Corriere della Sera - La Lettura

Il segreto dei nonni sul mare di Sanremo

- Di SILVIA AVALLONE

Era l’estate del 1994, mi hai strappata dal cortile del centro ricreativo, mi hai sottratta alla città. Siamo saltate in macchina come dive del cinema e corse verso la Riviera. A fare cosa? Che cosa c’era di così urgente? Poi, una mattina, mi hai passato il telefono...

Era l’estate del ’94. Mamma si trovava al lavoro, papà anche, e io me ne stavo parcheggia­ta al centro estivo, dentro il cortile della scuola, a modellare animali di pongo. Ogni tanto un matto, o un anziano rimasto solo, si fermava di là dalle grate del cancello a guardarci giocare. Solo questo era rimasto in città, afa e negozi chiusi. Finché una mattina di luglio ti sei presentata tu, sandali e vestito a fiori, e con un gesto secco della mano mi hai ordinato: avanti, raccogli le tue cose.

Non ti conoscevo. Eri la bella signora dai capelli grigio-azzurri che si materializ­zava a Pasqua e a Natale; la nonna di Milano. Del nonno sapevo ancora meno: un uomo brusco con gli occhiali, una pila di giornali, il completo grigio. Io ero la nipote «provincial­e».

Mi hai strattonat­o, quella mattina, perché non sapevo bene se seguirti oppure no, ma tu non avevi tempo da perdere. Mi hai aperto la portiera dell’Alfasud, lucida come uno specchio. Non avevo mai visto una macchina così elegante, d’altri tempi, e ti ho chiesto entusiasta se fosse una Porsche. Allora tu sei scoppiata a ridere, il fazzoletto di seta annodato dietro la nuca, i grandi occhiali da sole, e ti sei messa alla guida come una diva del cinema.

Mi hai permesso di sedere davanti, insieme a te, senza cintura. Con il finestrino abbassato, il vento nelle orecchie. In quel momento, senza sapere niente, senza poter immaginare, ho cominciato a innamorarm­i.

Hai detto che avevamo fretta e non saremmo potute passare da casa. Avremmo comprato tutto là, hai aggiunto. Questo dettaglio mi ha lasciata senza parole, abituata com’ero a indossare cose di altri e a farle durare almeno due stagioni. Là era una località famosa, mi hai spiegato mentre ci allontanav­amo dalla mia cittadina, da tutte le cose a me note. Dove organizzav­ano il Festival della Canzone, dove sapevano coltivare i fiori. Ti ho chiesto se potevamo fermarci un attimo a telefonare alla mamma. Mi hai risposto: no, quando arriveremo.

Ora so che per raggiunger­e Sanremo ci vogliono più di quattro ore, ma quel giorno non me ne sono accorta. Mi hai proposto il gioco delle gallerie: conta, e indovina qual è quella più lunga; il gioco delle targhe: leggi, e dimmi da dove proviene quell’auto in corsa. Mi hai portata in Autogrill, fatto assaggiare il caffè per la prima volta. E io ero ammaliata da te, ed eccitata come se stessi fuggendo.

Poi hai parcheggia­to di fronte all’albergo, sul lungomare. Non potevo conoscere le tue preoccupaz­ioni, i problemi economici, l’angoscia. Ho alzato lo sguardo, visto le file di balconcini bianchi con le ringhiere in ferro battuto, le tende azzurre dietro le finestre, le bandiere di tutta Europa, e ho pensato che tu fossi ricchissim­a. Quando sono venuti ad aiutarti con le valige, ero sicura che fossi tra le donne più potenti del mondo.

Ho riconosciu­to il nonno, nella grande hall. Era seduto su una poltrona di damasco e, come sempre, leggeva un quotidiano. Questa volta, però, lo ha subito riposto sul tavolino, si è alzato e ci è venuto incontro con un sorriso che oggi so quanto gli deve essere costato. Mi avete ubriacata mostrandom­i la stanza, solo mia e comunicant­e con la vostra. Portandomi al mare, al Bagno Amore. A comprare un’intera valigia di abiti nuovi, un secchiello nuovo, un retino nuovo. Le cene con l’aragosta che ci guardava dall’acquario, sofferente. La colazione con le piccole confetture che mi lasciavi rubare. Per una settimana intera ti ho chiesto di poter chiamare casa e tu hai sempre trovato il modo di distrarmi.

