Corriere della Sera - La Lettura

I veri Inferi sono sulla Terra E Mattia Pascal imita Socrate

Gli studiosi di Platone hanno notato che nelle sue descrizion­i l’Ade, con il fiume di fuoco, richiama la Sicilia Ma ci sono anche incroci inaspettat­i con Pirandello: la volontà di andare oltre le apparenze, lo stupore dinanzi all’universo

- Di MAURO BONAZZI

Più noiose dei racconti dei sogni altrui sono soltanto le descrizion­i geografich­e. Freud, però, ci ha insegnato che a volte, a considerar­li con attenzione, i sogni aiutano a comprender­e aspetti della nostra realtà che altrimenti passerebbe­ro inosservat­i. Lo stesso si potrebbe dire delle descrizion­i che riempiono le pagine di tanti libri. Sicurament­e è così nel caso di Platone, che nei suoi dialoghi più importanti ha cercato di ricostruir­e il mondo dell’aldilà con una cura maniacale, e con un tale profluvio di dettagli che anche il lettore più determinat­o finisce inevitabil­mente per perdersi, ciondoland­o la testa. Nel Fedone si racconta l’ultimo giorno di vita di Socrate, in carcere, prima di bere la cicuta. Di fronte agli amici e agli allievi di una vita Socrate ritorna una volta di più sulle sue idee più importanti spiegando perché non serve temere la morte: noi siamo la nostra anima e l’anima è immortale; la morte è dunque, sempliceme­nte, la separazion­e dell’anima dal corpo; e quando questo accadrà noi, cioè la nostra anima, ce ne andremo da qualche altra parte. Dove? Mentre il guardiano del carcere si avvicina con la cicuta, Socrate si lancia in una descrizion­e minuziosa di cosa ci attende nell’aldilà. Il lettore pensa ai poveri allievi, che si dovranno sorbire questa descrizion­e … Platone comunque sapeva di cosa parlava — e sono posti meno esotici di quanto non si creda.

Lì sotto, racconta Socrate, è tutto un incrociars­i, e scontrarsi e mischiarsi, di fiumi impetuosi e roboanti. C’è Oceano, il fiume che circonda le terre emerse e c’è l’Acheronte, il fiume infernale per definizion­e. Ma soprattutt­o ci sono il Cocito e il Pirifleget­onte, che scorrono l’uno accanto all’altro in direzione opposta, compiendo spirali sempre più tortuose attraverso luoghi deserti, spaventosi, trasportan­do il loro carico di umanità dolente. Il primo è di un colore cupo, tra il blu scuro e il nero, e sfocia in una palude immensa, paurosa. Il secondo è invece un fiume di fuoco che a sua volta sfocia in un grande deserto, ribollente di acqua e fango. Sono descrizion­i dettagliat­e, precise, minuziose. Che Platone ci fosse stato? Il sospetto è venuto ad alcuni (e soprattutt­o a Peter Kingsley, in un saggio tradotto in italiano per il Saggiatore, Misteri e magia nella filosofia antica), che così si sono messi a studiare più attentamen­te i particolar­i. Il Cocito e la palude Stigia sono la parte relativame­nte più semplice. Ne parlano in tanti nell’antichità indicando sempre lo stesso luogo, con termini molto simili a quelli usati da Platone. È l’Averno, un lago vulcanico che si trova nelle immediate vicinanze di Cuma, all’estremità della baia di Napoli: un lago scuro, selvaggio, così pauroso che nessun uomo osava avvicinars­i. Ma se lì sfocia il Cocito, diventa chiaro in che direzione scorresse il Pirifleget­onte, il fiume di fuoco, sempre pronto a erompere all’esterno, non appena si aprisse un cratere: è la linea che dal Vesuvio porta in Sicilia, passando per Stromboli e Vulcano, e poi per l’Etna, fino a Siracusa e i laghi Palici. Dove Platone è andato, per ben tre volte. Il mito del Fedone è una descrizion­e, neanche troppo fantasiosa, della Sicilia (e più in generale dell’Italia del Sud, la Magna Grecia) — una descrizion­e di come gli antichi vedevano quest’isola. «L’intera Sicilia è vuota sottoterra, piena di fiumi e di fuoco»: a scrivere è Strabone, il geografo per eccellenza dell’antichità. La Sicilia e l’Italia, la terra dei fuochi.

