Corriere della Sera - La Lettura
Porto la lirica su un Tir e cerco artisti rimossi
«Sono fermamente convinto che oggi sarebbe impossibile per un pittore come PatrickAngus rimanere sconosciuto al mercato dell’arte per così tanto tempo», scrive Thomas Fuchs, che nella sua galleria di Stoccarda ha ospitato Your Own Life, una personale dedicata agli Early Works dell’artista americano morto di Aids nel 1992, a soli 38 anni, nella monografia pubblicata da Hatje Cantz nel 2016. «Era uno studioso appassionato di Picasso e di Hockney, maestri dai quali si è sempre fatto influenzare — spiega Fabio Cherstich, che di Angus è l’Indiana Jones italiano —. Cresciuto a Santa Barbara, si trasferì prima a Los Angeles e poi New York, dove alternava il lavoro di guardiano al Metropolitan Museum con quello di cassiere in un locale gay di Times Square».
Regista e scenografo, classe 1985, Cherstich è l’ideatore di OperaCamion, progetto con cui porta la lirica nelle piazze (a oggi Il Barbiere di Siviglia e Don Giovanni, cui il mese scorso ha dedicato un ampio servizio il «New York Times»). Appassionato d’arte («Fare il collezionista non è un lavoro: è un amore») racconta di aver scoperto il talento di Angus per caso. «A parlarmene è stato un amico — ricorda —, un giorno ci siamo incontrati a Parigi e mi ha mostrato sullo smartphone poche immagini trovate online. Mi hanno stregato: mi sono messo sulle sue tracce e ho scoperto che la madre, Betty, era ancora viva. L’ho chiamata al telefono mentre per lavoro ero a San Pietroburgo: sembrava stesse aspettando quel momento da tutta la vita». Elaborato il lutto per la morte del figlio, Betty aveva iniziato a organizzare piccole mostre, stampando da sola i volantini per pubblicizzarle. Faceva quel che poteva, con tenacia. E aspettava. «Mi disse che per vedere i lavori di Patrick — ne aveva a centinaia — sarei dovuto andare a trovarla. E così ho fatto: sono stato diverse volte a Fort Smith, in Arkansas, nella casa museo che ha dedicato al figlio». Da quella prima telefonata «la vita di Betty è cambiata. E un po’ anche la mia».
Sconosciuto all’epoca («Ma ci tengo a ricordare che il grande David Hockney alla prima e ultima mostra di Patrick a Santa Barbara, nel 1992, ha comprato sei sue tele!»), Angus è al centro di una riscoperta «a cui anche io ho partecipato ritrovando il tesoro conservato da Betty». Le tele del «Toulouse-Lautrec di Times Square», come soprannominò Angus il dramma- turgo e suo estimatore Robert Patrick, sono esposte principalmente in collezioni private in Europa e in America: «Adesso spero che si cominci a muovere l’attenzione di istituzioni e musei internazionali: a Los Angeles c ’è stata due anni fa un’importante mostra di disegni alla galleria Edward Cella, a fine anno ce ne sarà una in Italia e, dal prossimo 2 dicembre,il Kunstmuseum di Stoccarda ospiterà la prima retrospettiva istituzionale dei suoi lavori prendendo in prestito anche opere della mia collezione, oltre alle sei famose tele acquistate da Hockney nel ’92».
Dalle strade di Los Angeles affollate di personaggi grotteschi e stravaganti ai luoghi di ritrovo sotterranei e fumosi della comunità gay di New York, passando per i ritratti di amici, familiari e oggetti della sua quotidianità oltre ai collage di polaroid e fumetti, «Angus, artista eclettico e iper produttivo, ha sempre dipinto la realtà che lo circondava filtrandola attraverso il suo sguardo». Il silenzio che per molto tempo ha circondato la sua produzione è legato alla sua omosessualità? «Indubbiamente. Negli anni in cui si trovava a New York il soggetto e lo stile delle sue opere era considerato “fuori moda”. La sua è una pittura figurativa e narrativa, in un momento in cui andava per la maggiore la citazione “chiassona” dell’espressionismo e il pop, ma soprattutto scomoda: i club, le saune, i cinema porno erano gli ambienti in cui andava diffondendosi l’Aids. Tutti i suoi contemporanei — Morrisroe, Wojnarowicz, Haring, Gonzàles-Torres — hanno rappresentato la piaga della malattia in modi più o meno astratti. La pittura di Angus reagisce invece al dramma distanziandosi. Nei quadri di Patrick non c’è mai tragedia, c’è una forte tensione della carne e, soprattutto, c’è l’ambiente. C’è la scena gay della New York degli anni Ottanta — in cui si riflettono la solitudine e la ricerca di amore e di accettazione —, così come a Los Angeles c’erano i passanti in riva al mare o i gruppi di adolescenti al parco e a Fort Smith c’erano la famiglia, i boschi, i laghi».
Cherstich definisce il suo rapporto con l’arte «di curiosità e sorpresa continua. Sono un grande appassionato di storie. Quella di Angus, alla fine, non è solo stata la ricerca delle opere ma l’inseguimento di un racconto, l’immersione in una narrazione. Che un giorno mi piacerebbe poter condividere con il pubblico attraverso il mio linguaggio, quello del teatro». A guidarlo verso un pittore piuttosto che un altro, sostiene, «è l’intuito e, molto spesso, la conoscenza diretta dell’artista o della sua storia. Ho cominciato a collezionare artisti italiani della scena milanese coetanei, quasi tutti amici — Beatrice Marchi, Luca De Leva, Tomaso De Luca, Giulio Frigo, Patrizio di Massimo, Anna Franceschini , Santo Tolone, Mauro Vignando, Chiara Fumai — e artisti che avessero come tema centrale della loro indagine il proprio corpo e la propria identità, con una grande attenzione ai performer e alla Body Art. Gente come Urs Luthi, Luigi Ontani, Michel Journiac, Orlan, Pierre Molinier».