Corriere della Sera - La Lettura
Homo sapiens era solo una possibilità
di
Conoscere la nostra storia nel tempo profondo — anche quella di quando non eravamo nemmeno umani — è importante, io credo, soprattutto oggi che siamo i padroni (incontrollati) del pianeta. È importante saperne di più sul nostro passato remoto: quello di Lucy, quello delle grandi diffusioni dall’Africa e dei Neanderthal, quello degli scheletri frammentari e dei siti preistorici, dei manufatti del Paleolitico, della paleogenetica. Questa storia va divulgata. Non va tenuta solo all’interno di una comunità scientifica che, su scala mondiale, conta qualche migliaio di persone appena. Fare in modo che essa diventi un patrimonio collettivo costituisce un valore aggiunto del lavoro di noi paleoantropologi, una possibile «ricaduta applicativa» o, meglio, quasi un dovere sociale. È qui che l’Antropologia — nel suo senso più ampio (quella con la «A» maiuscola) — assume una valenza culturale e, se vogliamo, anche politica.
Ma c’è dell’altro. Sono ormai decenni che la paleoantropologia corre sempre di più. Non esiste scienza che evolva così velocemente come evolve la scienza dell’evoluzione umana. Quanto più guardiamo al nostro passato, tanto più siamo proiettati verso un costante aggiornamento. Più ne sappiamo e più ci poniamo nuove e più raffinate domande, che ci guidano ad andare a fondo di una storia che è stata ben più complessa di quanto potesse sembrare a prima vista, quando avevamo in mano solo una minima parte della documentazione di cui disponiamo oggi.
Il debutto della paleoantropologia avvenne nel 1856 dalle parti di Düsseldorf, in Germania, in una grotta sul fianco di una valle che aveva preso il nome di Neanderthal. Lì venne casual- mente rinvenuto lo scheletro di un essere umano con caratteristiche differenti dalle nostre, tanto da meritare la denominazione di Homo neanderthalensis: era la prima specie estinta del genere Homo a essere riconosciuta sulla base di resti fossili. Tuttavia, per quanto le caratteristiche di quello scheletro fossero «arcaiche», ciò non bastava per dimostrare l’evoluzione dalle scimmie all’uomo. Non era questo l’«anello mancante» che i pionieri dell’evoluzionismo di fine Ottocento andavano cercando. E così la ricerca continuò per molti decenni ancora, ma solo fra l’Europa e l’Estremo Oriente: con la scoperta di altri Neanderthal e di fossili dall’aspetto moderno, come quelli di CroMagnon in Francia, con il Pithecanthropus di Giava o, addirittura, con i resti della frode scientifica di Piltdown in Inghilterra, dove furono abilmente messi assieme frammenti di cranio umano con la mandibola di un orangutan (volendo far credere a un antenato dal grande cervello e la faccia da scimmia). A lungo si continuò a ignorare la predizione di un certo Charles Darwin (1871): «In ogni grande regione del mondo, i mammiferi viventi sono correlati alle specie estinte della stessa regione. È quindi probabile (…) che i nostri progenitori vivessero nel continente africano piuttosto che altrove».
Solo nel 1924 la predizione di Darwin sulle nostre origini africane si è avverata, quando il giovane anatomista Raymond Dart, professore di anatomia a Johannesburg, si vide consegnare i resti fossili del cranio di un cucciolo, che l’anno dopo lui stesso denominerà Australopithecus africanus, consegnando alla scienza un possibile antenato dell’uomo. Esattamente cinquant’anni dopo venne lo scheletro di ominide bipede più celebrato di tutto il record (la documentazione) fossile, quasi un’icona della scienza delle nostre origini, cioè Lucy, la giovane australopitecina rinvenuta in Etiopia. Poi, proprio intorno agli anni Settanta del secolo scorso, la paleoantropologia iniziò a galoppare e questo incedere impetuoso ha seguito le tante strade che sfociano nelle formidabili scoperte degli ultimi anni.
Ogni volta che un nuovo rinvenimento viene pubblicato sulle riviste scientifiche — spesso q ue l l e pi ù pre s t i g i o s e , co me « Nat ure » o «Science» — la notizia fa subito il giro del mondo su quotidiani, periodici e, soprattutto ormai, sui siti web. Le «ultime notizie» si affastellano così l’una all’altra, non lasciando il tempo nemmeno agli specialisti di metabolizzare l’impatto che queste possono avere sul quadro pregresso delle nostre conoscenze. Contribuiscono alla confusione i facili entusiasmi, ben rappresentati dal più classico dei titoli che ormai è un ritornello: «Rivoluzionato l’albero dell’evoluzione umana».
Questo è capitato per le recenti notizie sull’ibridazione fra noi e i Neanderthal (della quale tutti, tranne gli africani, portiamo un retaggio nel nostro Dna), o con la scoperta di una misteriosa specie arcaica conosciuta soltanto dal suo genoma, quello dei cosiddetti «Denisoviani» (ottenuto da un frammento di falange rinvenuta sui Monti Altai, in Siberia), o con la malintesa retrodatazione di presunti primi Homo sapiens, o con le nuove specie conosciute a partire da scoperte sensazionali e talvolta quantitativamente ingenti come quelle di Homo georgicus, di Homo floresiensis, di Australopithecus sediba, di Homo naledi... per non parlare delle belle storie italiane, ancora da va-