Corriere della Sera - La Lettura
La storia locale non è solo locale
La tendenza Negli studi si fa strada una rivalutazione della dimensione spaziale rispetto all’approccio soltanto cronologico. Sempre più i fatti vengono ricostruiti partendo da elementi concreti e da luoghi ben definiti L’esempio Martin Pollack descrive
Le storie non accadono soltanto nel tempo: per definizione, esse «hanno luogo». Battaglie, trattati, concili, le cui lunghe liste abbiamo mandato a memoria sui banchi di scuola, sono talmente legati alle località che li hanno ospitati da identificarsi con il loro nome nella memoria collettiva. I poteri di ogni epoca si identificano universalmente con le rispettive sedi, dal numero 10 di Downing Street, al Cremlino, a Palazzo Venezia. Persino le scuole del pensiero filosofico, artistico, economico (di Francoforte, Vienna, Chicago) hanno culle fisiche cui sono rimaste connesse indissolubilmente. Se tali denominazioni sono ormai sublimate dal tempo, non per questo gli scenari che esse implicano sono dei contenitori neutrali e ininfluenti rispetto alle vicende.
Scontato? Non l a pensava cos ì gi à quindici anni fa lo storico tedesco Karl Schlögel, autore del volume Leggere il tempo nello spazio (pubblicato in Italia da Bruno Mondadori). Come per una sorta di consuetudine mai rimessa in discussione, la storiografia moderna ha assunto come modello fondamentale la cronaca e come filo conduttore la successione temporale degli eventi, relegando la dimensione spaziale al ruolo ancillare di un palco vuoto. Schlögel esortava invece a riconoscere come il binomio «essere e tempo» non basti a dar conto delle vicende umane, che sono segnate anche dal rapporto dell’uomo con lo spazio, dall’esigenza di difendersene, di controllarlo, di impadronirsene, di riempirlo, più recentemente di preservarlo.
Schlögel e altre voci di quel dibattito coglievano il crescente interesse dei lettori, soprattutto quelli non addetti ai lavori, per ricostruzioni che prendessero le mosse da elementi concreti e da coordinate spaziali definite. È oggi sufficiente un rapido giro tra gli scaffali delle librerie per verificare come tale sensibilità non si sia soltanto affermata, ma abbia rinvigorito il «mercato» storiografico come mai in precedenza, con pubblicazioni dedica- te alle storie di città, regioni, monumenti, vie di comunicazione. Se è lecito discutere della diseguale qualità dei singoli risultati, il fenomeno nel complesso merita attenzione e invita a comprenderne le ragioni. La prima è suggerita ancora da Schlögel, non a caso specialista dell’Europa orientale: a partire dal 1989, la sensazione di essere coinvolti in una transizione accelerata e densa, destinata a mutare persino le coordinate spaziali delle nostre vite, fino a traghettarci verso un «mondo nuovo» e incognito, ha accresciuto la sensibilità diffusa rispetto alle tracce fisiche del passato, alle quali aggrapparsi per contemplare il flusso circostante degli eventi.
Gli faceva eco Edoardo Tortarolo, in un breve scritto reperibile in rete, che ampliava lo sguardo alle conseguenze della cosiddetta «globalizzazione» di fine millennio: quanto più sembra rarefarsi il rapporto profondo con il nostro ambiente, tanto più cresce l’urgenza di un contatto sensibile ed emotivo col passato che è alla base delle nostre identità singole e sociali. A lungo gli storici hanno cercato di soddisfare tale bisogno esclusivamente attraverso la forma espressiva della metafora: la trasposizione del significato di eventi dal passato al presente (come la comparazione tra la crisi economica del 1929 e quella odierna, o tra l’ascesa dei fascismi dagli anni Venti e la recente crescita del nazional-populismo in Europa) per superare la discontinuità temporale tra di essi. Per Tortarolo era tempo di accettare i magri risultati di questo tentativo e di ripensare la scrittura della storia per un pubblico ampio di lettori sulla base della metonimia, cioè del recupero del passato attraverso tracce e frammenti che colpiscono i nostri sensi: luoghi, documenti, mappe e tutto quanto consenta di toccare con mano la presenza o l’assenza del passato nel presente. Dal Muro di Berlino alla via Francigena, dal corso del Reno nella storia al Fascismo di pietra ripercorso da Emilio Gentile (Laterza), esistono luoghi che sembrano buchi neri, capaci di risucchiare il tempo e condensarlo attorno a essi.
Quali strade ha intrapreso oggi questa storia concreta o «microstoria» per alcuni, per altri storia locale, con un termine guardato con meno diffidenza rispetto al passato? Tre sembrano le direttrici prin- cipali, che pure non esauriscono il campo. Vi è innanzitutto una riscoperta della storia della rappresentazione del territorio, dal locale al globale, attraverso mappe o altri supporti utilizzati dall’umanità. Il curioso Cartografie del tempo di Anthony Grafton e Daniel Rosenberg (Einaudi) annunciava già la rivincita dello spazio con una raccolta di ingegnose mappe inventate nei secoli per raffigurare visivamente il corso del tempo. Più di recente, Jerry Brotton ha proposto una ardita Storia del mondo in dodici mappe (Feltrinelli): cartine prodotte da civiltà di ogni epoca allo scopo di dare ordine e struttura allo spazio e soprattutto a quanto era noto sugli «altri», sui loro interessi, usanze e culture. Di quest’anno è invece la pubblicazione del volume di Tim Marshall Le 10 mappe che spiegano il mondo (Garzanti). Qualche eccesso di determinismo e semplificazione, che pure affligge il volume, non ne cancella l’intento giustamente provocatorio, chiaro nel titolo originale Prigionieri della geografia: l’elemento spaziale, come la presenza o l’assenza di montagne, porti naturali, corsi d’acqua navigabili, non è un mero accidente delle vicende umane, ma è al contrario uno degli elementi che più le condiziona da sempre.
