Corriere della Sera - La Lettura

Ombre su un matrimonio

Siamo ad Amalfi come sposini in luna di miele Ma qui qualcosa sembra andare storto

- di PAOLO GIORDANO

«Amo i tuoi spigoli, li conosco uno a uno», dice lui. «Uno a uno», ripete lei. «Tutti», ribatte lui. «Allora che cosa ci facciamo ancora qui?», domanda lei. «Cominciamo a invecchiar­e insieme, presumo», prova a concludere lui. «Quello potevo farlo anche da sola», sentenzia lei. Ci sono indizi di malinconia in questa vacanza che dovrebbe festeggiar­e il quinto anniversar­io di nozze. Sesso e malinconia. Finché dietro il buffet della colazione spunta un’attrice, che lui ha incontrato da poco. Ma non lo dice alla moglie

Ci parlano in inglese. Danno per scontato che siamo stranieri. Concierge, camerieri, baristi, il signore dell’edicola e il vigile che regola il traffico alla rotonda. Se rispondo in italiano si mostrano infastidit­i, come se li avessi smascherat­i nei loro modi distratti, spicci, talvolta brutali. Forse è a causa del mio cappello di paglia, oppure è l’aria da luna di miele, frivola e inevitabil­e, che contagia ogni coppia non appena arriva qui.

L’albergo si trova all’estremità del golfo. Secoli fa era un convento. Il chiostro è diventato un bar con tavolini ad altezza delle ginocchia e piante grasse maestose, le celle delle monache sono state convertite in stanze matrimonia­li. Stanze semplici, non «spartane» come le definisce mia moglie. Nel tragitto deve avere allungato lo sguardo verso certi hotel più invitanti della costa.

La prima cosa che faccio nella stanza di Amalfi è di entrare nel bagno cieco e controllar­e allo specchio il pelo bianco che qualche giorno fa mi è comparso al centro del petto, il primo in assoluto. È ancora lì, non ce ne sono altri.

Tardo pomeriggio. Dalla prospettiv­a del letto si vede il mare oltre la porta-finestra, una striscia che a quest’ora è di un blu più spento del cielo, un blu minaccioso. Facciamo la doccia a turno, poi l’amore. Per tutto il tempo rimango in allerta, distratto dal pensiero del cameriere con il parrucchin­o che abbiamo visto aggirarsi di sotto, dall’impression­e che sappia esattament­e che cosa succede qui, perfino come. E ho in mente la telefonata di poco fa al ristorante: mi hanno avvertito che dopo quindici minuti di ritardo avrebbero dato via il tavolo. Calcolo quanto impieghere­mo a prepararci, stabilisco il minuto esatto in cui dovrò in- calzare mia moglie per rispettare il quarto d’ora accademico.

Per fortuna siamo puntuali. La terrazza è graziosa, romantica se non si bada alla calca. Valeva la pena di affrettars­i. Ci portano i menu in inglese e stavolta decidiamo di stare al gioco, ordiniamo come due stranieri, pronunciam­o «mozzarella» smussando la erre. Brindiamo con del Fiano di Avellino al nostro anniversar­io, il quinto, sarebbe domani ma perché non festeggiar­lo anche stasera, e no, non sembrano affatto cinque anni, ci divertiamo ancora insieme, non è così? Mentre assaporo il microscopi­co «benvenuto dello chef» realizzo che ciò che mi piaceva di mia moglie all’inizio continua a piacermi, ma adesso mi piacciono anche cose che prima tolleravo a malapena. Per esempio che si ostini a bere dal mio calice, lasciando sul cristallo un sentore di olio abbronzant­e. Per esempio quando domanda al cameriere l’entità della porzione di scialatiel­li per poi chiederne una più scarsa, precipitan­dolo nel dubbio (vorrà pagare di meno?).

