Corriere della Sera - La Lettura
Sono una poetessa psicopatica che non sa più piangere
Mariella Mehr ha subito la devastante violenza che ha travolto i nomadi Jenisch in Svizzera: strappati alle famiglie, rinchiusi in manicomi e prigioni, privati della dignità. La sua storia ha ispirato un film che sarà a Venezia. La regista l’ha incontrata
In una clinica vicino a Zurigo, dopo mesi di ricerche, incontro Mariella Mehr, poetessa e scrittrice di etnia Jenisch. È il 2012. Avevo cercato questa donna perché avevo bisogno di dare corpo e voce alle righe di biografia riportate in calce ai suoi testi: «Scrittrice zingara svizzera, porta la sua esperienza di sradicamento, segregazione e colpevolizzazione nelle sue opere. Sottratta alla famiglia da un ente assistenziale svizzero, la Pro Juventute, rinchiusa in 13 istituti psichiatrici e prigioni, è diventata la voce del misterioso e sconosciuto piccolo genocidio svizzero», almeno duemila bambini strappati alle famiglie tra il 1926 e il 1986 «per estirpare il nomadismo».
Dunque Mariella è una di quelle scrittrici che hanno una «biografia forte». Ma la sua opera non è solo un documento della terribile esperienza personale né si esaurisce in questa. La sua storia genera timore.
A sostenermi in questi anni di ricerche c’è una delle sue amiche più fidate e traduttrice italiana dei suoi libri: Anna Ruchat. L’opera e la vita di Mariella rappresentano attraverso le parole molti temi che ho indagato e raccontato nei miei lavori filmici precedenti: corpi, per lo più femminili, in contesti ostili, la solitudine e la forza della diversità, la questione dello sradicamento e della segregazione, l’ambiguità che i sopravvissuti, i reduci, si portano scritta sulla pelle e nell’anima, il tema della violenza e dell’identità.
Dopo quattro anni di vita e di lavoro su e con Mariella Mehr, mi rendo conto che la terribile realtà della sua storia non è affrontabile esclusivamente con un documentario (che è il territorio cinematografico da cui provengo). La realtà questa volta sfiora l’orrore. Cosa c’è di più orrido del vedersi sottrarre per legge la propria madre, la propria identità, la propria lingua, la casa, l’infanzia, l’amore? Per raccontare una storia così dura il linguaggio della finzione, che avevo voglia da tempo di sperimentare, mi sembra quello più coerente. Affido così alla penna della sceneggiatrice Francesca Manieri il materiale emotivo di questo viaggio. Nasce la sceneggiatura originale del film Dove cadono le ombre, una favola nera, una sorta di thriller emotivo in cui il passato è destinato a tornare, una riflessione sulla vendetta e il perdono, uno sguardo sull’amore consumato e che consuma, sui sentimenti che attraversano il tempo e gli spazi in un universo chiuso allucinato ma realista.
Anna e Hans — questa è la trama — infermiera e giardiniere di un vecchio istituto per anziani, sono due anime «bambine» incastrate in corpi di adulti. Intrappolati nel tempo e nello spazio, si muovono tra le stanze e il giardino di quello che era un ex orfanotrofio, ora ricovero per anziani. Dal passato riappare Gertrud. Tutto sembra precipitare. Narrato per progressivi flashback (immagini ricreate a partire dalle testimonianze dirette di Mariella e dei pochi sopravvissuti all’operazione), il mondo fino ad allora congelato di Anna e Hans prende a sciogliersi, fino alla resa dei conti finali. Dove cadono le ombre — protagoniste Federica Rosellini ed Elena Cotta nel ruolo di Gertrud — sarà presentato in concorso alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia. Il film è dedicato a Mariella, un omaggio alla sua vita e alla sua scrittura. Se è vero, come dice il suo traduttore russo Sergej Moreno che «dopo Paul Celan e Primo Levi, c’è Mariella Mehr in questo secolo. Ma su di lei pesa il fatto di essere una zingara e di essere parte di una storia misteriosa che non è mai stata raccontata», la speranza è che questo film accenda una luce su di lei e su una delle vicende più oscure del Novecento europeo. La conversazione che segue è il frutto di incontri durati molte ore.