Corriere della Sera - La Lettura
Le nuove secessioni
Stati Uniti Il romanzo di un debuttante («American War»), un dibattito per nulla strampalato sulla «Bluexit» (l’uscita degli Stati democratici e clintoniani), una serie tv ambientata in un Paese spaccato tra bianchi e neri («Black America»). Trump rinfoco
Aprile 2075: gli Stati Uniti sono stati travolti da una seconda guerra civile, che ha spaccato nuovamente il Paese in nordisti e sudisti. Le analogie con la guerra di Secessione del 1861-65 sono molte, ma questa volta la schiavitù non c’entra, il pomo della discordia è il riscaldamento globale: l’innalzamento delle acque sta fagocitando le coste del Paese e il governo federale ha vietato l’utilizzo dei combustibili fossili, inducendo gli Stati del Sud a istituire una nuova nazione nei territori di Mississippi, Alabama, Georgia, South Carolina e quel che rimane della Florida.
È l’ambientazione di American War, romanzo di debutto di Omar El Akkad, in uscita in Italia il prossimo 12 ottobre per Rizzoli. Autore canadese di origini egiziane, El Akkad ha lavorato per anni come inviato in Afghanistan e a Guantanamo, e si vede: American War abbonda di descrizioni realistiche delle sofferenze che solo chi ha visto la guerra da vicino può conoscere. Ma non è tanto questo a rendere il romanzo attuale, quanto il fatto che nella lotta tra forze «rosse» e forze «blu» descritta da El Akkad riverbera una spaccatura reale.
Lo scorso 9 marzo, lo storico e giornalista Kevin Baker ha pubblicato sulla rivista «New Republic» un lungo articolo intitolato Bluexit, in cui proponeva che gli Stati blu (democratici) che avevano votato per Hillary Clinton nelle elezioni di novembre, si preparassero a separarsi da quelli rossi (repubblicani), rei di aver consegnato il Paese nelle mani di Donald Trump.
Per certi versi, sembra la traslitterazione in chiave americana degli slogan leghisti di metà anni Novanta: «Gli Stati rossi sono quasi due volte più dipendenti dal governo federale rispetto a quelli blu», scrive Baker, sottolineando come nelle 487 contee che hanno votato per Hillary Clinton si svolgano almeno due terzi dell’attività economica del Paese. «Saremo ancora parte degli Stati Uniti, almeno sulla carta. Ma volgeremo le spalle al governo federale con ogni mezzo possibile e sfrutteremo le nostre sudate risorse per il bene delle nostre città e dei nostri Stati».
Voleva essere una provocazione. Elitista e sommaria magari, persino reazionaria per certi versi, ma comunque una provocazione; eppure alcuni l’hanno presa sul serio: nei giorni seguenti sono comparse ovunque lunghe dissertazioni che si impegnavano a smontare l’ipotesi dal punto di vista legale, etico e politico; non più tardi del mese scorso, poi, Baker è stato invitato dall’emittente Msnbc ad argomentare in difesa della sua idea di «secessione virtuale».
L’ipotesi secessione, del resto, viene sbattuta sul tavolo più o meno a ogni tornata elettorale: qualcuno ricorderà la petizione firmata da centomila cittadini texani, nel novembre del 2012, per chiedere a un Barack Obama fresco di riconferma di lasciare che lo Stato della stella solitaria uscisse dall’Unione.
E infatti American War non è un caso isolato. Il panorama culturale odierno è costellato di storie apparentemente visionarie che sono in realtà il sedimento di una crisi in atto, una guerra civile «fredda», sotterranea, che si consuma già oggi nel privato delle case, delle sedi di partito, delle associazioni indipendentiste, andando a esercitare una pressione sempre più concreta sulle stesse crepe attraverso cui Trump si è insinuato per impadronirsi del Paese.
Prendiamo Black America, una nuova serie tv appena annunciata da Amazon e ambientata in un’America letteralmente divisa tra bianchi e neri: alla fine della guerra di Secessione, agli afroamericani è stato consentito di creare una nazione indipendente, chiamata New Colonia, che accorpa Mississippi, Louisiana e Ala- bama. Black America racconta della difficile relazione tra questo nuovo Paese e i restanti Stati Uniti, all’ombra di una lunga storia di barbarie e sfruttamento.
Tecnicamente, si tratta di un’ucronia: la popolazione afroamericana non ha mai ricevuto alcuna forma di risarcimento per gli oltre 200 anni di schiavismo, figurarsi una nazione autonoma. Eppure anche in questo caso gli elementi di risonanza con la realtà sono molteplici.
