Corriere della Sera - La Lettura
Lo stradario, anzi l’atlante di quel che c’è sotto i versi
Tiziano Broggiato ha invitato sedici autori italiani di liriche a interrogarsi sui luoghi che li hanno segnati Sono spazi «dell’anima» ma anche confini incerti. Perché la patria «è il posto dove si desidera morire»
Che cosa sono, cosa significano, che realtà hanno i luoghi che ci hanno segnato per sempre? Sono luoghi d’ elezione o non piuttosto luoghi destinati? E che cos’è, ancora, una patria poetica? Per rispondere a interrogativi di questa natura, ma anche per sapere qualcosa di più sulla storia della loro poesia, Tiziano Broggiato ha raccolto in un libro gli interventi di sedici poeti italiani invitati a scrivere sul tema indicato dal titolo: Le città dell’anima (Luigi Pellegrini Editore). Si va dalla Sicilia di Antonio Di Mauro e di Angelo Scandurra, alla terra di mezzo tra Lombardia e Canton Ticino di Fabio Pusterla. Se il Novecento ci ha da tempo abituato alla coesistenza, certo non senza attriti, tra una poesia sradicata, universalista e cosmopolita, e una in cui i tempi e i luoghi, tutti coi loro nomi precisi, hanno ancora una necessità e un significato, diciamo che i poeti presenti nel volume, pur con le dovute distinzioni, si collocano su questo secondo versante.
È questo infatti un libro di nomi, di storie, di luoghi particolari e tangibili. Talvolta perfino di radici. Eppure, se la poesia è anche la ricerca di una definizione personale, di un’identità, diciamo pure di un destino, è almeno altrettanto vero che, sul rovescio delle tante presenze, le lacune, i buchi neri, le incertezze, i fantasmi, i colpi a vuoto, si fanno sentire con forza. Le diverse città dell’anima diventano allora lo specchi odi un’ interrogazione e di un’ indagine mai concluse. Dunque qualcosa non di circoscritto e di chiuso, come ci si potrebbe forse aspettare, ma di aperto, di arrischiato, di dinamico; non solo o non tanto un possesso, ma anche e soprattutto un ideale, un miraggio, una responsabilità.
Così scrive ad esempio Gian Mario Villalta, che da questo punto di vista rappresenta forse il caso più estremo del libro: «La nota falsa che sento al fondo della musica della vita, da qualche decina d’anni, e forse ancora da più lontano, non tace in alcun luogo che io possa raggiungere. Pure nella certezza di aver giocato fino in fondo, senza mai passare la mano, la mia partita con l’autenticità». Ma in questa direzione si può ricordare anche Ste- fano Simoncelli, per cui la città dell’anima «non è [...] dove si è trascorso gran parte gran parte della vita, ma il posto dove si desidera morire»; oppure Pusterla, che racconta come il suo luogo sia in realtà un confine sempre sfuggente, una frontiera, un terrain vague, come ama dire con l’espressione francese. Le piccole patrie hanno un volto certo, confini definiti, ma nello stesso tempo — paradosso e contraddizione che la poesia vale a scoprire — non li hanno affatto. Ecco, il lettore che fosse intenzionato a sorprendere i poeti nei loro punti deboli — i fondamenti, la verità, e appunto le radici, la piccola patria, l’autenticità — credo che non troverebbe qui molte carte a suo favore. Certo, qualcuna forse sì, ma tutto sommato di poco conto, e comunque non negli interventi più densi e consapevoli.
Quali sono questi? Nel libro si trovano due linee tematiche forse più feconde di altre comunque possibili. Nella sua introduzione Broggiato allude sinteticamente a entrambe. La prima riguarda appunto la consistenza e l’intensità di certi luoghi rispetto ad altri, la loro capacità d’incidersi nella nostra mente e nel nostro cuore (o ancora, come dal titolo, nella nostra anima). La seconda, connessa inevitabilmente alla prima, ma di questa forse anche più interessante, riguarda invece il rapporto dei luoghi prescelti con la creazione poetica, la loro funzione di stimolo e d’ispirazione, il loro porsi come puntello e come guida, anche soltanto come costellazione favorevole alla scrittura.
Il fatto è che il rapporto con certi luoghi determinati — luoghi che sono quelli e non altri — mette in gioco un elemento assolutamente decisivo e irrinunciabile per un poeta, anche se questo non può mai essere stabilito volontaristicamente, vale a dire la definizione dell’immagina- rio, le procedure stesse della condensazione simbolica e formale. I contributi che abbiamo apprezzato di più sono quelli che hanno inteso l’argomento non come un semplice pretesto memoriale e narrativo, ma appunto come un problema, come un reagente conoscitivo per sondare una volta di più la propria vicenda esistenziale e poetica insieme. Citiamo al riguardo un passaggio del racconto (splendido, davvero) di Giuseppe Conte: «Per me, io lasciai Porto Maurizio nel 1964, finito il Liceo. Emigrai a Milano. Da allora, ho sempre viaggiato su e giù dalla Liguria a Milano e poi a Torino, e in seguito per tutta l’Europa e per gli altri continenti. Ma allora perché, richiesto di parlare della mia città dell’anima, mi ritrovo a parlare di questo paese inerte, che è il mio passato, fonte di malinconia quasi soffocante?».
In realtà, per concezione e stile queste prose appaiono molto diverse tra loro. In molti casi, per di più, è quasi impossibile leggerle senza commisurarle ai versi dei rispettivi autori. I modi della narrazione sono dunque assolutamente variabili: lirico, elegiaco, storico, cronachistico, epico, enciclopedico, appassionato, lieve, ironico, polemico, per fotogrammi esemplari, per spunti e riferimenti indiretti. E molto diverse sono ovviamente anche le immagini che ne derivano. Basti confrontare la Roma lirico-poetica di Damiani e quella grottesca e surreale di Magrelli (in realtà entrambi insistono comunque sul suo aspetto storico-geologico). In certi testi, poi, emerge l’aspetto elettivo della relazione coi luoghi: «L’anima non dipende dall’anagrafe, ma si orienta secondo affinità elettive. Luogo dell’anima non significa per me luogo di nascita, o di residenza. Può corrispondervi, ma non è detto», scrive ad esempio Roberto Mussapi.
In altri, viceversa, il luogo s’impone quasi con una sua forza di predestinazione naturale. Così, ad esempio, in un autentico poeta del luogo qual è Umberto Piersanti, che fa dire al protagonista del suo racconto: «Io sono un italiano che ama il mondo, ma mi sento anche in ordine urbinate, marchigiano, italiano, europeo e cittadino del mondo». In un caso come nell’altro, tuttavia, ci si trova sempre nello stesso punto, in bilico tra realtà e immaginazione, tra storia e mito, tra libertà e necessità, o anche, come i poeti amano ripetere, tra particolare e universale. La relazione col luogo si rivela comunque un conduttore d’intensità di cui la poesia, così almeno sembra, difficilmente può fare a meno.