Corriere della Sera - La Lettura
Sul giradischi di Soyinka Mahler è un po’ africano
La musica seguiva il piccolo Wole Soyinka dappertutto. «Per le strade, in chiesa, a scuola. Da quello che riesco a ricordare sono cresciuto e sono sempre vissuto immerso nella musica, la musica ha veramente sempre fatto parte del mio mondo». Voce di basso-baritono. Che il va-e-vieni della linea telefonica non intacca: la Nigeria si fa sentire anche nelle pause involontarie che si aprono dentro la conversazione. L’ottantatreenne premio Nobel, una delle massime voci della letteratura africana e mondiale, con un passato di impegno politico e carcere e fughe, ha sempre lasciato che il mondo gli parlasse: la vita sa di musica, sempre.
La troverà anche in Italia, la musica. L’autore di Sul far del giorno e de Gli interpreti (appena ristampato), ospite della Milanesiana il mese scorso, è di nuovo nel Paese che ama. Lunedì 21 tiene a Bolzano una conferenza pubblica sulla «morte dell’uomo», appuntamento appunto preceduto, il giorno prima e sempre nel capoluogo altoatesino, da un dialogo con il pubblico a ridosso del concerto della European Union Youth Orchestra, uno dei lasciti di un direttore d’orchestra e promotore come Claudio Abbado, scomparso tre anni fa. Un universo familiare, i suoni: «Sono molto eclettico nei miei ascolti, oggi. Riconosco — spiega a “la Lettura” — di essere aperto a tutto, non soltanto a quello che proviene dalla mia società d’origine». E le radici di quest’eclettismo affondano forse proprio all’inizio, a scuola: «Canzoni tradizionali, canti religiosi, musica sociale, comunitaria...».
E a casa?
«Provengo da una famiglia in cui la musica era abba- stanza presente. Mio padre suonava l’harmonium, in chiesa l’organo. Davvero: non esiste un momento della mia esistenza in cui la musica sia stata assente».
Oggi che cosa ascolta?
«Mi piace il jazz, molto. Ma ascolto soprattutto la musica classica. Ho un vecchio grammofono, vecchio vecchio, con un suono gracchiante, e tuttavia continuo a usarlo».
A proposito di famiglia: Fela Kuti (1938-1997), considerato uno dei padri del cosiddetto Afrobeat, era suo cugino.
«Sì, ma il mio gusto è più conservatore. Non amo l’eccesso di ritmo. E devo dire che non sono particolarmente attratto dalla musica popolare di oggi, mi sento più vicino al folk. Non vale solo per il mio Paese. Amo la musica tradizionale di ogni nazione, compresa quella italiana. Mi interessa e sento vicina la musica che si mescola con le esperienze, con le passioni, con la vita».
Nel jazz e nella musica popolare l’improvvisazione ha un ruolo rilevante. È un aspetto che la coinvolge?
«Soltanto quando non diventa esagerata e non arriva a esiti che definirei non musicali».
Anche la musica classica si nutre da sempre delle tradizioni popolari.
«E infatti mi piace quando il folk evolve e riesce a fondersi con la classica e stabilisce una relazione fertile fra questi due aspetti della musica».
Improvvisazione, dunque, ma con metodo e moderazione. Anche nella scrittura?
«Andare a ruota libera può essere appagante ma non deve debordare. Come non deve tradire la musica».
Quand’era bambino c’erano le canzoni di strada, i cori a scuola. Papà suonava l’organo in chiesa. Ha scoperto la forza sovversiva delle note mentre sfidava la dittatura nella sua Nigeria. Ora in certe «sinfonie selvagge» che escono da «un grammofono gracchiante» lo scrittore trova «la stessa forza mitologica del folklore della mia gente». Il Nobel incontra il pubblico a Bolzano prima del concerto dell’orchestra giovanile europea fondata da Claudio Abbado. E a «la Lettura» racconta: la musica è sempre stata con me
Torniamo alla classica. Qual è il canone di Wole Soyinka?
«Amo l’opera. Verdi, Donizetti... E poi i grandi sinfonisti: Brahms, Beethoven, nomi ovvi, ammetto. Poi Mahler, così selvaggio, non so se riesco a spiegarmi: corrisponde al mio senso della mitologia. Ci sono alcune sue sinfonie che hanno una consistenza, un passo religiosi, mitici, che sento molto vicini. Poi Ciaikovskij. E diverse cose di Rachmaninov».