I primi fermenti del cosiddetto «separatismo nero» si possono individuare già all’inizio dell’Ottocento, quando il leader panafricanista Marcus Garvey patrocinò la necessità di un totale «reimpatrio» della popolazione nera nel neonato Stato africano della Liberia. Nel 1865, dopo la firma del XIII emendamento, che sanciva l’abolizione della schiavitù, l’idea attrasse un numero ancora maggiore di sostenitori, sia tra chi riteneva impossibile integrare milioni di schiavi liberati nel tessuto sociale americano, sia tra chi rivendicava un risarcimento in forma di terre autonome. L’idea di una «nazione nella nazione» sopravvisse anche durante il Novecento; lo stesso Malcolm X, negli anni Cinquanta, ventilò l’ipotesi di costituire una provvisoria «nazione nera», in attesa di un futuro «ritorno» in Africa.
Nel luglio 2016, in seguito all’omicidio di Philando Castile a opera di un agente della polizia di St. Anthony, Minnesota, mentre in tutto il Paese la gente marciava in segno di protesta, i vertici di un gruppo estremista chiamato New Black Panther Party chiesero al governo federale la consegna di Louisiana, Georgia, South Carolina, Mississippi e Alabama al popolo afroamericano.
Naturalmente, con l’ elezione di Trump, la temperatura si è ulteriormente alzata. Negli ultimi mesi, un movimento chiamato Blaxit, al grido di «portiamoci via i nostri 1.200 miliardi di potere d’acquisto», ha rimesso al centro della discussione la possibilità per il popolo afroamericano di emigrare in massa ver- so Paesi (come Angola, Kenya e Nigeria) che non abbiano fondato la propria ricchezza sullo schiavismo e in cui i neri non vengano quotidianamente discriminati. Ma siccome ogni crepaccio ha due sponde, l’hashtag #Blaxit è stato prontamente adottato anche da quei suprematisti, di cui tanto si parla in queste ore, che sognano un’America totalmente bianca.
Nel frattempo, il vento separatista soffia sempre più forte anche nei singoli Stati. Non è una novità, se consideriamo che, storicamente, gli Usa hanno più movimenti separatisti che stelle nella bandiera: ci sono partiti indipendentisti in Alaska, in Vermont, in New Hampshire, in Maine, alle Hawaii e naturalmente in Texas; gli attivisti Sioux si battono da tempo per la costituzione di una nazione che riunisca i territori dei nativi Lakota; la League of the South ancora spera nel ritorno degli Stati confederati; il New England Independence Movement ha coniato lo slogan #NExit; mentre a nordovest c’è chi vorrebbe unificare i confini di Oregon, Washington e della British Columbia canadese in un’avveniristica repubblica progressista ed ecologista chiamata Cascadia.
Ma se è vero che le velleità secessioniste sono organiche alla storia degli Usa, è anche vero che da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca alcuni Stati sembrano davvero sul punto di recintare i confini. Uno su tutti: la California.
Il primo scossone c’è stato nelle settimane iniziali della nuova amministrazione, quando Trump ha annunciato di voler chiudere i rubinetti federali per le cosiddette «città santuario» (come San Francisco, Los Angeles e Berkeley), che hanno da tempo deciso di limitare la propria cooperazione con il governo federale in tema di lotta all’immigrazione. Per tutta risposta, ad aprile, il Senato californiano ha approvato una misura per estendere la tutela degli immigrati all’intero territorio statale. La seconda stoccata è arrivata poi a giugno, quando Trump ha confermato l’uscita degli Usa dagli accordi di Parigi sul clima: in totale controtendenza con Washington, il governatore Jerry Brown ha firmato un accordo in cui California e Cina si impegnano a cooperare per la riduzione delle emissioni.
Nel frattempo, l’associazione indipendentista California Freedom Coalition si sta mobilitando per raccogliere le 585.407 firme necessarie a indire un referendum per eliminare dalla Costituzione californiana la parte in cui lo Stato viene definito «inseparabile» dal resto degli Usa. Praticamente una lotta contro i mulini a vento, considerando che un’eventuale «Calexit» dovrebbe incassare il voto favorevole di due terzi delle camere (o di 38 parlamenti statali). Quello che è certo, è che la California si è ormai candidata a diventare il baluardo della resistenza anti-Trump.
Lo scorso 12 luglio è uscito il primo volume di un fumetto intitolato Calexit, ambientato in un futuro prossimo in cui gli Stati Uniti sono sotto legge marziale: il nuovo autocratico presidente ha firmato un ordine esecutivo per imporre la deportazione di tutti gli immigrati, la California ha reagito proclamandosi «Stato santuario» e dichiarando di fatto guerra al governo federale.
Ancora una volta, si fa sempre più fatica a definirla fantascienza.