Corriere della Sera - La Lettura
Alla fine la vita s’appoggia alle dune sul mare
Il caotico, intenso memoir dello scrittore e traduttore Marino Magliani
In questo suo nuovo libro, L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, il narratore e traduttore Marino Magliani scrive senza cercare una forma e un genere codificati per ciò che va pensando mentre viaggia con la memoria, e talvolta anche di persona, tra l’Olanda, la Liguria e la Spagna. Come già in un altro suo libro affine, Soggiorno a Zeewijk (Amos, 2014), ma qui con libertà anche maggiore, Magliani non si preoccupa di «normalizzare» quel che di strano, bizzarro, irrelato gli capita di fare e di pensare.
Senza una reinterpretazione in chiave religiosa, filosofica, romanzesca o epica, una vita è solo quello che è, una nuda manciata di fatti e la loro memoria. Questo è il presupposto da cui muove Magliani, che raramente riconduce a delle forme della tradizione culturale gli episodi della sua vita e gli aspetti della sua personalità; succede quando si dipinge neoromanticamente come un irriducibile ramingo, un duro impossibile da amare («uno come me non si ama»), mentre racconta la frammentaria storia d’amore che lo tiene legato a distanza alla «professoressa di spagnolo» e che emerge a più riprese nel testo. Per il resto l’autore non vuole indossare maschere: si presenta com’è, nell’arrendevole stranezza che, pagina dopo pagina, finisce per accumulare un certo numero di pensieri originali, di figure affascinanti e poetiche, di storie che nascono come le dune olandesi di cui parla, perché un granello di sabbia si addossa a un ostacolo e comincia a costituire una massa.
Il tema chiave è il rapporto tra lingua, luoghi e biografia. Magliani parla dei suoi strani natali (è nato a Dolcedo, in Liguria, nel 1960, in un ospizio per anziani), della scolarizzazione vissuta come violenza e straniamento per l’imposizione dell’italiano che ha cancellato, in lui, quasi tutto un mondo di cose che aveva nome solo in dialetto (di qui la necessità del tradurre, per reinnestarsi in altre lingue); dell’abbandono della scuola a 17 anni e dei lavori avventizi fatti da allora in poi (manovale, mozzo sui traghetti per la Corsica); di un’altra violenza subita dallo Stato all’epoca del servizio militare, quando un groviglio burocratico lo tenne lontano dal padre morente, e del conseguente desiderio di rivalsa che gli costò la fuga e «l’esilio», la vita da irregolare a Lloret de Mar e alle Canarie, ora pacatamente rimeditata alla ricerca di un senso complessivo che continua a sfuggire.
«Ora» significa — da trent’anni — anche un altro luogo, l’Olanda, e quel quartiere, Zeewijk, tra le dune e il mare, dove Magliani cammina in solitudine e osserva le vite degli altri attraverso le vetrate delle case, i mutamenti della luce e delle forme del paesaggio così diverso da quello dell’entroterra imperiese che l’autore rivede, nei suoi radi ritorni, sempre più in abbandono, simbolo del provvisorio che governa le vicende umane. Pure, in mezzo alla provvisorietà su cui Magliani ha costruito queste pagine, emerge nitido un senso di gravitazione verso i luoghi (quello d’origine e quello d’elezione) che è tanto biologico quanto culturale, e assomiglia a un destino, sorprendentemente libero da ogni mitologia identitaria.