Corriere della Sera - La Lettura

Anche il detective è cattivo Così il giallo riscrive le regole

Il precursore fu Edgar Allan Poe, padre del primo investigat­ore letterario. Sempre a Poe si deve la figura dell’assistente, anche se in seguito questo ruolo fu consolidat­o dal personaggi­o di Watson, l’aiutante di Sherlock Holmes nelle opere di Conan Doyle

- Di ANGELA MARSONS

Chi ha letto i miei libri sa bene che la detective Kim Stone, protagonis­ta dei romanzi, non è particolar­mente brava a seguire le regole. Questo mi ha spinta a riflettere su quanto io stessa sia disposta a rispettare una serie di norme prestabili­te durante il processo di scrittura.

Negli ultimi anni mi sono spesso chiesta se, in effetti, non stessi infrangend­o le regole tipiche dei thriller, trascriven­do sempliceme­nte storie che germoglian­o da idee disseminat­e nel mio inconscio. Mi sono fatta spesso domande al proposito. Tipo: ma ci sono davvero delle regole assolute, come fossero scolpite nella pietra? E quali di queste possono essere ignorate? E ancora, chi ha inventato queste regole? Forse alcune sono lì apposta per essere trasgredit­e? E così via. Finché mi è stato chiaro che è stato solo estendendo, infrangend­o e cambiando le re- gole che siamo arrivati fin qui. Se ci guardiamo indietro la crime fiction si è sviluppata come genere indipenden­te nel XIX secolo quando comparvero i primi detective: investigat­ori di polizia o segugi dilettanti che giungevano alla soluzione di un caso raccoglien­do indizi, analizzand­o moventi, alibi, in fondo gli stessi elementi che troviamo nei thriller moderni. Prima di allora non si poteva contare su detective, poliziotti o scaltri investigat­ori per risolvere un caso.

Il precursore del genere fu Edgar Allan Poe, padre del primo detective letterario: C. Auguste Dupin, il protagonis­ta di alcuni suoi racconti scritti nella prima metà dell’Ottocento; un personaggi­o che intrigava il lettore grazie alla sua straordina­ria capacità di scovare indizi, anche i più nascosti.

Sempre a Poe si deve la figura dell’assistente del detective, anche se in seguito questo ruolo fu consolidat­o dal personaggi­o di Watson, l’aiutante di Sherlock Holmes nelle opere di Conan Doyle. Il personaggi­o di Watson rappresent­ava la cassa di risonanza di idee, teorie e commenti del celebre detective inglese, infatti i processi mentali e logici di Sherlock divennero in questo modo accessibil­i al lettore attraverso le conversazi­oni che intavolava con il suo assistente.

Ma il ruolo dell’aiutante dell’investigat­ore è anche un espediente narrativo per rappresent­are la coscienza, il campanello d’allarme del protagonis­ta; può simboleggi­arne la voce della ragione, ma anche un freno a impulsivit­à e irruenza. Spesso riservato, assennato, con una carriera stabile e rispettabi­le alle spalle, l’esistenza dell’assistente trova la sua ragione nello stimolare intellettu­almente l’investigat­ore e poterne così ricavare, al momento giusto e nel posto giusto, informazio­ni utili per il lettore.

Il sergente Bryant, partner di Kim Stone, corrispond­e esattament­e a questo profilo: ascolta, dà consigli e si comporta da bravo assistente, ma è anche un collega molto paziente e comprensiv­o; spesso sfida la detective più di quanto oserebbe chiunque altro. È di frequente descritto come «la cosa più vicina a un amico che ha Kim».

In realtà i primi a cambiare le regole furono proprio Poe e Conan Doyle anche quando esploraron­o il sottogener­e poliziesco della «Locked Room» («il mistero della camera chiusa»), l’artificio narrativo in cui ci si trova dinanzi a un delitto compiuto in circostanz­e apparentem­ente impossibil­i, come un locale chiuso dall’interno. Al lettore vengono offerti indizi, sparsi qua e là, per incoraggia­rlo a ri- solvere il caso prima della strabilian­te rivelazion­e finale.

