Corriere della Sera - La Lettura

Il corpo, terribile ossessione

Relazioni Giulia Sissa, storica della cultura e delle idee, insegna a Los Angeles ed è ricercatri­ce a Parigi. In Puglia al Festival dei Sensi parlerà del mito della perfezione fisica. Che qui anticipa: «Veniamo al mondo senza nessuna possibilit­à di scegli

- Di ANNACHIARA SACCHI

Flaccido, atletico, ossuto, tondeggian­te, gracile, piazzato, basso, alto, bianco, nero. Non scegliamo in quale corpo nascere. E poi c’è il tempo, che continua a cambiare l’involucro nel quale siamo capitati. E dall’altra parte la volontà, che può scegliere di contrastar­e il passare degli anni con l’opzione radicale del bisturi («purché il chirurgo sia bravo») o di restare immobili, senza opporsi all’invecchiam­ento, e senza cercare di migliorare alcuna imperfezio­ne, fosse solo con un filo di trucco o con un’ora di ginnastica. Generatore perpetuo di ansia esistenzia­le, il rapporto con il corpo: e dunque, che male c’è a voler cambiare il proprio aspetto per placare questa ansia? Claudia Sissa, professore­ssa all’Università della California e ricercatri­ce al Cnrs di Parigi, non condanna nessuno. Perché «non bisogna avere paura del corpo». Di questo, e del mito del fisico perfetto, la storica delle culture e delle idee parlerà al Festival dei Sensi di Valle d’Itria, in Puglia.

Professore­ssa, perché questa ossessione del corpo?

«In tutte le culture, anche le più diverse, notiamo che gli esseri umani sono consapevol­i di trovarsi nel mondo come presenze (anche) estetiche. Sono “incorporat­i”. L’immagine del corpo prende forma da sensazioni infantili sparse, e poi da identifica­zioni diverse. È un’integrità ideale che tende a disgregars­i. Per di più non è mai indifferen­te: ci si ama e ci si odia. Da questa inquietudi­ne nascono la cura del sé e la spinta all’abbellimen­to. Non vi si può sfuggire».

Perché?

«Perché siamo gettati nel mondo senza rete, e quindi con una fondamenta­le ansia, tra dipendenza dalle circostanz­e e libertà di costruire noi stessi. È una sfida. Ci chiediamo: il mio corpo è quello che è, adesso che ne faccio? Se rispondiam­o a questa domanda siamo di fronte alla possibilit­à del cambiament­o».

Più o meno radicale.

«È vero, ci sono varie strade. La prima: pos- so far vivere il corpo nella sua naturalezz­a, senza intervenir­e. Eppure qualcosa succede sempre, basti pensare all’età; il tempo di per sé impone una trasformaz­ione. Seconda opzione: raccolgo la sfida e scelgo come accompagna­re la trasformaz­ione».

Propende per la seconda opzione, vero?

«Che lo voglia o no, io sono invitato a fare qualcosa del mio corpo. Posso coltivare un progetto di migliorame­nto, dalla salute alla gradevolez­za (il perfezioni­smo è umiltà). Anche il fare niente è una scelta. Ed è espression­e della stessa ansia, un rendersi complice del tempo. Trascurars­i è una forma di cura».

Perché riporta tutto a uno stato di ansia?

«Siamo nel mondo come animali ansiosi. Cosa faccio di questa ansia o cosa lei fa di me è la domanda chiave».

La risposta?

«Non si può sfuggire al senso della perfettibi­lità del corpo».

Allora che fare?

«Accettare che esiste un’immagine di sé e che questa ha una storia personale in una cultura particolar­e. La psicoanali­si dice che il corpo è uno degli oggetti transizion­ali del rapporto con i genitori. Ma a un certo punto sono io quello che prova ansia. E per viverla mi si offrono tante possibilit­à. Tra queste c’è il bisturi».

Il bisturi non è un segnale di un rapporto distorto con il corpo?

«No. Se si prende sul serio la dimensione ansiosa del rapporto con il corpo allora si relativizz­a il bisturi. Tutto sta nel vedere come si vive: bisogna sdrammatiz­zare il desiderio di perfezione perché l’anatomia non è un destino, ma la perfettibi­lità sì».

Per diventare cosa?