C’è poi una storia «epigrafica», quella dei luoghi della memoria pubblica, condivisa o contestata, dei monumenti commissionati da qualcuno per uno scopo, riconosciuti e interpretati da chi li incrocia a seconda dei tempi. Non è un caso che tale letteratura abbia conosciuto una notevole reviviscenza in occasione di anniversari importanti, anche a seguito delle polemiche che li hanno accompagnati. Dai centocinquant’anni dell’Unità d’Italia al secolo dalla Grande guerra, numerosi autori hanno scelto di privilegiare la dimensione geografica e spaziale per raccontare e ripercorrere gli eventi, a vantaggio di lettori desiderosi di capire quanto di visitare. È il caso del volume di Marco Mondini Andare per i luoghi della Grande guerra (il Mulino) dedito a forni-
re ai lettori una vera mappa delle ferite impresse da quel conflitto al territorio e alla memoria collettiva. Più in generale, la fortunata collana «Ritrovare l’Italia», pubblicata dal Mulino, suggerisce la riscoperta di idee, drammi, passioni ed eredità attraverso dei pellegrinaggi a tema tra presenze e assenze (significativo in tal senso il recente Andare per le città
sepolte di Michele Stefanile), nella speranza di rintracciare fili conduttori e ricostruire sezioni del passato.
Vi è infine un tentativo che gioca sui rapporti di scala, sulla scelta di un frammento di spazio in cui leggere concretamente fenomeni e processi storici generali. In questa accezione, i luoghi riproducono il rapporto tra lo spazio fisico da un lato, e dall’altro gli individui e le reti sociali che con esso hanno interagito. L’obiettivo di chi vi si cimenta non può che essere il mantenimento di un delicato equilibrio tra rimarcare le caratteristiche specifiche dell’oggetto prescelto senza eccedere nelle note di colore, e mostrarne la valenza universale senza scadere nella banalità del «tutto il mondo è paese».
Un equilibrio che sembra pienamente raggiunto in Galizia, ultima fatica dell’austriaco Martin Pollack (Keller). Il
Viaggio nel cuore scomparso della Mitte
leuropa intorno al 1900 accompagna il lettore lungo minuziosi attraversamenti ferroviari di una terra un tempo parte dell’Impero austro-ungarico e oggi di fatto sparita, smembrata dalle vicende storiche tra molti Stati nazionali. A svanire con essa è anche quella varietà di gruppi umani, tradizioni, linguaggi (significativo che le stesse città avessero almeno tre o quattro nomi in idiomi diversi), in breve quelle reti sociali che «facevano» il luogo stesso. Non c’è però alcun rischio di idealizzazione nostalgica per una terra che, ricorda lo stesso Pollack, era proverbiale tanto per la cultura quanto per la povertà e le tensioni sociali. Soprattutto, la Galizia di Pollack è uno spazio aperto, una contact zone secondo una definizione storiografica oggi in voga, in cui il vero protagonista è il movimento: quello delle merci che abili commercianti sembrano far sorgere dal nulla per recapitare in ogni più remoto angolo, o esporre nelle più caotiche fiere locali; quello delle persone, dai contadini tedeschi attratti con la volontà di creare delle enclave per fini politici agli ebrei dei villaggi più poveri, destinati all’emigrazione dalle sirene delle ricchezze di oltre oceano o dal tamburo battente del sionismo. Così la Galizia mappata da Pollack sembra vivere di equilibri labili per disfarsi infine tra le pagine del libro a seguito di processi epocali, non ultima la sorprendente scoperta dei giacimenti di petrolio che fece della regione il quarto produttore mondiale a scapito del paesaggio fisico e umano preesistente.
Ed è a questo punto che infine la metafora come metodo di indagine storica prende la sua parziale rivincita: nella constatazione che le tensioni tra identità culturali separate e spinte all’omogeneizzazione sono tutt’altro che una novità dell’Europa di oggi, che ogni confine ha sempre rappresentato per il solo fatto di esistere una sfida al suo superamento per gli uomini e per le idee, che il conflitto tra autorganizzazione dal basso delle attività umane e disciplinamento dall’alto ha radici lontane e comuni a gran parte del continente. Se dunque da un lato «il passato è una terra straniera», che ha lasciato in eredità tracce tutte da decifrare, dall’altro esso è e rimane anche la premessa del nostro presente in cui investigare le origini dei problemi odierni. Un binomio irriducibile, che promette di alimentare la ricerca storica con motivazioni di indagine fortunatamente infinite.