Corriere della Sera - La Lettura
La rivincita degli introversi
Mark Zuckerberg e Beyoncé, Emma Watson e Barack Obama La saggista Susan Cain ribalta gli stereotipi più consolidati: il successo della «quiet revolution» in un mondo rumoroso
Perché sei così silenziosa? A Susan Cain lo chiedevano spesso, da ragazzina. E lei faceva del suo meglio per apparire «socievole», che a scuola era il complimento migliore. Si sforzava di parlare di più in classe, di andare a feste chiassose. Solo da adulta ha scoperto la forza della pacatezza, che risiede nella profondità delle riflessioni, nella capacità di ascolto, nella calma. Studi recenti mostrano che gli introversi, benché preferiscano stare un passo indietro, possono diventare leader migliori degli estroversi.
Da quando il saggio Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smet
tere di parlare è uscito in America cinque anni fa, Cain è diventata un’autorità sull’introversione. Tradotto in 40 lingue, ha venduto due milioni di copie ed è stato pubblicato in Italia da Bompiani, che ora ha mandato in libreria un altro testo di Susan Cain, Quiet Power, indirizzato ai bambini e agli adolescenti. L’autrice ha toccato le corde giuste. Negli ultimi anni è stata reclutata come consulente, lautamente pagata, da grosse aziende e ha lanciato la società «Quiet Revolution» (rivoluzione tranquilla), che sta sviluppando anche corsi online e una collana di libri per adolescenti. La sede è una casa vittoriana ribattezzata Quiet House, affacciata sul fiume Hudson presso New York, un Nirvana degli introversi dove gli impiegati non devono fare riunioni prima di mezzogiorno e mezzo, e mai di venerdì.
Qual è la sua definizione di introversione? Lei spiega che non significa timidezza, come credono alcuni. Un bambino timido a scuola magari non alza la mano perché teme di fare brutta figura, un introverso tiene la testa bassa perché non sente il bisogno di dire niente.
«È stato provato che gli introversi hanno un sistema nervoso che reagisce più intensamente agli stimoli sensoriali, per cui si sentono più a proprio agio e pieni di energia in ambienti tranquilli in cui succedono meno cose, mentre l’estrover- so preferisce ambienti più rumorosi e stimolanti. C’è la percezione che gli introversi siano antisociali, che non amino la gente. Ma in realtà possono essere ugualmente socievoli in contesti più tranquilli».
Il suo libro è stato il primo di una lunga serie di manuali divulgativi sull’introversione. Ma già prima c’erano ricerche accademiche sul tema...
«C’erano tantissime ricerche sulla differenza tra introversi ed estroversi, ma nessuno prestava attenzione al fatto che la società favorisce gli estroversi e all’idea che questo è sbagliato. Le stesse ricerche in campo psicologico riflettevano i pregiudizi. Quando cercavo nei database usando la parola chiave “introverso”, non trovavo quasi niente, mentre se inserivo “estroverso” uscivano tutti i risultati. Questo perché in psicologia l’introversione era vista come l’assenza di estroversione. I test della personalità misurano quanto sei estroverso o quanto ti manca questa caratteristica».
Carl Jung (un introverso) ha introdotto la distinzione tra questi due tipi di personalità come poli opposti di uno spettro su cui si collocano le persone: chi è più introverso è attratto dal mondo interiore e chi è più estroverso è proiettato verso il mondo esterno. Secondo lei dovremmo mirare all’equilibrio, ad essere ambiversi?
«Io penso che tutti, per raggiungere i nostri obiettivi, dobbiamo uscire dalla nostra comfort zone: organizzare la festa di compleanno per tuo figlio anche se non vorresti, parlare in pubblico per difendere un’idea che ti sta a cuore. Alcune abilità vanno imparate, ma dovremmo farlo accettando e amando chi siamo, anziché pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nel nostro modo di essere e che dobbiamo cambiare».