Se pensiamo all’intreccio tra tradizione colta e popolare non possiamo non pensare ai compositori dell’Est europeo...
«Certo, i russi dell’Ottocento, nei quali trovo un temperamento molto simile a quello del folk del quale ho avuto esperienza diretta. E soprattutto ne condividono la dimensione mitica».
Autori contemporanei?
«Direi, tra gli altri, Wynton Marsalis, un amico. Una famiglia di musicisti, la sua. Anche lui sa fondere tradizioni diverse, il jazz, la classica...».
Il «crossover» è dunque per lei davvero il segno musicale dei tempi?
«Non da oggi. Il jazz stesso è ri-creazione di altra musica. Mi ha molto colpito un’operazione come Play Bach (la musica di Bach riletta in chiave jazz dal Trio Jacques Loussier, ndr) ».
Lei ascolta musica quando scrive?
«Non deliberatamente. Se c’è, d’accordo. Ma ho una preferenza per il silenzio».
Abbiamo tutti perso l’abitudine al silenzio?
«Rovescerei la questione: c’è troppo rumore nel mondo. Troppo rumore che pretende di essere musica. Non mi piace il 90 per cento di quello che si sente in giro. Non ho una particolare simpatia per il ritmo, trovo che sia invadente, che si mangi tutto il resto».
Lei ha collaborato con musicisti in diverse occasioni. Nel 1980, per esempio, ha lavorato con Tunji Oyelana per i testi di un disco che irrideva la leadership nigeriana.
«Non solo con lui, peraltro un collaboratore strettissimo. Un paio di miei lavori teatrali sono diventati opere, come A Scourge of Hyacinths, che la compositrice cubana Tania León ha scritto sulla base di un mio testo ( Sa
markand and Other Markets I Have Known, ndr). Altre volte mi sono lasciato coinvolgere, ma non direi proprio che sono un musicista...».
Quanto la musica è presente nelle sue opere?
«È importante in due lavori teatrali, The Beatification of Area Boy (del 1996, ndr) e La morte e il cavaliere del re (1975, pubblicato da Jaca Book nel 1979 in Teatro I e poi riedito nel 1993, ndr), testo dov’è cruciale la musicalità della vita e che dunque è saturo di suoni».
Parole e musica. Inevitabile pensare al Nobel che, trent’anni dopo il suo, è andato a Bob Dylan, un cantautore...
«Io non credo a categorie rigide che definiscano i generi. Tuttavia in questo caso sono diviso fra due atteggiamenti. Da una parte credo che sia possibile attraversare i confini, spingersi al largo... D’altro canto c’è comunque una lista, una lunga lista di scrittori propriamente detti che avrebbero meritato il Nobel prima che si decidesse di andare nella direzione di aprire la letteratura alla canzone d’autore. E tutto sommato propendo per questa seconda attitudine: scrittori-scrittori meritavano più di Dylan».
Nelle parole c’è musica anche quando leggiamo soltanto parole. E ci sono scrittori più musicali di altri.
«I versi di Shakespeare sono musicalissimi, musicalissima è la poesia di Dylan Thomas».
Il discorso vale anche per la prosa, però.
«Certo. Toni Morrison (anche lei premio Nobel nel 1993, ndr) ha uno stile particolarmente musicale e non a caso ha scritto un romanzo che si intitola Jazz ».
Tornando al suo passato di oppositore, di perseguitato e di esule: la musica è uno strumento della politica...
«Lo è, ed è molto importante. Se già la tonalità della voce è importante a modulare i messaggi, e voi italiani questo lo sapete benissimo, a maggior ragione la musica è un contributo essenziale alle varie forme di azione sociale. La musica può sostenere l’opposizione o la sovversione. Nella mia società, per esempio, è stato così. E pensiamo a Barack Obama: mentre si insediava alla Casa Bianca un presidente nero, di origini africane, nel Paese di suo padre, il Kenya, la musica serviva a mettere a nudo l’autoritarismo, le false verità del potere. Come vediamo ora».