In un impeto di tenerezza glielo confesso: «Amo i tuoi spigoli». E poiché la frase non suscita lo stupore che speravo, insisto: «Ormai li conosco uno a uno». «Uno a uno», ripete lei, soppesando le parole. «Tutti, alla perfezione». «Allora che cosa ci facciamo ancora qui?», mi domanda maliziosam­ente. «Cominciamo a invecchiar­e insieme, presumo». Solleva il tovagliolo come se volesse alzarsi, lo lascia ricadere sulle gambe. «Quello potevo farlo anche da sola».

Collego la sua malinconia improvvisa al sesso di prima. «Insipidezz­a» è la parola che mi viene in mente, ma non sono sicuro che esista, dovrò controllar­e più tardi. Comunque non ne parleremo. Non parlia- mo volentieri del sesso. C’è un pudore tra di noi, soprattutt­o in lei. Conosco bene anche quello.

«Non è il senso del matrimonio?», dico con una voce appena troppo squillante. «Arrivare a conoscersi interament­e, al cento per cento, finché è sparita anche l’ultima ombra?».

Continua a piluccare la crosta del pane senza sfiorare la mollica. Sempre qualcosa che non va nella mollica. «Sarà», dice.

Per un po’, abbastanza a lungo, ascolto lo scricchiol­io sabbioso delle vongole sotto i denti. Non mi lamenterò con il cameriere: lamentarsi della sabbia nelle vongole mi sembra proprio il genere di reazione che ci si aspetta da me in questo ristorante, su questa terrazza.

Al dolce ci sciogliamo. Emettiamo una condanna definitiva nei confronti del ristorante, elaboriamo un commento graffiante per TripAdviso­r, anche se non avrò il coraggio di scriverlo. Paghiamo e passeggiam­o per il borgo, in piazza, fra i tavoli all’aperto, al cospetto della chiesa con il frontone dorato, tra i negozi di souvenir, fino a quando la via si smarrisce nella periferia residenzia­le, quindi lungo il molo, dove i ragazzini si appartano per baciarsi.

Torniamo all’hotel-convento tenendoci per mano, silenziosi. C’è una dolcezza nell’aria, avvolgente come un odore, suadente, qualcosa di cui si sta accorgendo anche lei. Ma in stanza ci attardiamo nelle procedure della sera. Lei rimane troppo a lungo sul terrazzino, dove la rete 4G funziona meglio. Quando torna dentro mi sono assopito. Faccio in tempo a vederla tra le palpebre semichiuse, in piedi, in biancheria, il cellulare ancora in mano. Sembra delusa.

Ma la mattina. Oh, gloria della mattina! Gloria degli alberghi a picco sul mare! Ci svegliamo all’unisono, poi non ci muoviamo dal letto. Il vigore ritrovato, e la passione, sì, la passione, come se fosse rimasta nascosta in un sogno che abbiamo avuto in comune. Ancora nudo, mi affaccio al terrazzino. Una colonna di fumo si leva da una gola della scogliera. Un Canadair fa la spola tra quel punto e il mare. Lo osservo per un po’, rosso e giallo, sembra un giocattolo. Si dice che i piromani diano fuoco ai gatti e poi li lascino scorrazzar­e per i boschi secchi, ma forse è una leggenda. La luce del sole non ha ancora inondato il centro di Amalfi e noi siamo già così sazi. Scendiamo per la colazione: uova e pancetta fritta e marmellata sul pane e cornetti ripieni di crema allo zabaglione. «C’è quell’attrice», dice mia moglie. Seguo il suo sguardo pigramente. Dopo un rapporto andato a buon fine i miei movimenti assumono sempre una lentezza particolar­e. «Già», dico voltandomi di nuovo. «Chissà cosa ci fa qui da sola». Scrollo le spalle. «Sarà venuta per lavoro». «Non l’avevano provinata per la tua serie?». «Non mi pare». «Sono anni che non la vedo in un film. Forse dovresti salutarla».

Una decina di minuti più tardi, mentre mi sto lavando i denti, mi domando perché ho mentito: perché non ho ammesso di conoscere l’attrice e che sì, era stata provinata per la serie, anzi era rimasta in corsa fino all’ultimo. Perché ho omesso di averla incontrata appena qualche mese prima a una festa a Trastevere. In quell’occasione avevamo parlato e lei era stata molto gentile e compliment­osa nei miei riguardi. In ascensore ho finto perfino di non ricordarmi il suo nome.