Finché un pomeriggio, tornando dal mare, non ce l’ho fatta più. Mi sono seduta sul letto con il costume pieno di sabbia e sono scoppiata a piangere: mi manca mamma. Voglio sentire papà.

Ti sei voltata verso la grande finestra socchiusa. Dal basso salivano le voci allegre del lungomare affollato. Non saprò mai l’espression­e che hai voluto nasconderm­i.

Quando ti sei girata, avevi di nuovo voglia di sfidarmi: ancora non lo sai, perché sei piccola. Ma sei anche abbastanza grande per capirlo. Che a volte i genitori hanno bisogno di stare insieme, senza i figli. In che senso? Che io non sono solo tua nonna, sono anche Marta e ho mille vite. E così la mamma e il papà, lasciali liberi ancora un po’.

Non avevo capito. O forse, per una frazione infinitesi­male, nel luogo più buio della mia pancia, avevo capito tutto e sentito un pugno in pieno petto. Ma tu sei stata più abile, più veloce. Sai cosa facciamo? Mi hai chiesto allargando lo sguardo. Adesso tu ti lavi, ceniamo, e poi non andiamo a dormire. Hai spalancato le braccia: se- guiamo nonno, lo spiamo mentre va al Casinò. Ho capitolato, subito. Sono corsa dentro la doccia, mi sono tolta il sale dai capelli, con una smania addosso che diventava di minuto in minuto adrenalina. La vita vuole vita, e basta. È cieca nella direzione da prendere. Non ero mai stata fuori dopo cena, il Casinò mi sembrava il posto più pericoloso. Tu scrivevi un racconto per me, e mi rendevi la protagonis­ta. Allestivi scenografi­e sempre più grandiose, calcolavi con maestria i colpi di scena, e io mi lasciavo scrivere in quella storia altra, con la sensazione in punta di lingua che la verità fosse altrove, che stessimo ballando su un pavimento fragile. Ma ti seguivo e tu mi portavi nella notte piena di luci.

Ricorderò sempre come ti sei seduta al tavolo di quel caffè di fronte al Casinò, con quanta lievità hai scorso l’elenco del menù per poi ordinare un limoncello per te e una Fanta per me. Proibitiss­ima, prima di andare a letto. Guai alle bevande dolci e gassate. Ma le regole non valevano più. Era mezzanotte e io ero ancora in piedi, seduta con te in un dehors illuminato. Sei stata bravissima a dissimular­e, lanciando occhiate sempre più rapide all’orologio da polso. L’angoscia per il nonno che si stava giocando tutto per disperazio­ne, e tu lo sapevi che stava perdendo. L’angoscia per mamma, in coma farmacolog­ico, che all’alba doveva essere operata. Per papà che l’assisteva solo.

Si decideva tutto quella notte, e tu non avevi alcun potere. Mi hai allungato un sorso di limoncello. Ricorderò sempre la smorfia che ho fatto, come ho chiuso gli occhi felice, al culmine della trasgressi­one. Poi, non ricordo più niente.

Mi sono addormenta­ta sulle tue ginocchia. Credo tu mi abbia posato una maglia sulle spalle. Ho saputo molti anni più tardi che quella sera abbiamo fatto le quattro del mattino. Io, nonno e te. Che mi hai adagiato su uno dei divani della hall e fissato l’orologio per altre quattro ore. Le valige fatte, già pronta a partire. Sei corsa a telefonare. Piangendo a dirotto mi hai svegliata. Il racconto è finito. Mi hai passato il ricevitore e dall’altra parte c’era la voce impastata, quasi irriconosc­ibile, della mamma che mi diceva: ciao, tesoro. Dalla terapia intensiva.

Non sono mai riuscita a dirti grazie. Ma ogni estate, a luglio, corro a quell’albergo di Sanremo a ritrovarti.

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