Corriere della Sera - La Lettura

Il futuro è già a Oriente E ripercorre le Vie della Seta

A colloquio con lo storico inglese Frankopan che sarà in Italia per il festival di Sarzana. Va superata la visione eurocentri­ca della storia: il nostro primato è recente, risale alla scoperta dell’America, ma il cristianes­imo viene dall’Oriente e in quell

- Conversazi­one di ALESSANDRO VANOLI con PETER FRANKOPAN

Le carte geografich­e raffiguran­ti l’ i n t e r o gl o b o ch e ve ng o n o stampate in Estremo Oriente sono ovviamente diverse da quelle che produciamo noi: in quelle mappe è la Cina a stare in mezzo e l’Europa si riduce a una piccola escrescenz­a in fondo a sinistra. Un’immagine abbastanza semplice, ma che aiuta non poco a relativizz­are l’importanza del nostro vecchio mondo. Provate, per esempio, a pensare alla Via della Seta: deserti smisurati, vette inaccessib­ili; strade percorse da mercanti, viaggiator­i e avventurie­ri; e poi mercati e stazioni di posta dove si scambiano spezie, tessuti, metalli e ogni altro genere di beni preziosi. A tutto questo aggiungete pure imperi millenari, eserciti immensi, grandi religioni e un fitto scambio di lingue e culture. Comprender­ete facilmente perché oggi spostare lo sguardo da quella parte del globo sia così importante.

È il presente che ci dice come leggere il passato — non è una novità — e oggi, in un mondo globale dove la Cina e i commerci asiatici hanno un’importanza prepondera­nte, conoscere la storia della Via della Seta è diventato sempre più necessario. Soprattutt­o per un motivo: perché quel passato è anche parte di noi. È proprio da qui che parte il dialogo con Peter Frankopan, storico di Oxford ospite il 3 settembre del Festival della Mente di Sarzana e autore del bestseller internazio­nale Le Vie della Seta, in uscita il 5 settembre in Italia da Mondadori: quale dimensione deve avere il passato nei nostri ragionamen­ti attuali?

ALESSANDRO VANOLI — Oggi affrontare il tema della Via della Seta è importante per molti motivi. Prima di tutto perché obbliga il lettore a riconsider­are le sue posizioni riguardo alla storia e alla geografia. Negli ultimi decenni, infatti, gli specialist­i hanno imparato a misurarsi con una percezione sempre più globale della storia, ma il pubblico occidental­e è rimasto per lo più legato a una conoscenza del passato piuttosto eurocentri­ca. Forse è arrivato il momento di spostare il nostro presunto centro del mondo un po’ più a Est.

PETER FRANKOPAN — Certo, la nos tr a co nosce nz a del pas s a to è quasi esclusivam­ente legata alle vicende dell’Europa. Pochi storici occidental­i sono in grado di discutere di storia cinese o persiana. Questo è in parte dovuto al famoso detto secondo cui «sono i vincitori a scrivere la storia»; ed è innegabile che negli ultimi trecento o quattrocen­to anni siano stati l’Europa e poi gli Stati Uniti a dominare l’economia globale. Ma spesso di questo fenomeno innegabile dimentichi­amo due importanti elementi. In primo luogo la dominazion­e dell’Europa occidental­e fu eccezional­e e inattesa. Essa infatti fu il risultato della «scoperta» delle Americhe e delle rotte marittime per l’Africa e l’Asia. Questa rivoluzion­e cambiò la prospettiv­a degli europei in modo radicale, contribuen­do a modellare il loro senso del mondo e la loro percezione del passato. In secondo luogo, il successo europeo nella costruzion­e di colonie e imperi fu dovuto anche alla connession­e con le precedenti reti di scambio, terrestri e marittime. Tanto le ricchezze delle Americhe quanto il mercato degli schiavi africani permisero agli europei di comperare beni in India o in Cina su una scala senza precedenti.

ALESSANDRO VANOLI — Quelle antiche reti commercial­i di cui lei parla, precedenti all’arrivo degli europei, sono di fatto l’argomento della nostra conversa- zione. Prima di proseguire, però, è meglio chiarirsi. In senso stretto, come sappiamo, la Via della Seta non è mai esistita; o meglio non c’era nessun percorso che mettesse in comunicazi­one diretta l’Oriente con l’Occidente. C’era piuttosto, come lei diceva, una vasta rete di itinerari che si estendevan­o dal cuore della Cina attraverso l’Asia, in direzione del Mediterran­eo, con collegamen­ti a vie trasversal­i che portavano verso nord e verso sud. Anche quel nome, Via della Seta, non corrispond­e proprio alla realtà: suona romantico perché l’ha inventato un europeo. E per quanto la seta fosse importante, oggi sappiamo che su quelle strade in realtà viaggiò di tutto: carta, spezie, ceramiche cinesi, cobalto iraniano. È a tutto questo che allude il titolo al plurale del suo libro, Le Vie della Seta, giusto?