«Vorrei vedere Positano», annuncia mia moglie dalla stanza. «Sei sicura? È un po’ finta». «E allora?». Alla reception aspetto le chiavi della macchina. C’è di nuovo l’attrice, sta chiedendo informazio­ni sugli aliscafi. Resto alle sue spalle, indeciso se farmi avanti, forse inibito dal pensiero che sia lei a non ricordarsi così facilmente di me. Il prendisole lascia vedere le rotondità gemelle delle natiche, perfette, come se tenesse i muscoli contratti mentre se ne sta appoggiata con i gomiti al bancone, guardando gli orari delle barche. Solleva un piede e lo fa dondolare, il sandalo infradito rimane appeso all’alluce, in equilibrio precario. Sulla nuca ha un tatuaggio: tre numeri romani che non riesco a tradurre. Alla festa non li avevo notati.

«Ci siamo?», domanda mia moglie, d’un tratto molto vicina.

«Sto ancora aspettando le chiavi. Non ti ho sentita arrivare».

La litoranea per Positano è scavata nella roccia, tortuosa, strettissi­ma. Dal senso di marcia contrario le automobili arrivano a tutta velocità, puntano dritto per la tangente come se volessero venirmi addosso, poi inchiodano all’ultimo secondo. Passiamo accanto a una fila di macchine parcheggia­te malamente, i passeggeri scesi per fotografar­e l’incendio che dev’essere divampato poco più in basso, lo stesso che vedevo dalla stanza. La tensione della guida favorisce la concentraz­ione e io mi ritrovo a pensare all’attrice, con un’accuratezz­a notevole. Rivedo la curva delle spalle sotto il tatuaggio, le scapole sporgenti e la stoffa che non aderisce ai fianchi sottilissi­mi. Mia moglie dice: «Stai più di lato, per favore».

La ricerca del parcheggio è infernale. Dopo essermi incastrato su un tornante con un autobus mastodonti­co che non era disposto ad arretrare di un metro, dopo aver ripetuto la stessa manovra in retromarci­a una decina di volte senza guadagnare un millimetro e dopo che l’autista dell’autobus, pieno di degnazione, si è messo a spiegarmi a gesti come fare, ho i nervi a fior di pelle. Mi arrendo a lasciare la macchina dove nel migliore dei casi la troverò con una multa, e nel peggiore sventrata.

A Positano tutto mi infastidis­ce: i disegni eccessivi, nauseanti delle ceramiche, la procession­e sotto le buganville­e intrecciat­e, i limoni grandi come palloni da rugby, le caramelle al limone, le candele al limone, i decori a forma di limone, tutta l’insistenza grottesca sui limoni. Mia moglie dice che è il posto più bello

È il nostro anniversar­io di matrimonio, il quinto, ancora per pochi minuti. Cerco di vederle gli occhi, so che ci sono lampi nei suoi occhi. Ma è troppo buio in questo mare profondo in cui nuotiamo. Non li riconosco

che abbia mai visto.

«Ma non ti sembra di procedere su un binario obbligato? Come in quelle case dell’orrore al luna park?».

«Di che cosa stai parlando esattament­e?», ribatte con un’espression­e di innocenza limpidissi­ma. «Di qui, di questo posto! Di cosa sennò?». Stringe le spalle, si sporge verso una vetrina. «Per un attimo mi è sembrato che intendessi altro».

Compriamo un caftano a fiori stampati e un braccialet­to di corallo che disperderà tutte le palline in meno di settantadu­e ore. Dopo pranzo scendiamo in spiaggia. Nuoto fra l’affollamen­to di barche, abbastanza al largo. Da lì, devo ammetterlo, Positano sembra un gioiello in un castone. Ci corichiamo bagnati sullo stesso asciugaman­o. La prossimità dei corpi, il calore aggressivo del sole risveglian­o la sensualità della mattina. Appoggio una gamba sopra la sua come farebbe un adolescent­e, le solletico il collo con la barba poi scendo verso il seno. Esagero un po’, di proposito. Lei si protegge guardando attorno, mi tiene a bada con delicatezz­a.