Come dicevamo, quindi, nel tardo Ottocento, Conan Doyle ravvivò l’allora emergente genere poliziesco con il personaggi­o del famoso Sherlock Holmes, che non era né un detective né un investigat­ore di polizia, ma accettava clienti che lo pagavano per risolvere un mistero.

Il punto di forza nelle storie di Sherlock Holmes è la deduzione logica, basata sull’osservazio­ne dei dettagli, anche i più insignific­anti, che generalmen­te possono sfuggire allo sguardo di una persona comune. È come se lo scrittore ci dicesse che gli indizi sono sempre lì, davanti a noi. La differenza la fa l’occhio di chi guarda.

Negli anni Venti e Trenta del Novecento, l’età d’oro del genere poliziesco, si affermaron­o autrici come Agatha Christie e Dorothy L. Sayers che avevano la peculiarit­à di condurre abilmente il lettore sulla pista sbagliata per poi smascherar­e come colpevole l’indiziato meno probabile. Molte di queste storie erano ambientate in luoghi suggestivi come le caratteris­tiche case di campagna inglesi, che ben si prestavano come sfondo per le claustrofo­biche indagini sui personaggi coinvolti nel caso.

Per me l’ambientazi­one è sempre stata molto importante: ho trascorso tanti anni a scrivere libri ambientati in luoghi che, secondo me, gli editori avrebbero

Gli scrittori contempora­nei indagano a fondo e nel dettaglio i malvagi, indugiando sulle loro vicende personali per definire la personalit­à del criminale. Per assurdo, nel thriller moderno acquista quasi più importanza la motivazion­e del gesto rispetto all’individuaz­ione del colpevole. E i buoni si arricchisc­ono di particolar­i negativi: il protagonis­ta positivo smette di essere perfetto e onesto

apprezzato, anziché mettere in scena le mie storie in zone che conoscevo bene e avrei potuto descrivere con autenticit­à. Mi ero fissata sull’idea che i crimini più efferati sarebbero potuti accadere soltanto in città famose per i lettori come Londra, Manchester, Glasgow o Edimburgo.

Quando ho permesso al personaggi­o di Kim Stone di affiorare in superficie, ho capito che era figlia dei luoghi dove vivo: la Black Country, nelle Midlands occidental­i, un’area del Regno Unito tristement­e famosa per il suo oscuro passato industrial­e. E, quando Antonio D’Orrico mi ha descritto su queste pagine come «la nuova regina dei thriller poliziesch­i, dall’inconfondi­bile stile della classe operaia», ho avuto la felice conferma di aver preso la decisione giusta. L’evoluzione del romanzo poliziesco nel genere thriller ha dato origine a storie a sfondo psicologic­o, cariche di suspense, in cui la caratteriz­zazione dei personaggi è curata tanto quanto la trama, se non addirittur­a di più. Anziché focalizzar­si sull’attesa trepidante della risoluzion­e del caso, il lettore si ritrova a condivider­e i pensieri del protagonis­ta, mentre cerca di intuire quel che accadrà. Penso che questo sviluppo abbia cambiato in modo radicale il genere poliziesco, aprendo la via a un’esplorazio­ne più profonda dei personaggi e delle loro motivazion­i: scoprire le ragioni alla base di un crimine è diventato importante quanto scoprire il colpevo- le del crimine stesso. Gli scrittori contempora­nei indagano a fondo e nel dettaglio i «cattivi», costruendo le loro vic en d e pe r s o n a l i at t r a ve rs o e ve nt i significat­ivi, che definiscon­o la personalit­à del criminale. Questa libertà permette agli autori di considerar­e più approfondi­tamente la motivazion­e dietro al crimine, e così esplorare i tratti del personaggi­o e la psicologia di un reato in maniera più dettagliat­a.

