico preferiva i quadri prodotti dal computer.

Certo, esistono apparenti affinità e consonanze visive tra i pattern di Richter e quelli generati da Can. Ma le differenze restano profonde. Un computer non inventa dal niente: può solo estrarre liberament­e alcuni frammenti da un immenso arsenale di figurazion­i custodito nel web, che poi rimedierà, ri-locherà e renderà irriconosc­ibili, replicando così la funzione random shuffle su cui si fonda l’iPod.

L’artista autentico è come il Robinson Crusoe di Defoe: mette per primo piede su un’isola sconosciut­a e disabitata. Ha il dovere di inventare iconografi­e che prima non esistevano; di esplorare geografie visuali mai frequentat­e.

Quest’artista può compiere scorriband­e in contrade lontane, dove incontrerà stimoli e suggestion­i. O attingere anche a riferiment­i matematici e informatic­i, in maniera impression­istica o intuitiva. Ma dovrà sempre trattare quelle «voci» come echi di fondo, da ricondurre dentro l’alveo di drammaturg­ie umane, troppo umane. Che nessun pur avanzato dispositiv­o potrà mai ripetere.

A questo scacco allude Zellini: «Anche in presenza dei più perfeziona­ti algoritmi l’uomo rimanda sempre a qualcosa di esterno al loro meccanismo, a una responsabi­lità e a una libertà radicale che coincide con quella essenziale incomplete­zza che la tradizione filosofica e sapienzial­e hanno ontologica­mente identifica­to come l’essenza stessa dell’uomo».

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