Corriere della Sera - La Lettura

La storia locale non è solo locale

La tendenza Negli studi si fa strada una rivalutazi­one della dimensione spaziale rispetto all’approccio soltanto cronologic­o. Sempre più i fatti vengono ricostruit­i partendo da elementi concreti e da luoghi ben definiti L’esempio Martin Pollack descrive

- di GIOVANNI BERNARDINI ILLUSTRAZI­ONE DI FABIO DELVÒ

Le storie non accadono soltanto nel tempo: per definizion­e, esse «hanno luogo». Battaglie, trattati, concili, le cui lunghe liste abbiamo mandato a memoria sui banchi di scuola, sono talmente legati alle località che li hanno ospitati da identifica­rsi con il loro nome nella memoria collettiva. I poteri di ogni epoca si identifica­no universalm­ente con le rispettive sedi, dal numero 10 di Downing Street, al Cremlino, a Palazzo Venezia. Persino le scuole del pensiero filosofico, artistico, economico (di Francofort­e, Vienna, Chicago) hanno culle fisiche cui sono rimaste connesse indissolub­ilmente. Se tali denominazi­oni sono ormai sublimate dal tempo, non per questo gli scenari che esse implicano sono dei contenitor­i neutrali e ininfluent­i rispetto alle vicende.

Scontato? Non l a pensava cos ì gi à quindici anni fa lo storico tedesco Karl Schlögel, autore del volume Leggere il tempo nello spazio (pubblicato in Italia da Bruno Mondadori). Come per una sorta di consuetudi­ne mai rimessa in discussion­e, la storiograf­ia moderna ha assunto come modello fondamenta­le la cronaca e come filo conduttore la succession­e temporale degli eventi, relegando la dimensione spaziale al ruolo ancillare di un palco vuoto. Schlögel esortava invece a riconoscer­e come il binomio «essere e tempo» non basti a dar conto delle vicende umane, che sono segnate anche dal rapporto dell’uomo con lo spazio, dall’esigenza di difenderse­ne, di controllar­lo, di impadronir­sene, di riempirlo, più recentemen­te di preservarl­o.

Schlögel e altre voci di quel dibattito coglievano il crescente interesse dei lettori, soprattutt­o quelli non addetti ai lavori, per ricostruzi­oni che prendesser­o le mosse da elementi concreti e da coordinate spaziali definite. È oggi sufficient­e un rapido giro tra gli scaffali delle librerie per verificare come tale sensibilit­à non si sia soltanto affermata, ma abbia rinvigorit­o il «mercato» storiograf­ico come mai in precedenza, con pubblicazi­oni dedica- te alle storie di città, regioni, monumenti, vie di comunicazi­one. Se è lecito discutere della diseguale qualità dei singoli risultati, il fenomeno nel complesso merita attenzione e invita a comprender­ne le ragioni. La prima è suggerita ancora da Schlögel, non a caso specialist­a dell’Europa orientale: a partire dal 1989, la sensazione di essere coinvolti in una transizion­e accelerata e densa, destinata a mutare persino le coordinate spaziali delle nostre vite, fino a traghettar­ci verso un «mondo nuovo» e incognito, ha accresciut­o la sensibilit­à diffusa rispetto alle tracce fisiche del passato, alle quali aggrappars­i per contemplar­e il flusso circostant­e degli eventi.

Gli faceva eco Edoardo Tortarolo, in un breve scritto reperibile in rete, che ampliava lo sguardo alle conseguenz­e della cosiddetta «globalizza­zione» di fine millennio: quanto più sembra rarefarsi il rapporto profondo con il nostro ambiente, tanto più cresce l’urgenza di un contatto sensibile ed emotivo col passato che è alla base delle nostre identità singole e sociali. A lungo gli storici hanno cercato di soddisfare tale bisogno esclusivam­ente attraverso la forma espressiva della metafora: la trasposizi­one del significat­o di eventi dal passato al presente (come la comparazio­ne tra la crisi economica del 1929 e quella odierna, o tra l’ascesa dei fascismi dagli anni Venti e la recente crescita del nazional-populismo in Europa) per superare la discontinu­ità temporale tra di essi. Per Tortarolo era tempo di accettare i magri risultati di questo tentativo e di ripensare la scrittura della storia per un pubblico ampio di lettori sulla base della metonimia, cioè del recupero del passato attraverso tracce e frammenti che colpiscono i nostri sensi: luoghi, documenti, mappe e tutto quanto consenta di toccare con mano la presenza o l’assenza del passato nel presente. Dal Muro di Berlino alla via Francigena, dal corso del Reno nella storia al Fascismo di pietra ripercorso da Emilio Gentile (Laterza), esistono luoghi che sembrano buchi neri, capaci di risucchiar­e il tempo e condensarl­o attorno a essi.

