Corriere della Sera - La Lettura
Un nome per due (l’altro è mio padre)
Una mattina ha deciso di lavare i pavimenti di casa. Li ha passati ripetutamente con il detersivo per i piatti. Chi è entrato dopo dice di averla trovata che ammirava il suo lavoro piena di orgoglio. Le piastrelle sono rimaste appiccicose per settimane.
Più avanti sono arrivate le conversazioni con i personaggi della televisione, soprattutto un celebre conduttore della Rai e il Papa. Dopo ancora, sono scomparsi i primi nomi. Ero il più giovane dei nipoti, quello con meno ricordi di lei. I pochi che avevo erano di tipo alimentare: un panino con il salame per merenda, i tortelli fatti a mano a Natale. Per questo, forse soffrivo meno degli altri vedendola arretrare piano nella nebbia che la stava prendendo. Mi è dispiaciuto, però, quando nell’ultimo anno ha iniziato a chiamarmi con il nome di mio padre. Cancellato per sempre, il mio. Continuava, nonostante ciò, a riferirsi a lui nello stesso modo. Così, quando eravamo entrambi al suo cospetto, era come se si trovasse davanti un’unica persona, il bambino e l’adulto insieme. Non le sembrava affatto incoerente. A quel punto si era già liberata dei vincoli del tempo, della rigidità di orologi e calendari.
Oggi di lei rimangono degli oggetti: mobili e soprammobili, il soggiorno di una casa che non potrà durare così per sempre, ma che per il momento nessuno ha osato alterare. E dei libri che non le appartenevano, libri delle figlie, libri dei nipoti: Piccole donne, Io,
Paperino e una collana di classici acquistati settimanalmente con i quotidiani. Forse è capitato, nei suoi anni più solitari, che abbia estratto un volume di quella biblioteca casuale e provato a leggerne le prime righe. Se è successo, voglio immaginare che lo abbia fatto con quello che dopo la sua morte ho rubato dallo scaffale e tenuto con me: una raccolta di racconti di Gogol’, dove ho scoperto Il naso e Il cappotto, tutte quelle stranezze dei pietroburghesi che — ne sono certo — a lei non sarebbero sembrate affatto strane.