Ho portato con me il romanzo di uno scrittore americano morto da un paio d’anni. Un romanzo erotico. Vogliono farci un film, dovrei pensare a un adattament­o sensato, ma finora non mi sono deciso ad affrontarl­o. In genere la letteratur­a erotica mi induce uno stato d’ansia. Ma sulla spiaggia di Positano leggo il romanzo e mi cattura, qua e là mi provoca perfino dei momenti di eccitazion­e che devo dissimular­e. Il protagonis­ta americano passa tutto il tempo chiuso in una stanza d’hotel con una ragazza francese. Hanno poco più di vent’anni e una sfrenatezz­a agonistica. «Allora scriverai il trattament­o?». «Per ora gli do un’occhiata». Leggendo, mi distraggo al pensiero dei miei vent’anni. Sceglievo accuratame­nte la musica adatta prima del sesso, di solito i Portishead o i Massive Attack. Adesso mi sembra che ci fosse qualcosa di sbagliato in quell’attenzione alla colonna sonora. La mia ragazza dell’epoca era timida, non osava opporsi. A volte mi chiedeva di abbassare un po’ il volume.

Al ritorno veniamo fermati, pochi chilometri fuori Positano, lungo la litoranea stritolant­e. I vigili costringon­o le automobili a fare inversione, una per volta. Quando abbasso il finestrino una zaffata di bruciato invade l’abitacolo e non ho più bisogno di sapere qual è il problema. «Devo tornare ad Amalfi». «È lunga, non le conviene». «Ma non ho scelta». «Allora deve passare da Sorrento. Poi Castellamm­are e Agerola». In pratica: da Napoli. In pratica: dietro le montagne. Quando il navigatore corregge la durata del percorso, dopo innumerevo­li ricalcoli, la mezz’ora iniziale si trasforma in due ore. Colpisco il volante con un pugno. «Cosa c’è?». «Guarda!». Indico il nuovo orario di arrivo sullo schermo. «Non riusciremo neanche a cenare. Il giorno del nostro anniversar­io!».

Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro, ma non riesco a trattenerm­i: «Tutto perché ti sei fissata sulla costiera».

Arriviamo ad Amalfi stremati. Troviamo posto in uno dei ristoranti più turistici. Il cibo è mediocre, il conto assurdo. Mia moglie si è trincerata nel mutismo, oppure ho cominciato io, non ne sono sicuro. Tornando all’albergo cammino davanti. Sono pronto ad andare dritto in camera, sono pronto a voltarmi verso la parete e dormire, ma passiamo accanto al chiostro del convento e a quell’ora è magnifico. In un angolo svetta il cactus enorme, gli archetti a sesto acuto sono illuminati uno per uno, discretame­nte. E c’è l’attrice, seduta da sola, le gambe poco abbronzate, strette come se non volesse occupare troppo spazio. «Possiamo almeno bere qualcosa qui», propongo. Punto al tavolino dal quale potrò vederla. Mi siedo prima di mia moglie. Sono guidato da un calcolo preciso, ma l’intenziona­lità non genera alcun senso di colpa, è un’intenziona­lità così astratta da non avere alcun rapporto con la realtà di questa gita romantica sulla costiera amalfitana.

Il cameriere impiega una vita a comparire con le ordinazion­i, non mi dispiace. La mia disposizio­ne d’animo è di nuovo buona. Avviamo una conversazi­one lieve, quasi dimentichi della tensione di poco fa, delle curve cieche sul dirupo e della cena schifosa. Spio l’attrice con regolarità. La guardo concentrar­si ancora a lungo sullo schermo del telefono, poi metterlo via e d’un tratto, con una deliberate­zza che mi toglie il fiato, alzare gli occhi proprio verso di me e fissarmi intensamen­te, come restituend­omi in una dose unica le occhiate che ho distillato per lei. Eccolo, il contatto visivo. Si ricorda di me oppure no? In ogni caso, il suo sguardo contiene un messaggio preciso, quello con cui due estranei si dicono senza dirlo che da lì in poi le cose potranno andare avanti in un certo modo.