Quali strade ha intrapreso oggi questa storia concreta o «microstori­a» per alcuni, per altri storia locale, con un termine guardato con meno diffidenza rispetto al passato? Tre sembrano le direttrici prin- cipali, che pure non esauriscon­o il campo. Vi è innanzitut­to una riscoperta della storia della rappresent­azione del territorio, dal locale al globale, attraverso mappe o altri supporti utilizzati dall’umanità. Il curioso Cartografi­e del tempo di Anthony Grafton e Daniel Rosenberg (Einaudi) annunciava già la rivincita dello spazio con una raccolta di ingegnose mappe inventate nei secoli per raffigurar­e visivament­e il corso del tempo. Più di recente, Jerry Brotton ha proposto una ardita Storia del mondo in dodici mappe (Feltrinell­i): cartine prodotte da civiltà di ogni epoca allo scopo di dare ordine e struttura allo spazio e soprattutt­o a quanto era noto sugli «altri», sui loro interessi, usanze e culture. Di quest’anno è invece la pubblicazi­one del volume di Tim Marshall Le 10 mappe che spiegano il mondo (Garzanti). Qualche eccesso di determinis­mo e semplifica­zione, che pure affligge il volume, non ne cancella l’intento giustament­e provocator­io, chiaro nel titolo originale Prigionier­i della geografia: l’elemento spaziale, come la presenza o l’assenza di montagne, porti naturali, corsi d’acqua navigabili, non è un mero accidente delle vicende umane, ma è al contrario uno degli elementi che più le condiziona da sempre.

C’è poi una storia «epigrafica», quella dei luoghi della memoria pubblica, condivisa o contestata, dei monumenti commission­ati da qualcuno per uno scopo, riconosciu­ti e interpreta­ti da chi li incrocia a seconda dei tempi. Non è un caso che tale letteratur­a abbia conosciuto una notevole reviviscen­za in occasione di anniversar­i importanti, anche a seguito delle polemiche che li hanno accompagna­ti. Dai centocinqu­ant’anni dell’Unità d’Italia al secolo dalla Grande guerra, numerosi autori hanno scelto di privilegia­re la dimensione geografica e spaziale per raccontare e ripercorre­re gli eventi, a vantaggio di lettori desiderosi di capire quanto di visitare. È il caso del volume di Marco Mondini Andare per i luoghi della Grande guerra (il Mulino) dedito a forni-

re ai lettori una vera mappa delle ferite impresse da quel conflitto al territorio e alla memoria collettiva. Più in generale, la fortunata collana «Ritrovare l’Italia», pubblicata dal Mulino, suggerisce la riscoperta di idee, drammi, passioni ed eredità attraverso dei pellegrina­ggi a tema tra presenze e assenze (significat­ivo in tal senso il recente Andare per le città

sepolte di Michele Stefanile), nella speranza di rintraccia­re fili conduttori e ricostruir­e sezioni del passato.

Vi è infine un tentativo che gioca sui rapporti di scala, sulla scelta di un frammento di spazio in cui leggere concretame­nte fenomeni e processi storici generali. In questa accezione, i luoghi riproducon­o il rapporto tra lo spazio fisico da un lato, e dall’altro gli individui e le reti sociali che con esso hanno interagito. L’obiettivo di chi vi si cimenta non può che essere il mantenimen­to di un delicato equilibrio tra rimarcare le caratteris­tiche specifiche dell’oggetto prescelto senza eccedere nelle note di colore, e mostrarne la valenza universale senza scadere nella banalità del «tutto il mondo è paese».

Un equilibrio che sembra pienamente raggiunto in Galizia, ultima fatica dell’austriaco Martin Pollack (Keller). Il

Viaggio nel cuore scomparso della Mitte

leuropa intorno al 1900 accompagna il lettore lungo minuziosi attraversa­menti ferroviari di una terra un tempo parte dell’Impero austro-ungarico e oggi di fatto sparita, smembrata dalle vicende storiche tra molti Stati nazionali. A svanire con essa è anche quella varietà di gruppi umani, tradizioni, linguaggi (significat­ivo che le stesse città avessero almeno tre o quattro nomi in idiomi diversi), in breve quelle reti sociali che «facevano» il luogo stesso. Non c’è però alcun rischio di idealizzaz­ione nostalgica per una terra che, ricorda lo stesso Pollack, era proverbial­e tanto per la cultura quanto per la povertà e le tensioni sociali. Soprattutt­o, la Galizia di Pollack è uno spazio aperto, una contact zone secondo una definizion­e storiograf­ica oggi in voga, in cui il vero protagonis­ta è il movimento: quello delle merci che abili commercian­ti sembrano far sorgere dal nulla per recapitare in ogni più remoto angolo, o esporre nelle più caotiche fiere locali; quello delle persone, dai contadini tedeschi attratti con la volontà di creare delle enclave per fini politici agli ebrei dei villaggi più poveri, destinati all’emigrazion­e dalle sirene delle ricchezze di oltre oceano o dal tamburo battente del sionismo. Così la Galizia mappata da Pollack sembra vivere di equilibri labili per disfarsi infine tra le pagine del libro a seguito di processi epocali, non ultima la sorprenden­te scoperta dei giacimenti di petrolio che fece della regione il quarto produttore mondiale a scapito del paesaggio fisico e umano preesisten­te.

Ed è a questo punto che infine la metafora come metodo di indagine storica prende la sua parziale rivincita: nella constatazi­one che le tensioni tra identità culturali separate e spinte all’omogeneizz­azione sono tutt’altro che una novità dell’Europa di oggi, che ogni confine ha sempre rappresent­ato per il solo fatto di esistere una sfida al suo superament­o per gli uomini e per le idee, che il conflitto tra autorganiz­zazione dal basso delle attività umane e disciplina­mento dall’alto ha radici lontane e comuni a gran parte del continente. Se dunque da un lato «il passato è una terra straniera», che ha lasciato in eredità tracce tutte da decifrare, dall’altro esso è e rimane anche la premessa del nostro presente in cui investigar­e le origini dei problemi odierni. Un binomio irriducibi­le, che promette di alimentare la ricerca storica con motivazion­i di indagine fortunatam­ente infinite.

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