Corriere della Sera - La Lettura
Se fumo bene sul palcoscenico è merito di Pina Bausch, la mia tata
Intervista La coreografa Cristiana Morganti si è formata e affermata a Wuppertal Ora crea in autonomia: un nuovo lavoro debutterà a Torinodanza in ottobre
Molto tempo è passato da quando Cristiana Morganti disse a Pina Bausch che le ricordava la sua tata. Erano alla Scuola di Essen nell’87 e la Signora del Tanztheater, direttrice artistica della celebre Hochschule di Kurt Jooss, si era avvicinata incuriosita a quell’esuberante italiana, allora ventunenne, per raccontarle quanto somigliasse a una sua danzatrice storica, l’autoironica Meryl Tankard. Uno scambio di battute che poteva sembrare irriverente da parte della Morganti, ma che invece provocò una risata facendo breccia nel cuore dell’autorevole Pina.
Fu allora che, tra i danzatori del Tanztheater Wuppertal, Cristiana si candidò a incarnare — per 18 anni sotto la direzione della coreografa, per 22 nella compagnia fino alle dimissioni nel 2014 — una galleria di femmine materne, sensuali, furiose, ironiche, grottesche, nevrotiche, selvagge. Complici un fisico curvilineo e un viso espressivo dai grandi occhi incorniciato da una criniera leonina di riccioli neri. Nell’albo d’oro di Wuppertal, da Ma
surca Fogo a Nefés, Morganti spicca tra i colleghi, i capelli prensili e selvatici, la sigaretta voluttuosamente aspirata, dettagli che erano tratti distintivi del mondo Bausch e che diventavano parte integrante delle coreografie. «Pina — confessa oggi — mi ha insegnato anche a fumare in scena in modo credibile. A 17 anni avevo visto il suo Viktor a Roma, la folgorante scoperta che esisteva un mondo, lontano dal balletto classico, in cui i danzatori sprigionavano magia pur sembrando persone normali».
Morganti è cresciuta. Il suo presente e futuro scorrono, oggi, lontano da Wuppertal (anche se, curiosamente, si racconta a «la Lettura» proprio in transito dalla città renana). In una seconda vita da coreografa. Dopo Pina.
Il primo spettacolo che ha firmato è stato «Moving with Pina» nel 2010. La Bausch era morta da un anno: è stato il suo modo per elaborare il lutto?
«Sicuramente sì. è nato da una masterclass teorica sul- Moving with Pina l’espressionismo per l’Accademia Nazionale di Danza di Roma nel 2003 che proprio la Bausch mi aveva incoraggiato a tenere, suggerendomi di spiegare agli allievi alcune frasi coreografiche del suo Sacre du Printemps. Quando Pina morì, mi chiesero di renderle omaggio. Fu così che utilizzai quella lezione integrandola con altri argomenti, dall’uso del gesto alla genesi di alcuni estratti. Li ho condivisi con il pubblico. L’universo di Pina è stato a lungo inaccessibile. Oggi mi rendo conto che i ragazzi conoscono il suo nome e poco più. Perciò è importante tenere viva la memoria».
Pina Bausch creava i propri lavori utilizzando materiali coreografici ed esistenziali proposti dai danzatori che lei sollecitava con interrogativi. Oltre a ciò, sosteneva la creatività dei suoi danzatori come autori autonomi?
«No. Se un danzatore esprimeva l’esigenza di lavorare per proprio conto lo incoraggiava se ciò era conciliabile con gli impegni. Non permetteva, in alcun modo, che lavorasse con altri coreografi. Nel mio caso, sentiva che ero una brava pedagoga e mi ha sempre incoraggiato a insegnare. A Pina non interessava la pedagogia, prendeva in compagnia danzatori già formati. Come diceva Wim Wenders, ti leggeva dentro e ti costringeva a essere autentico».
Dunque, la sua sfida come coreografa è valorizzare l’esperienza con la Bausch trovando però un’identità autonoma…
«Sì, quando ho iniziato a lavorare a
Jessica and me, il mio secondo spettacolo, sentivo ancora incombere l’ombra di Pina. Credo, però, di essere riuscita a creare un mio universo espressivo, con ironia. Jessica and me è nato nel 2014, in un momento importante: mi ero dimessa dal Tanztheater Wuppertal dopo 22 anni e volevo capire chi ero, investigare meccanismi e trappole del teatro. È diventato un viaggio nel passato dove ho rincontrato un personaggio che mi ero inventata da bambina, Jessica Bayer, un alter ego che mi intervistava. Da qui il titolo dello spettacolo, un gioco di sdoppiamento con un’altra me. Ho vissuto una doppia vita, tra Italia e Germania, danza classica e Tanztheater, la voglia di recitare nonostante non abbia fatto l’attrice…».
I nuovi lavori erano costruiti da Pina Bausch attraverso un processo creativo lungo e complesso. Lei è più istintiva? E come procede la sua creazione per Aterballetto che debutterà a Torinodanza in ottobre?
«È vero, l’attesa era una costante con Pina. Passarono anni prima che Wenders, seduto pazientemente in un caffè di Wuppertal, la convincesse a girare il film Pina, incuriosendola con il 3D. Un aspetto che mi accomuna al filone di cui Pina Bausch è capofila è che mi interessa molto capire i danzatori. Quando inizio una creazione, parto da temi precisi, non vincolanti, con una scelta di musica vastissima. Con A Fury Tale, il mio terzo spettacolo dove sono in scena solo per due flash, mi sono ulteriormente allontanata da Pina. Volevo esplorare l’emozione della rabbia, che può essere distruttiva ma anche fonte di energia creativa. Davanti alle due interpreti, così simili e speciali fisicamente, alte 1,81, rosse di capelli e pallidissime, è stato inevitabile tornare al tema del doppio, da cui sono passata al mondo delle fiabe, magma di emozioni, lavorando con due maschere da volpe, animale assimilabile alla donna nella mitologia. Mi piace rischiare come per la creazione per Aterballetto che debutterà a Torinodanza: i danzatori sono duttili, ma così lontani dal mio stile. Stiamo mischiando folclore, danza africana, classica, contemporanea per risvegliare una sensazione di confusione che riflette il caos che percepisco oggi nel mondo».
Quale sfida si pone oggi per il Tanztheater Wuppertal?
«La grande scommessa, ora, è far vivere il repertorio Bausch con danzatori che non hanno mai lavorato con Pina. Questa stagione sarà la prima a ospitare creazioni di altri coreografi. Per Wuppertal inizia una nuova era».