Si alza. Mi chiedo come giustifich­erò a mia moglie l’omissione della mattina, ma l’attrice non viene verso di noi. Lentamente, molto lentamente, esce dal chiostro. Si ferma sotto il portico, prende di nuovo il telefono dalla borsetta e si mette a digitare qualcosa, in piedi, di spalle.

«È davvero molto bella», commenta allora mia moglie, senza voltarsi, come se anche lei l’avesse osservata per tutto il tempo da uno specchio.

Per qualche ragione mi viene da cercare con le dita il pelo bianco fra le asole della camicia. «Come?». «Ho detto che è davvero carina», scandisce. Ha posato il bicchiere sul tavolo. Mi osserva in modo strano, come se qualcosa di me la incuriosis­se. «E allora?». «Forse dovresti andare da lei». Ridacchio. «A fare cosa?». «Non lo so. A presentart­i magari». Scuoto la testa di fronte a una sciocchezz­a simile. «Credi che una come lei sarebbe interessat­a a uno come me?». «Davvero non potrebbe?». Unisce le mani, un gesto che fa molto di rado, di solito quando è molto felice oppure molto arrabbiata. Conosco i suoi gesti. Tutti.

«Ascoltami», dice. «È da quando siamo partiti che hai quest’aria tormentata. Il momento in cui ci siamo seduti qui è stato il primo in cui sembravi tu. Perciò puoi andare da lei se vuoi, te lo permetto».

«Allora vado, certo!», ma la voce esce più nervosa che divertita. Al contrario di quella soave di mia moglie quando aggiunge: «Non aspetterà all’infinito dietro quella colonna».

Poi c’è un intervallo in cui non succede nulla. Fisso il piano del tavolino mentre delle immagini confuse, tremende ed eccitanti, mi passano davanti agli occhi. Nel frattempo sono cosciente dell’attrice in piedi sotto il portico e di mia moglie, più vicina, che mi guarda. Infine lei dice: «Vado su. Sono stanca». «Vengo con te». «No. Finisci il tuo drink con calma». «Arrivo subito allora. Ci metto poco». Un attimo dopo si è alzata sul serio. Sul serio è uscita dal chiostro, ha preso le chiavi della stanza dalla cassetta portachiav­i e si è allontanat­a, non dalla parte dove si trova la ragazza bensì da quella opposta, una variazione che la costringer­à a fare un giro più lungo per raggiunger­e gli ascensori.

Ancora dopo, l’attrice è seduta al suo posto e stiamo evocando la sera in cui ci siamo conosciuti ed entrambi ricordiamo le nostre battute esatte e lei beve il vino frizzante avanzato da mia moglie e alla fine fa una smorfietta impudente, deliziosa. Non parliamo della serie da cui è stata scartata. Non mi domanda se sono sposato né della ragazza che era qui poco prima. Io non le domando perché è ad Amalfi da sola e perché negli ultimi anni abbia recitato in così pochi film. Sappiamo entrambi che il motivo per cui siamo seduti qui è diverso, non c’entra con i convenevol­i né con il lavoro, è molto più urgente di così, è come un sospeso che prima non sapevamo di avere. L’unica domanda che ha senso la pronuncia lei: «Allora vieni su?».

Ci baciamo dentro l’ascensore, contro la parete dell’ascensore. Un corpo inesplorat­o, dopo tanto di quel tempo! Grazie al cielo, la stanza si trova a un piano diverso dalla nostra. Lungo il pavimento del corridoio c’è una fila di mattonelle dipinte, i soliti ghirigori giallo limone, ci trascina come un tappeto scorrevole fino alla porta, una porta identica a quella della nostra camera, così come l’interno è identico, i comodini, le lampade sopra i comodini. Si vede lo stesso mare al di là della finestra. Forse ci troviamo nella stanza esattament­e sotto. «Ci metto un attimo», dice entrando in bagno. Attraverso la porta chiusa mi domanda se ho con me qualcosa. Non capisco la domanda. «Qualcosa?». La mia incomprens­ione la fa ridere. Per fortuna è organizzat­a, dice.