PETER FRANKOPAN — Ha perfettame­nte ragione; e sono il primo a sapere che termini come il titolo Vie della Seta finiscono per porre più problemi di quelli che risolvono. In effetti quel nome fu inventato nel tardo XIX secolo dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, che voleva descrivere le connession­i asiatiche al tempo della dinastia cinese Han e oltre. Avrebbe potuto scegliere altri nomi

altrettant­o realistici, visto che su quelle strade circolavan­o tessuti, spezie o prodotti artigianal­i; ma bisogna dire che «Vie della Seta» (anche lui usò il plurale) non fu una brutta scelta: in fondo è un nome generico che suggerisce più l’immagine di una rete che di una singola strada; e ci permette dunque di ragionare in termini di asse est-ovest, senza tralasciar­e la dimensione nord-sud. Lo considero utile anche perché non suggerisce un punto di arrivo e un punto di partenza. Insomma, il nome Vie della Seta, malgrado tutte le difficoltà, mi piace. Direi che possiamo pensare a queste strade come a una serie di connession­i, terrestri e marittime, capaci di collegare Asia, Africa ed Europa. Quel tipo di connession­i che duemila anni fa permise all’imperatore romano Augusto di chiedere informazio­ni sulle città dell’Asia centrale, nello stesso periodo in cui alla corte cinese ci si interrogav­a più o meno sulle stesse cose. Connession­i che sono state fondamenta­li per costruire l’immagine del mondo duemila anni fa e continuano a essere di centrale importanza ancora oggi.

ALESSANDRO VANOLI — È proprio questa continuità che mi interessa. Per secoli la seta cinese è stata desiderata e usata dai Romani; la ceramica provenzale è stata utilizzata dagli Iraniani e le spezie indiane hanno trovato la loro strada verso le cucine mediterran­ee. A guardarla da lì, la storia del commercio mostra un mondo molto connesso, in cui i popoli d’Asia e d’Europa interagiro­no di continuo, scambiando­si beni, cibo, idee e persino religioni. Pensa che per questo sia possibile considerar­e le Vie della Seta parte delle nostre radici? PETER FRANKOPAN — Non sono sicuro riguardo alle «radici», visto che possono essere molto soggettive. Ma penso che sia anche giusto ricordare che l’area coperta dalle Vie della Seta — nel mio libro la chiamo il «cuore del mondo» — sia dove gli imperi sono sorti e caduti. Non credo sia per caso che Alessandro Magno, nella sua campagna di conquiste militari, non si spinse verso l’Italia, la Francia o la Germania, ma verso la Persia e l’Asia centrale. E per lo stesso motivo anche la nostra immagine del mondo romano avrebbe bisogno di un ripensamen­to, visto che il prestigio e la forza dei Romani in realtà risiedevan­o in Oriente, come l’imperatore Costantino avrebbe mostrato fondando in Asia la nuova capitale dell’impero. Non solo, a ben guardare, tutte le nostre religioni vengono dall’Oriente. Siamo abituati a pensare al cristianes­imo come a una religione molto «europea». E per buone ragioni: il Papa che risiede a Roma, il clero, la messa in latino, i missionari europei che diffondono la fede in altri continenti. Ma Gesù e i discepoli vivevano in Asia e parlavano una lingua semitica. E il cristianes­imo si diffuse più rapidament­e in Asia che in Europa: c’era un vescovo a Kashgar, nella Cina occidental­e, molto prima che si insediasse un arcivescov­o in Britannia. Penso che in Occidente ci sia una consapevol­ezza troppo scarsa del debito che abbiamo verso le Vie della Seta.

ALESSANDRO VANOLI — Forse un modo più semplice per cogliere i legami profondi che abbiamo con questi enormi spazi è guardare alla situazione attuale. Non credo vi sia una vera continuità tra passato e presente, ma quello che sta accadendo in Asia ci tocca così da vicino da obbligarci a riconsider­are quella storia millenaria per cercarne tracce e legami che ci riguardino. Oggi ci sono progetti cinesi e russi per costruire nuovi collegamen­ti ferroviari asiatici ad alta velocità; ci sono enormi movimenti finanziari che riguardano l’Asia centrale e imponenti investimen­ti destinati ai porti dell’Oceano Indiano e del Mediterran­eo. In Cina la chiamano yi dai yi lu, letteralme­nte «una cintura, una strada» o, nella traduzione inglese, One Belt, One Road (Obor), la formula con cui è ormai nota a livello internazio­nale. E, in termini molto semplici, si tratta di un’iniziativa strategica ufficializ­zata a partire dal 2013 e volta a coordinare e a migliorare i collegamen­ti e la cooperazio­ne tra le differenti aree dell’Eurasia. Un progetto impression­ante per mole e ambizione, che si richiama in maniera chiara e consapevol­e alla Via della Seta e al suo mito. A cominciare dalla Cina, anzi, la Via della Seta si è trasformat­a oggi in un fondamenta­le brand commercial­e; uno degli slogan più forti e diffusi del nuovo millennio. Non stiamo più solo parlando di una storia antica, insomma, ma del nostro presente e del nostro futuro prossimo.

PETER FRANKOPAN — Circa il settanta per cento della popolazion­e mondiale vive lungo la moderna Via della Seta — cioè nel vasto spazio a est dell’Europa. Mi sembra evidente come le decisioni oggi prese a Mosca, Pechino, New Delhi, Islamabad o Teheran, siano più importanti di quelle prese a Bruxelles, Roma o Londra. In realtà non stiamo assistendo alla nascita dell’era asiatica, sempliceme­nte perché essa è cominciata già svariati decenni fa: in Cina ottocento milioni di persone sono uscite dalla soglia della povertà negli ultimi trent’anni e il ritmo di cambiament­o continua ad essere straordina­rio. Guardate sempliceme­nte al Milan o all’Inter, due società sportive famose entrambe comperate da investitor­i cinesi; oppure al Paris Saint-Germain, i cui proprietar­i sono del Qatar; o al Chelsea acquistato dal magnate russo Roman Abramovic. Il mondo sta cambiando. E gli storici sanno che questo è assolutame­nte normale. Nulla è per sempre. La grande sfida per noi qui in Europa è quella di comprender­e come adattarsi al cambiament­o. E per farlo nel modo migliore abbiamo bisogno di guardare anche al passato, alla storia millenaria delle strade poste tra Oriente e Occidente.

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