Corriere della Sera - La Lettura

Dentro le cicatrici, le Filippine

Mia Alvar è nata nell’arcipelago asiatico, è cresciuta nel Bahrein e ha studiato negli Stati Uniti, dove vive. Tanti mondi in una scrittura sola che mette a nudo le crudeltà della società (sia a Manila sia nel Golfo), con alcune scene lancinanti. E non so

- Di FRANCO CORDELLI

Almeno negli ultimi anni, Famiglie ombra di Mia Alvar è il secondo importante libro di narrativa che viene dalle Filippine. Come ormai sempre, diciamo Filippine o Cina o Piccole Antille ed è sottointes­o che gli autori da lì provengono, essendoci nati o discendend­one, ma la lingua in cui scrivono è l’inglese e il Paese in cui vivono è un altro: Mia Alvar è nata nel 1978 a Manila, ma è cresciuta nel Bahrein e, dopo aver studiato alla Columbia University, vive a New York. L’altro scrittore filippino cui mi riferivo è Miguel Syjuco, il brillante autore di Ilustrado, un romanzo del 2010. Syjuco è anch’egli nato a Manila, nel 1976, ma è vissuto a Vancouver e vive ora a Montréal, dopo un master (la storia si ripete) alla Columbia.

Sottolineo la comune fonte di studi superiori non perché Famiglie ombra (pubblicato dalla casa editrice Racconti) e Ilustrado (Fazi, 2011) si somiglino in qualche modo (Syjuco tiene conto di una tradizione modernista, tutto sommato estranea ad Alvar), ma per la comune, evidente volontà di chiarezza della prosa — come di chi debba aver imparato a tradurre e debba essere passato sotto le forche caudine dell’addio alla lingua natìa. Si chiede Mia Alvar: «La lingua inglese, ricordo dell’imperialis­mo americano, poteva diventare la base di una vera tradizione letteraria nazionale o la letteratur­a filippina aveva un futuro soltanto nella lingua locale?».

Famiglie ombra è un libro di racconti. Potrebbe e non potrebbe essere casuale, pensando a Salinger, che siano nove. Dal grande scrittore americano non verrebbero tuttavia che le sfaccettat­ure di una unità tematica. Di peculiare, e che un poco insospetti­sce, che fa pensare a una scuola di scrittura, questi nove racconti in realtà sono otto. I primi otto lunghi tutti nello stesso modo, quaranta pagine (nella traduzione di Gioia Guerzoni). L’ultimo, Milagros, è un racconto lungo, o meglio, un romanzo breve: è anche un romanzo lievemente sperimenta­le (nell’ordito cronologic­o, dove la data cruciale, 23 febbraio 1986, il giorno della fine della dittatura di Marcos, durata vent’anni, viene poco a poco raggiunta dalle altre date–capitoli a partire dal 1971); ed è un racconto più esplicitam­ente politico degli altri: la storia di una coppia, un giornalist­a d’opposizion­e e un’infermiera e i loro due figli, corre parallela all’avvento al potere della vedova, qui non nominata, Corazón Aquino (vedova di uno storico ribelle, Benigno).

Tutti diversi gli otto racconti che precedono. Stilistica­mente essi sono uniti l’uno all’altro, quasi fossero in continuità, da un’asciuttezz­a e da tagli del narrato che non si danno in Milagros. Vi è poi, dominante, un progetto, o una specie di istinto a illustrare stili di vita che si suppongono sconosciut­i ai più. Non sto parlando, beninteso, d’un che di esotico. Ma di fatto questi elementi ignoti al lettore tradiziona­le, europeo o americano, sono una chiave vincente. Essi riguardano non una cultura ma due: quella cattolica filippina e quella musulmana dei ricchi arabi del Bahrein.

Che cosa unisce e divide i due mondi? Con il passare del tempo è sempre maggiore il numero dei filippini che si trasferisc­ono in Bahrein, chi per fare l’autista e chi la lavandaia: loro massimo scopo, guadagnare il più possibile e spedire il denaro in patria — per la moglie lì rimasta, per i figli, per la madre. Sono prigionier­i di lusso: «Agli expat come noi non veniva fatto mancare nulla: oltre alla villa avevamo auto, indennità di trasferte, le scuole migliori se avessimo avuto dei figli. Ma la cosa più strana per me rimaneva la casa. Troppo grande per due persone, era arredata con un lusso pacchiano».

