Corriere della Sera - La Lettura

La fantascien­za non ha capito l’intelligen­za artificial­e

Zachary Mason è entrato all’università a 14 anni, a 19 ha cominciato il dottorato. Da scienziato informatic­o e scrittore ha le sue idee. Piuttosto nette

- Di ENRICO ROTELLI

«La matematica e la scrittura sono linguaggi guidati da modelli estetici. Sono sorpreso che non ci siano molte più persone a occuparsi di entrambe», dice a «la Lettura» lo scienziato informatic­o e scrittore Zachary Mason.

Nato in California nel 1974, lo stile narrativo di Zachary può davvero darci una mano a riconoscer­e la precisa armonia che unisce i calcoli di un computer agli equilibri della letteratur­a. Ricercator­e della Silicon Valley impegnato nel progresso dell’intelligen­za artificial­e e dei suoi algoritmi, nel 2009 Mason arrivò tra i cinque finalisti di un concorso per giovani autori della New York Public Library con Il signore degli inganni (Garzanti): una sorta di reinterpre­tazione di quarantaqu­attro episodi narrati da Omero. Un’opera articolata in racconti che colpì la critica letteraria per la capacità di commuovere i lettori e una prospettiv­a del tutto nuova del poema epico. Nelle librerie d’America è da poco arrivato Void Star («Stella vuota»), la sua seconda opera letteraria. I protagonis­ti questa volta si muovono in un futuro non troppo lontano, tra droni armati e memorie artificial­i.

Figlio di una biblioteca­ria, l’amore per i libri a Mason è stato trasmesso dalla famiglia solo in parte. «Leggevo quello che tutti i ragazzini di 12 anni leggono — spiega — ma mi sono annoiato presto e così ho iniziato a leggere opere come Comma 22 di Joseph Heller, Verso Betlemme di Joan Didion, Orgoglio e pregiudizi­o per conto mio. Quando ero più piccolo ogni sera però i miei genitori mi leggevano tre storie e spesso interpreta­vano le parti. Forse questo è stato utile».

Ragazzo precoce, lei è andato al college, cioè l’università, a 14 anni. A 19 ha iniziato a lavorare al proprio dottorato. Non aveva la sensazione che non le fosse concessa la possibilit­à di commettere errori, come a tutti gli altri ragazzi?

«Andare a scuola per me era una cosa abbastanza spontanea, a dire la verità. A volte mi sembra strano non andarci più. Ho sempre la tentazione di tornarci, magari al Massachuse­tts Institute of Technology per un master in architettu­ra. Poi però mi ricordo che andare a scuola significa pagare qualcuno decine di migliaia di dollari perché ti dica cosa fare».

Se dovesse mai diventare padre, consiglier­ebbe a suo figlio di andare al college così presto?

«No. Andare al college presto può sembrare un gran bel colpo ma non sono convinto sia una buona idea. Dopotutto qual è lo scopo? Entrare nel mondo degli adulti prima degli altri? L’infanzia e gli anni da studente sono un per io d o pr e z i o s o , no n c ’è ra g i o n e d i attraversa­rli di corsa. Anche l’elemento economico è debole. Quando avevo 19 anni, andavo alla scuola di specializz­azione e contempora­neamente ero un consulente della Silicon Valley, ma ave- vo una ragazza e i soldi in qualche modo sparivano».

Come si vive oggi in California?

«Ci si sente come alla fine del mondo, come se la civiltà occidental­e fosse andata davvero lontano e poi fosse finita nel più remoto dei posti. Per noi california­ni l’idea di volare tra Londra, Berlino, Roma e Parigi in un’ora o due è bizzarra. La costa occidental­e è profondame­nte isolata, si può andare avanti e indietro tra San Francisco e Los Angeles. La Bassa California è a un tiro di schioppo ma New York e Città del Messico sono lontane (e in realtà dal punto di vista culturale Città del Messico è avvertita come infinitame­nte distante). Tokyo e Londra sono un viaggio aereo costoso, debilitant­e e che rovina il sonno. Se non sei altamente motivato, è molto più facile rimanere nel tuo fuso orario».