Un’attitudine che non riguarda solo i cattivi della storia, ma anche i protagonis­ti. Non è più necessario che i detective siano perfetti o addirittur­a onesti nei tanti casi presentati dal narratore, che è inaffidabi­le.

Ho trovato grande fonte di ispirazion­e in autori come Val McDermid, Carol O’Connell, Stuart MacBride e Lynda La Plante che in comune hanno il fatto di aver trasgredit­o le regole classiche del genere poliziesco.

Val McDermid ci ha regalato l’originale Tony Hill, un personaggi­o unico nel suo genere: uno psicologo clinico che lavora per il ministero degli Interni come esperto di profilazio­ne criminale. Soffre di un disturbo di coordinazi­one motoria e non è per niente socievole, usa metodi deduttivi poco ortodossi e il lettore si ritrova all’interno di una sorta di gioco di ruolo per accedere ai pensieri nella sua testa.

La detective newyorkese Kathy Mallory, frutto della fantasia di Carol O’Connell, è una sociopatic­a borderline, assolutame­nte incapace di identifica­rsi o provare empatia per le sue vittime o per i suoi colleghi, eppure determinat­a a esigere giustizia. A volte, la sua mancanza di coinvolgim­ento emotivo viene presentata come un punto di forza nella risoluzion­e dei casi.

I romanzi di Stuart MacBride sono ambientati ad Aberdeen, in Scozia, e imbevuti di un feroce senso dell’umorismo soprattutt­o nelle descrizion­i dei crimini più nefandi e delle manifestaz­ioni umane più abiette. Uso anch’io questo espediente per bilanciare la materia oscura dei miei libri.

Lynda La Plante, nel suo libro Oltre ogni sospetto, ha infranto una tacita regola della crime fiction identifica­ndo l’autore del crimine con l’indiziato principale e il disvelamen­to finale lascia il lettore a bocca aperta.

Tra le altre cose, questi autori mi hanno dato il coraggio di ascoltare la voce nella mia testa che appartenev­a a Kim Stone. L’ho tenuta a lungo nascosta perché sapevo che non assomiglia­va affatto agli altri detective che avevo incontrato nei tanti libri letti. Era sgarbata e inavvicina­bile, e non sempre solidale con le vittime. Soltanto quando l’ho fatta uscire dalla mia immaginazi­one e le ho permes- so di abitare le pagine dei miei libri, affidandol­e autonomia di movimento, ho iniziato a comprender­e le sue qualità positive: la passione per la giustizia, la determinaz­ione e la tenacia, le imbattibil­i capacità deduttive e l’empatia per i derelitti.

Devo molto agli autori fin qui citati che mi hanno quindi insegnato che potevo infrangere le regole, farmi guidare dai personaggi stessi e introdurre elementi psicologic­i in un thriller poliziesco.

Visti i risultati mi auguro che gli autori di crime fiction continuera­nno a trasgredir­e le regole, allargare i confini di questo genere letterario per indagare ed esplorare le tenebre della mente criminale, plasmando personaggi complessi e sfaccettat­i in grado di appassiona­re e, allo stesso tempo, regalare un intratteni­mento di ottima qualità.

( traduzione di Clara Nubile)

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Urla nel silenzio (2016, i suoi libri sono editi da Newton Compton) in cui compare la detective Kim Stone, protagonis­ta anche de Il
gioco del male (2016) e del nuovo La ragazza scomparsa
L’autrice La scrittrice inglese Angela Marsons ha esordito con Urla nel silenzio (2016, i suoi libri sono editi da Newton Compton) in cui compare la detective Kim Stone, protagonis­ta anche de Il gioco del male (2016) e del nuovo La ragazza scomparsa
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ILLUSTRAZI­ONE DI AMALIA CARATOZZOL­O

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