Ora però l’introversione sta diventando di moda? L’«Harvard Business Review» ha appena pubblicato una ricerca che sostiene che gli introversi sono leader migliori degli estroversi; i
successi di Zuckerberg, Beyoncé ed Emma Watson, che si sono definiti introversi, probabilmente contribuiscono. C’è persino la birra Introvert Ipa.
«Le cose stanno cambiando e questo mi fa felice. Ho partecipato a una conferenza in cui c’erano Arianna Huffington e altri famosi giornalisti, e ho notato che tutti hanno detto al pubblico di essere introversi: sorprendente, ho pensato, dieci anni fa non sarebbe successo. Penso che il pregiudizio che favorisce gli estroversi ci sia ancora nella cultura americana, ma si sta facendo strada l’idea che può essere
cool essere introversi».
Crede che fino a poco tempo fa una come Arianna Huffington avrebbe potuto tenere segreta la propria introversione?
«Secondo me le pressioni sociali che spingono gli introversi a fingersi estroversi sono simili a quelle che portano chi è gay a far finta di essere etero. Solo di recente sta diventando più accettabile smetterla di fingere».
Tra i «leader silenziosi» lei cita Eleanor Roosevelt, Rosa Parks e Gandhi. E i presidenti degli Stati Uniti?
«Obama era un introverso, Trump è un estroverso. George W. Bush… forse un introverso che fingeva di essere estroverso. Direi che Obama è un esempio perfetto di introverso non timido, ma molto sicuro di sé. Non voglio però dire che T rum psi a l’ emblema dell’ estroversione, perché molti dei suoi comportamenti in realtà derivano dal narcisismo, che è un altro tratto della sua personalità».
Lei offre consulenza a decine di aziende americane. Ma dopo averla sentita, hanno effettuato cambiamenti concreti?
«Le aziende si stanno rendendo conto che un terzo o metà dei loro dipendenti sono introversi, e se non sanno come ottenere il meglio da queste persone — che lavorano in settori diversi, dalla tecnologia alla finanza —, vuol dire che non stanno gestendo il business nel modo più efficace. I cambiamenti sono sottili. Per esempio, riducono il numero di riunioni, formulano strategie per far sì che tutti esprimano le loro opinioni. Sono piccoli passi, ma sta succedendo».
L’open space, che penalizza gli introversi, resta la scelta architettonica dominante sul luogo di lavoro...
«È ancora prevalente, ma c’è un’opposizione. Quando ho iniziato a fare ricerche per il libro, alcuni intervistati mi bisbigliavano all’orecchio che odiavano il design dell’ufficio: ora tutti ne parlano, ma credo che serviranno 5-10 anni per cambiare. Per ora il primo passo è stato disegnare open space che prevedono anche spazi dove ci si può ritirare per avere un po’ di privacy. C’è ancora parecchia strada da fare. Lo dimostra il fatto che anche nella Silicon Valley, dove molti amministratori delegati sono introversi, c’è ancora la sensazione che devi comportarti da estroverso, che tu lo sia o meno».
Lei ha visitato decine di scuole in America ed è molto critica nei confronti degli insegnanti che valutano le capacità dei bambini sulla base del numero di volte che alzano la mano o che assegnano lavori di gruppo anche quando sarebbe utile che i ragazzi lavorassero da soli. È cambiato qualcosa?
«A volte è più facile respingere le critiche che provare a cambiare, ma ho scoperto che alcune scuole hanno cominciato a pensare in modo diverso a come strutturare le giornate, al curriculum e al modo in cui viene valutata la partecipazione in classe. Un problema che c’era — e c’è ancora — sono le pagelle in cui si legge: “La piccola Sophie ha ottime idee ma non parla abbastanza in classe”».
Questo modello di insegnamento è un problema perlopiù americano o lo ha riscontrato anche altrove?
«Il mio lavoro è focalizzato sul sistema scolastico americano, ma mi arrivano lettere da tutto il mondo che si rivelano molto simili. Mi è capitato di riceverne anche da Paesi di tradizione confuciana, dove essere pacati è più accettato».