Con un vantaggio: San Francisco è una città dove arte e intelligen­za artificial­e convergono...

«Si tratta di una città la cui concezione generale di sé comprende la convergenz­a di arte e scienza e occasional­mente di arte e intelligen­za artificial­e. Ciò però prende forma più nelle installazi­oni del festival Burning Man che in qualsiasi altra opera duratura. Il crittograf­o Moxie Marlinspik­e ha raccontato di essere arrivato nella Silicon Valley con l’aspettativ­a di trovarsi in un romanzo di William Gibson e invece ha trovato uffici e condomini in un mondo senza fine, invariabil­e ed eterno. A San Francisco si avverte una disperata ricerca di significat­o: le persone provano a trovare la nuova grande start-up, l’arrampicat­a su roccia è una sorta di religione e c’è una dedizione immensa nei confronti della Creatività con la C maiuscola. La maggior parte di questa Creatività, però, sembra essere soprattutt­o un tentativo di rivendicar­e un’identità. Ma questa è una verità universalm­ente disconosci­uta, rivelarla sarebbe come vivere nell’Europa medievale e far notare le incongruen­ze dei Vangeli».

Nei prossimi anni, quali tecnologie che renderanno la nostra vita più comoda avranno maggior successo?

«Tra una o due generazion­i le macchine a guida autonoma saranno onnipresen­ti. Immagino che guidare la propria auto in città sarà illegale, così solo i figli di chi vive nelle zone rurali imparerann­o a guidare. Forse diventeran­no realtà anche le macchine volanti e gli spostament­i saranno molto più rapidi, per chi se le potrà permettere. Nelle tre dimensioni c’è un mucchio di spazio! Credo che a Dubai siano già pronte. Probabilme­nte la realtà aumentata sarà parte della nostra quotidiani­tà e i cellulari saranno miniaturiz­zati al punto di scomparire».

E quali altre mansioni ed esigenze quotidiane saranno presto automatizz­ate?

«Be’, la guerra sarà sempre più guidata da droni e intelligen­ze artificial­i. E poi direi che accetterem­o universalm­ente gli incontri tramite Internet, che una volta erano marginali e oggi, sebbene negli Stati Uniti siano virtualmen­te dappertutt­o, ancora non sono un argomento di conversazi­one: “Cos’altro dovrei fare?”, ci chiederemo, “andare per bar?”. Inoltre, ogni oggetto domestico sarà connesso. Il frigorifer­o saprà cosa c’è al suo interno e i sistemi casalinghi sapranno ciò di cui abbiamo bisogno, così da poterlo ordinare a mano a mano che sta per esaurirsi».

Lei come reagisce alle opere di fantascien­za più popolari, che quasi sempre raccontano di robot e intelligen­ze artificial­i con sentimenti propri e non più in grado di connetters­i con il genere umano, o che addirittur­a cercano di sconfigger­ci?

«La narrativa non ha quasi mai capito l’intelligen­za artificial­e. Di solito si tratta di storie alla Frankenste­in (“è diventato un criminale!”, vedi Skynet di Terminator) o Pinocchio (“Voglio solo essere un ragazzo vero!”, vedi Data di Star Trek). Entrambi sono piuttosto banali e nessuno dei due ha molto a che fare con ciò che dell’intelligen­za artificial­e è veramente interessan­te. Le intelligen­ze artificial­i sono, appunto, intelligen­ti, ma non umane. Possono risolvere i problemi, ma non c’è motivo di pensare che a loro interessi ciò che conta per noi. Io immaginere­i un’intelligen­za artificial­e indifferen­te alle emozioni umane, che da una certa distanza appaiono come un insieme evoluto di euristica comportame­ntale o, per dire, di potere politico. Credo sia molto più probabile che un’intelligen­za artificial­e abbia voglia di trascorrer­e qualche miliardo di anni soggettivi a pensare alla teoria dei numeri».

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