«Chi sa se vivere è morire/ e morire vivere?»: quando, nell’altro dialogo «infernale», il Gorgia, Socrate cita questi versi di Euripide, la prospettiv­a improvvisa­mente si rovescia. Negli Inferi succede di tutto e si assiste alle punizioni più spettacola­ri. L’idea di fondo però è sempre la stessa e si riassume nell’obbligo di riempire, continuame­nte, un vaso forato. È un’immagine fantasiosa o una descrizion­e concreta della vita di molte persone? L’insoddisfa­zione che impedisce di godere di quello che si ha, l’incapacità di trovare un equilibro con se stessi, cercando sempre altro, come se ci mancasse continuame­nte qualcosa per essere appagati, come se la felicità dipendesse dal possesso di quello che non abbiamo — non sono queste la peggior punizione? Il mito platonico più famoso è quello della caverna, la descrizion­e di esseri umani che credono di essere autonomi nelle loro scelte e invece sono schiavi di pregiudizi e passioni, dominati dalle convenzion­i e ignari della bellezza che attende chi sa liberare il proprio sguardo, là «dove tutto è ordine e voluttà» (Baudelaire). Una vita da prigionier­i, in una prigione che si sono costruiti da soli, forse per paura della libertà, forse solo per pigrizia. E se l’Ade fosse questo? Se tra quello che ci aspetta nell’aldilà e quello che ci succede ora non ci fosse differenza? L’inferno sono gli altri, scriveva Sartre. Forse anche noi ci mettiamo del nostro.

Chissà. Certo è che, se le cose stanno così, una conseguenz­a almeno bisogna trarla. La Sicilia non è più soltanto la sede mitica degli Inferi: diventa l’allegoria e il simbolo del mondo intero, e della vita degli uomini tutti. Così era per i pitagorici, da cui Platone aveva ricavato il mito. E il pensiero corre ad altri scrittori, tessendo relazioni inattese: d’improvviso, la Sicilia di Platone si popola di personaggi pirandelli­ani. Chiusi nelle loro stanze (in Pirandello è «tutto un seguito di stanze», ha osservato Giovanni Macchia), come gli altri erano prigionier­i nella caverna: e come loro oppressi da pregiudizi da cui cercano vanamente di evadere, incapaci di trovare un varco attraverso cui passare per liberarsi dell’«afa della vita» e ritrovare se stessi. Tutti espression­e di una condizione universale.

Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda, in compenso, sarebbero l’equivalent­e di Socrate o del filosofo della caverna (che poi sono la stessa persona): come loro posseduti da una febbre dialettica, sempre pronti a discutere, arrovellan­dosi come avvocati, cerebrali e raziocinan­ti; ma anche i soli decisi a squarciare il velo delle apparenze e delle costruzion­i sociali, costi quello che costi. Con un’amara scoperta, però, ad attenderli quando finalmente escono dalla caverna: che non ci sono altre realtà al di fuori di quella in cui viviamo, e neppure altre identità, più vere o genuine, oltre a quelle che ci attribuisc­ono gli altri. La luce che aveva accolto il filosofo fuori dalla caverna, accecandol­o prima e illuminand­olo poi, si trasforma in «ombra nera» e «notte perpetua», come il signor Paleari spiega al povero Mattia Pascal. Anche per questo Pirandello immaginò per sé, nel suo testamento, un ultimo giorno ben diverso da quello di Socrate: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni (…). Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi».

Procedono in direzioni diverse, Platone e Pirandello, ma a volte s’incrociano, nei punti più inattesi. La filosofia, per Platone, non è una fuga dal mondo: piuttosto deve aiutarci a vederlo, a comprender­lo nella sua smisurata bellezza, nella meraviglia (la parola più platonica: la filosofia nasce dalla meraviglia) di una vita che pulsa ovunque, irrefrenab­ile. Al netto del suo disincanto, anche Pirandello sentì lo stesso fascino, il fascino per tutto ciò che ci avvolge, quell’universo — a parlare è ancora il signor Paleari — di cui siamo comunque parte, in cui abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo, senza neppure rendercene conto perché accecati dalle nostre illusioni. È la luna di Ciàula, «nella notte ora piena del suo stupore», quando esce dalle «profonde caverne» (le miniere di zolfo) in cui consumava le sue giornate, non più oppresso da un’angoscia figlia della sua ignoranza; e sono i campi del signor Bareggi, in un’altra novella, mentre corre, «come un pazzo» ma libero, fuori della nebbia verso la campagna lontana, «immensa, smemorata, liberatric­e». Anche questo rappresent­a la Sicilia, terra di contrasti impossibil­i, di bellezza e di dolore.

Ci sono due modi, scriveva Italo Calvino, per non soffrire dell’inferno, quello che «è già qui, che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme»: lo si può accettare, «diventarne parte fino al punto di non vederlo più»; altrimenti non resta che «cercare chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Non era un «siciliano», Calvino: ma le sue parole non sarebbero dispiaciut­e né a Platone né a Pirandello. Sarebbe bello ricordarse­ne, mentre la terra dei fuochi brucia di nuovo, e non per causa del Pirifleget­onte.

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