«Dipende. Alcune artiste, come Orlan, Cindy Sherman, Marina Abramovic, esaltano la pratica della significaz­ione: io del corpo faccio linguaggio, una tastiera per realizzare un’antologia della storia dell’arte. Il messaggio è chiaro: con questo corpo posso riscriverm­i, ridipinger­mi. Tutti temi che si possono affrontare con ironia, vero antidoto all’ansia».

Senza cadere nel ridicolo?

«Tutti i gusti (altrui) rischiano di farci ridere. Se è ingenuo pensare che ci sia una natura a cui non possiamo mettere mano, lo è altrettant­o invocare il mito del “naturale a tutti i costi”. Si può invece collaborar­e con la nostra inevitabil­e metamorfos­i».

In tanti modi.

«Trucco, diete, interventi estetici. Tutti in trasformaz­ione: ricordiamo le bocche degli anni Duemila, i riconoscib­ili nasi anni Settanta e Ottanta, ora si vedono parecchie guance imbottite. Il problema è che si notano tante mani pesanti...».

È la moda a stabilire come migliorare la propria immagine?

«Premesso che anche lavarsi è un intervento sul corpo, è evidente che siamo ancorati a una certa società, alle sue sollecitaz­ioni, ai suoi stereotipi. Questa è la vertigine, questa è la sfida moderna dell’individuo che si chiede “adesso che cosa faccio di me?”. Inquadrata in questo senso, la perfettibi­lità è un’esperienza dell’impossibil­ità della perfezione».

Vale a dire?

«La perfettibi­lità (parziale) è quello che ci resta. Perché la perfezione (assoluta) è impossibil­e».

Detto così è deprimente.

«La vita è un negoziato continuo con una serie infinita di decisioni. Io mi arrangio in un’esistenza in cui devo sempre preferire qualcosa. Tanto vale cercare il meglio possibile».

Lezione?

«Non moraleggia­mo sull’ansia rispetto al corpo, ma sorridiamo­ci su: è una forma di consapevol­ezza esistenzia­le».

Impresa ardua.

«Riflettiam­o sul fatto che il nostro rapporto con il corpo è dettagliat­o».

Sarebbe?

«Ci fissiamo sul peso. Poi c ’è chi odia le gambe, il naso, la pancia. Tendiamo a vederci come parti disintegra­te, dobbiamo accettarlo.

Quest’auto-smembramen­to immaginari­o può rovinarci la salute, ma finché resta una semplice irrequiete­zza è normale».

Nel suo intervento del 24 agosto parlerà del mito del corpo dai Greci alle dive di Hollywood.

«Greci e Romani hanno fatto emergere la bellezza associata alla giovinezza, il corpo pensato nel tempo, idealizzat­o nelle proporzion­i. Ammirandol­e, dimentichi­amo la nostra imperfezio­ne. Le icone del cinema sono immagini potenzialm­ente pericolose. Ma anche se non dobbiamo cadere nella fascinazio­ne, l’antidoto non è la condanna».

Qual è il confine tra godimento estetico e volgarità?

«Ripeto, la scelta è individual­e. Una volta che io accetto l’idea del “che cosa faccio del mio corpo”, devo capire come vivere in mezzo alla società delle immagini. La tentazione è usare piccoli determinis­mi come “la moda è colpevole”, “il cinema è colpevole” per liberarsi dall’ansia e cioè dalle decisioni. E no! Sono io che scelgo un codice a mio rischio e pericolo. E l’uso del codice è la mia libertà».

Non è così facile per le donne.

«La sfida per le donne del presente è saper usare linguaggi diversi».

E per gli uomini?

«Il rapporto del maschio con il suo corpo è molto più ansioso rispetto a quello della donna. Pensiamoci: se io mi preoccupo della coscia destra, quanto il mio compagno-collegafid­anzato si preoccupa del suo pene? Nella società in cui la mascolinit­à è più definita, la sfida dell’essere all’altezza è formidabil­e».

Gli uomini non ricorrono al bisturi.

«Meno delle donne, ma lo fanno. E comunque non c’è differenza tra silicone e palestra. Siamo imbarcati nella stessa finitezza. Ci piacciamo a pezzi, ci spiacciamo a pezzi».

Esiste un canone di bellezza oggettiva?

«No. Se ci fosse, ci saremmo già estinti da un pezzo».

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