Ma certo: qualcosa. È che sei disabituat­o, penso. Ma è come se fosse stata pronunciat­a una parola chiave, la parola con cui l’illusionis­ta sveglia la cavia dall’ipnosi. Qualcosa. Il presente in cui mi trovo diventa reale: è reale la donna che sta per uscire dal bagno e sono reale io, in sandali di cuoio, in una stanza che assomiglia soltanto a quella dove dovrei essere. Allora apro la porta, non quella del bagno, bensì quella d’ingresso, ed esco con una specie di balzo ridicolo, come se non potessi più calpestare le piastrelle. Cammino in fretta, guidato dalla corsia dei disegni a terra. C’è qualcosa di molto sbagliato, di molto sinistro in un uomo che scappa nella direzione opposta a quella del suo desiderio?

Non posso aspettare l’ascensore, quindi salgo le scale. Per la prima volta, sotto le lampade che spandono una luce fioca, mi sembra di vedere il convento com’era un tempo, quando le monache uscivano nel cuore della notte, solitarie e piene di ritegno. Frustrate.

Raggiungo il terzo piano. Rimango a lungo davanti alla porta della stanza. Respiro a fondo. Mi decido a bussare. «È aperto», dice la voce di mia moglie. Identica, sì, la camera è identica. Cambia soltanto la valigia poggiata a terra. Lei è sdraiata sul letto, la lampada da comodino accesa accanto. Sta sfogliando una rivista.

«Potremmo mettere della carta da parati in soggiorno, che ne dici? Una simile a questa».

Gira la rivista a mio favore. Distinguo a malapena la foto. A settembre le viene sempre voglia di fare qualche modifica all’appartamen­to. Sono ancora in piedi. Lei tocca la metà vuota di letto per invitarmi. «Stai bene? Sei pallido».

Possibile che non le passi per la testa quello che è successo sotto? Oppure lo sa e vuole portarmi a confessare?

Mette giù la rivista, folgorata da un’idea. «Andiamo a fare il bagno!». «È notte». «E allora? Andiamo a fare il bagno, dài! L’acqua sarà caldissima». Scatta in piedi, mi prende per mano. «Muoviti!». Sempre per mano mi guida fuori, lungo il corridoio del convento, giù per altre scale, accanto al chiostro dove adesso le luci sono tutte spente, sul ciglio della strada che non ha marciapied­e, accanto ai ciuffi selvaggi dei capperi che esplodono dalla roccia. Arriviamo alla spiaggia, proseguiam­o fino alla linea bianca e mobile della schiuma. «Non ho il costume», dico. «Ma che importa?». Si spoglia prima di me e io non posso che fare lo stesso. Ci immergiamo insieme, cautamente, un passo alla volta sui ciottoli arrotondat­i e umidi. L’acqua diventa profonda quasi subito, nuotiamo.

Mi ha lasciato da solo nel chiostro. Sono stato via per poco, ma non per pochissimo. Sapeva quello che poteva succedere. Oppure sapeva che non sarebbe successo?

Siamo nudi. Stringe le gambe intorno alla mia vita, sott’acqua. Preme sui fianchi con le cosce e si lascia andare all’indietro, le braccia larghe, i capelli scuri che galleggian­o come una raggiera di anguille minuscole. È il nostro anniversar­io di matrimonio, il quinto, ancora per pochi minuti. Sulla montagna, i bagliori vividi dell’incendio, piromani in azione nel fitto della boscaglia. Cerco di vederle gli occhi, so che ci sono lampi nei suoi occhi. Ma è troppo buio. Non li riconosco.

 ??  ??
 ?? ANGELO RUTA ?? LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DI QUELLE SUCCESSIVE SONO DI
ANGELO RUTA LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DI QUELLE SUCCESSIVE SONO DI
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy