Corriere della Sera - La Lettura
Churchill obbligato alla Brexit L’Unione Europea sotto Hitler
Che cosa sarebbe accaduto se il reimbarco da Dunkerque fosse fallito e Londra avesse accettato la pace? Un re filonazista sul trono britannico, la Germania padrona del Continente. E forse Charles Lindbergh alla Casa Bianca
Potrebbe essere andata così, la ba t t a g l i a d i Du n ke rq u e ( o Dunkirk, in inglese): i Panzer dei generali Kleist e Veiel si trovano, il 24 maggio 1940, a sole 18 miglia da Dunkerque e, dopo mezza giornata di riposo e riparazioni, riprendono l’avanzata verso la sacca dove si sono rifugiate le forze anglo-francesi in fuga dal Belgio e dalla Francia e intrappolate — dopo l’impetuosa e inattesa avanzata tedesca nelle Ardenne — lungo la costa franco-belga della Manica, da tre parti sotto controllo tedesco. Churchill ha già dato ordine all’ammiraglio Ramsay di preparare l’operazione Dynamo — l’evacuazione delle truppe in Gran Bretagna attraverso il Canale — ma il generale tedesco von Rundstedt ordina ai carri armati della 2ª Divisione di riprendere l’avanzata, infliggendo gravi perdite al nemico grazie anche all’appoggio aereo della Luftwaffe.
Churchill esita, ma, pur di evitare un bagno di sangue di proporzioni colossali, ordina la resa. Oltre 300 mila soldati inglesi e francesi sono presi prigionieri, l’intero corpo della Forza di spedizione britannica (Bef) è fuori combattimento. L’alternativa per il premier britannico, adesso, è dimettersi o accogliere l’idea di una pace separata con la Germania. Nel primo caso sarebbe probabile anche l’abdicazione del re Giorgio VI, con il ritorno sul trono del fratello maggiore Edoardo VIII, costretto a lasciarlo nel 1936 per avere sposato la borghese divorziata americana Wallis Simpson e anche per le sue spiccate simpatie filonaziste. Di certo si prospetta una sorta di Brexit forzata, con l’autoesclusione di Londra dalle vicende dell’Europa continentale.
L’America non è ancora in guerra e la resa britannica rafforza le tendenze isolazioniste. È molto probabile che — senza l’attacco giapponese, fortemente sconsigliato dalla Germania — nelle elezioni del 1944 al posto di Franklin Roosevelt avrebbe potuto vincere Charles Lindbergh, tra i fondatori dell’America First Committee, isolazionista e ammiratore di Hitler. La guerra europea si sarebbe conclusa rapidamente, col controllo tedesco dell’Olanda e del Belgio e delle loro colonie, con l’annessione al Reich dell’Alsazia-Lorena e la presenza a Parigi di un
governo collaborazionista, con l’espulsione degli ebrei in Palestina o, attraverso i servigi di Mussolini, in Libia. Hitler sarebbe stato il padrone dell’intera Europa, che avrebbe di fatto unito sotto il suo dominio. E avrebbe avuto mano libera per attaccare, quando lo avesse ritenuto opportuno, l’Unione Sovietica, fino a quel momento fornitrice gratuita di materie prime alla Germania sulla base del patto Ribbentrop-Molotov dell’agosto 1939.