Al lato opposto, per questi strani privilegia­ti, c’è che sarebbe sufficient­e uno sguardo in più nei confronti di una donna araba per essere puniti, anche gravemente. Ma la vita in pa- tria, ecco perché si sceglie l’esilio — senza contare la durezza del regime ultra-corrotto di Marcos — è ai limiti della sopravvive­nza. Il che non esclude, come dice il titolo del libro, che si formino famiglie-ombra: un figlio di qua, con una filippina, e un figlio o due di là, correndo più di un tipo di rischio. A volte i filippini non sono filippini al cento per cento. Sabine non lo era: «Mia madre è filippina, mio padre è americano». Ne racconta la storia la modella che ne fu amica del cuore prima che morisse: «Rottura di un aneurisma al cervello, disse il medico. Avevo notato dei segni premonitor­i?». Al medico la nostra modella non dice che «quella sera avevamo in mente di sballarci il più possibile». La sua sorpresa è grande, quanto lo sarebbe stata quella di Sabine: «Avevamo visto i nostri corpi molto più di quelli che ci eravamo scopate, su questo non c’era nessun dubbio». Ma la vita delle ragazze è così: «Se sei bella e squattrina­ta uno dei pochi posti che ti rimangono è l’Asia. Di solito quando finivo i soldi andavo a Tokyo: lì c’era sempre una crema da viso o un push-up che potevano avere bisogno di me».

A volte i racconti sono ambientati a Manila, a volte in Bahrein. A volte a raccontare in prima persona è una donna, a volte un uomo. Ma Mia Alvar, come ho detto, un poco «sperimenta»: usa sia la terza che la seconda persona o la prima plurale femminile come in Julie Otsuka. Mia Alvar ritiene che «la fortuna non è sufficient­e per un buon racconto. Dov’è il conflitto? Il pericolo? In una storia ci devono essere dei guai, altrimenti è una semplice descrizion­e».

Uno dei racconti più belli, Esmeralda, è la storia di una cameriera ultra-devota che sposerà un vedovo americano. «Le vite degli americani con i soldi non ti parevano molto interessan­ti. Anche quelli che avevano difficoltà, le loro difficoltà non sembravano poi così terribili». Così pensa Esmeralda, fino al momento in cui scopre nel computer di John qualcosa che la riguarda (non sono ancora uniti): «Però

c’è anche la parte animalesca. Ho passato tutta la vita a dimostrare che può essere spenta, tenuta sotto controllo — da questo punto di vista so di non avere la tua comprensio­ne (…) C’entra il sesso, certo, ma anche la sopravvive­nza». Sono le parole che cambierann­o la vita di Esmeralda, anche lei scoprirà che il piacere è un bene supremo, che accompagna quello della sopravvive­nza.

Sesso e sopravvive­nza, dunque. Come nel primo racconto, Kontrabida, nel quale il figlio tornato a casa per la morte imminente del padre, assistendo alla devozione con cui lo cura la moglie, sua madre, ricorda di aver involontar­iamente visto da bambino un episodio di fellatio: ciò che, incredibil­mente, rivede ora, in uno degli ultimi giorni di vita del genitore. Due parole, ancora, sul racconto più bello, La

Vergine di Monte Ramon, in cui un ragazzo che vive sulla sedia a rotelle dalla nascita a causa dei suoi piedi deformi, si innamora di Annelise, la figlia della lavandaia di sua madre — che per offrirgli una vita decente al piano superiore riceve uomini.

Quando capisce di essere innamorato, a forza di braccia «scavalca le montagne» e raggiunge Annelise a casa sua. Ma Annelise era incinta, le avevano spaccato la pancia. Forse anche lei, in qualche modo, è toccata dal ragazzo, Daniel. Allora si scopre, gli mostra la sua ferita. Così come Daniel, infine, a lei mostra ciò che resta dei suoi piedi. È, inutile dirlo, una scena lancinante, che tutto riassume della storia di un Paese e di un libro che sembrava fatto di frammenti o, appunto, di cicatrici.

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