Queste sono alcune delle ricostruzioni controfattuali che si sono succedute negli anni, in gran parte in siti revanscisti o neonazisti, tra i quali l’Institute of Historical Research, noto per la sua battaglia negazionista sulla Shoah, cui piace sottolineare i «crimini di guerra» commessi dagli inglesi per liberarsi di una supposta quinta colonna eliminata senza prove e senza processi. In effetti da circa settant’anni gli storici e gli esperti militari s’interrogano sui motivi che avrebbero spinto Hitler ad avallare, con un ordine ufficiale, la decisione di von Rundstedt di fermare l’avanzata dei Panzer per permettere riposo e manutenzione dopo la rapida e faticosa avanzata nel Nord della Fr a nci a . Come s i nte ti z z a i l bel l i bro
Dunkerque (Mondadori) di Franco Cardini e Sergio Valzania «alle 18.30 giunse ai quartier generali delle divisioni Panzer quello che è conosciuto come l’Halt Be
fehl, l’ordine di arresto, impartito da Rundstedt, comandante del gruppo di armate A, al gruppo Panzer di Kleist che stabiliva l’Aa, un piccolo fiume che nasce nelle colline dell’Artois e si getta nella Manica, quale linea da non oltrepassare. Le istruzioni del generale sono registrate nel diario di guerra della IV armata come emanate alle 18.10. Il braccio corazzato dell’offensiva tedesca si fermava dunque di propria iniziativa. (...) Mentre gli inglesi andavano maturando la scelta di puntare a reimbarcarsi per sfuggire ai tedeschi, questi ultimi rinunciavano a inseguirli».
I motivi attribuiti a Hitler per l’ordine di arresto variano molto, dai più inverosimili ai più ragionevoli, come è spesso successo per le scelte militari e strategiche del Führer. Il più improbabile è che egli volesse favorire una proposta di pace agli «ariani» inglesi, come avrebbe fatto un anno dopo Rudolf Hess nel suo misterioso viaggio in Scozia, mentre è assai più probabile che abbia creduto alla promessa di Hermann Göring di riuscire con la sola Luftwaffe a tenere sotto scacco gli anglo-francesi fino all’arrivo della fanteria. Certamente le considerazioni di von Rundstedt sul terreno difficile e insidioso per i Panzer tedeschi, la volontà di risparmiarli per la continuazione dell’offensiva successiva verso Parigi e la considerazione di Dunkerque come una battaglia secondaria non dovettero sembrare del tutto peregrine a Hitler, che riteneva forse con troppo ottimismo che l’evacuazione e il rimpatrio della Bef avrebbe posto fine all’attività militare britannica nel corso della guerra. Gli stessi ritardi, rinvii e contraddizioni del progetto di invasione della Gran Bretagna testimoniano di quanto i tedeschi temessero di non riuscire a chiudere i conti rapidamente con la resistenza inglese.
Nel suo discorso ai Comuni Churchill ammonì a «stare molto attenti a non assegnare a questo salvataggio l’attributo di una vittoria. Le guerre non si vincono con le evacuazioni», ma contribuì potentemente a creare il mito di Dunkerque e a fare dello «spirito di Dunkerque» un carattere nazionale duraturo fatto di coraggio, abnegazione e perseveranza fino alla vittoria. In effetti il bilancio di una sconfitta militare innegabile — che lo fu, comunque, in modo assai più drammatico e definitivo per i francesi — si ribaltò fa- cilmente in vittoria, quella dell’operazione Dynamo che riuscì a trasportare oltre le bianche scogliere di Dover circa 332 mila soldati inglesi e francesi, un numero ben maggiore di quello preventivato da Churchill e dall’ammiraglio Ramsay (tra i 30 e i 40 mila). L’epopea dell’evacuazione, con il racconto in gran parte esagerato delle centinaia di barche private accorse al salvataggio, non poteva non diventare un mito: i bombardamenti della Luftwaffe, la partecipazione eroica dell’aviazione britannica (Raf), la nebbia e il caos per raggiungere il molo Est da cui riuscirà a imbarcarsi la maggior parte dei militari.
Come ha detto il regista Christopher Nolan allo storico Joshua Levine, dal cui libro Dunkirk (HarperCollins Italia) ha tratto il suo film, «è impossibile sovrastimare il significato della mitologia di Dunkerque, la sua mitologia moderna. Salendo a bordo di una barca e ripetendo la traversata si può avere un’idea del valore che hanno avuto coloro che l’hanno affrontata. Sono stati davvero molto coraggiosi». Nel film però, è stato rimarcato da più parti, sembrano mancare del tutto i francesi, che combatterono per permettere l’evacuazione, lasciando ai tedeschi circa 40 mila prigionieri, di cui la maggior parte non fece ritorno.