Corriere della Sera - La Lettura
Una storia per un goccetto di vino. Alla nostra salute!
Certi pomeriggi d’estate — ero un bimbetto — pedalavo veloce verso la sala giochi per scansare il caldo. Quelli che non riuscivo a scansare erano i vecchi che ciondolavano lì per farsi offrire un bicchiere in cambio di un racconto. E i racconti erano mera
C’erano pomeriggi d’e st a te così boll e nt i che mentre passavo in bicicletta gli alberi si piegavano per stare un attimo nella mia ombra. Pedalavo verso la sala giochi, ma non riuscivo a giocare mai, perché la sala era uno stanzone buio dietro il bar, e per arrivarci dovevo superare i tavolini fuori dove i vecchi non discorrevano fra loro, non leggevano il giornale e nemmeno si sfidavano alle carte: solo aspettavano me.
«Oh, bimbo, vieni qui!», mi diceva il più svelto appena mi vedevano.
«Non glielo offri un bicchieretto di vino al tuo nonno?». «Ma te non sei il mio nonno!». «No, ma potrei. Ho tanti anni sai, e tante storie bellissime da raccontarti». «Ma io voglio giocare ai videogiochi». «Quelli sono soldi buttati via, giochi un attimo e dopo cosa ti rimane? Una bella storia invece resta per sempre con te».
Io lì per lì non rispondevo, e credevo di non aver ancora scelto. Ma si vede di sì, perché il signor Gino dietro al bancone già prendeva il fiasco del rosso e riempiva un bicchiere. Lo pagavo e lo portavo al signore che quel giorno era il mio nonno, lui lo seccava in un colpo e faceva schioccare il palato un paio di volte, poi con la gola rinfrescata cominciava a raccontar- mi la sua storia. E quegli spiccioli preziosi, quasi rubati e finiti in un sorso, non avrei potuto spenderli meglio di così. Perché le loro storie erano sempre meravigliose, avventure emozionanti di quei signori che avevano tante esperienze addosso, vissute in tempi dove tutto era più grosso e clamoroso, tra sofferenze disumane e imprese disperate, frustate ogni tanto dai fulmini scalmanati della felicità. Vite così piene e intense che quando arrivavi all’età di questi signori potevi pescare ogni giorno un ricordo a caso e rimediarci un bicchiere di vino, incantando un bimbo tanto curioso e poco furbo, che ogni pomeriggio tentava di scivolare fino alla sala giochi ma per fortuna non ci riusciva mai.
Ci ripenso spesso, a quei nonni stupendi. Soprattutto in questi giorni torridi d’estate, col sole che adesso picchia su bar più simili a discoteche, dove i vecchi non sono graditi perché stonano con la frizzantezza che si prova a gonfiare intorno al culto dell’apericena. E quei grandi raccontatori sono partiti tutti, hanno preso il cappello e sono saliti in paradiso, dove adesso bloccano gli angeli di passo per farsi offrire un bicchiere del vino dolcissimo che ti versano lassù, e gli raccontano storie che così celestiali nemmeno in pa- radiso le avevano sentite mai. E intanto qua sulla Terra le estati, che da piccolo duravano secoli, adesso corrono tanto veloci da perdere il conto, e mi accorgo di un fatto assurdo e incredibile: che se continua così, quei nonni fra un po’ saremo noi. E allora mi domando cosa potremo raccontare noi ai nostri nipoti, cosa c’è nelle nostre vite che può farci guadagnare il nostro bicchieretto di vino, oppure sono così vuote e piatte che meritiamo di restare a bocca asciutta?
Non lo so, e siccome non vorrei proprio pensarci, finisce che ci penso tantissimo. E il confronto mi terrorizza. Perché i nostri nonni erano dei giganti assoluti del racconto, nati e cresciuti senza internet e senza tv, quando tutto, dalle notizie mondiali fino ai modi per passare il tempo dal dopo cena al sonno, erano storie e storie, e raccontare era come mangiare, bere, respirare. Da piccolo ho avuto la fortuna enorme di conoscerne qualcuno, di questi respiratori di storie, e quando oggi mi chiedono quali scrittori mi hanno insegnato di più, io faccio i loro nomi. Che non dicono nulla a nessuno, perché questi scrittori geniali non hanno mai scritto un libro e spesso non sapevano nemmeno scrivere, ma Signore del Cielo come sapevano raccontare!
Un istinto micidiale per i tempi e i toni, le voci, le espressioni, una magia che ti catturava come una rete lanciata addosso, ti prendeva e ti portava in posti favolosi per tutto il tempo che voleva, senza essere interrotta dal suono di messaggini e telefonate e dalle mille spine della tecnologia, che frantumano il nostro presente e la nostra attenzione in un miscuglio di pezzetti traballanti a caso dentro un incessante mal di mare.
E poi, oltre alla straordinaria abilità nel raccontare, quella gente disponeva di un repertorio smisurato: potevano chiudere gli occhi e pescare a caso in un pentolone di ricordi dove dentro c’era di tutto, pure la guerra! La guerra vera, con le bombe che scoppiano intorno, armi in braccio o puntate addosso, case che crollano, gente che muore o si salva all’ultimo istante, partigiani nascosti sui monti e nazisti nelle strade, che in ogni momento per capriccio potevano levarti dal mondo. E poi il dopoguerra, le macerie e la ricostruzione, in un paese che come hanno fatto a rimetterlo in piedi non lo sapevano nemmeno loro eppure c’erano riusciti, e adesso stavano qui a dirtelo.
E invece noi, noi cosa abbiamo nei nostri giorni, cosa potremo raccontare ai nostri nipoti? Di quella domenica che ci siamo persi fra i reparti dell’Ikea, ma a fine giornata siamo riusciti a tornare alla macchina? Della sera che abbiamo posta-
to una foto di una pizza quattro stagioni e abbiamo ricevuto quasi cento like?
Insomma, quello tra generazioni di narratori di storie è un confronto senza storia. Sul ring abbiamo un avversario con un bagaglio di colpi impressionante e una vita trascorsa ad allenarsi, che ci sovrasta e ci schiaccia alle corde. Ma un attimo prima del cazzotto del KO — sarà la forza della disperazione, sarà l’istinto di sopravvivenza — ecco negli occhi uno scintillio di speranza che forse ci salva: non nei nostri occhi, e nemmeno nei loro, ma in quelli nuovi e spersi dei ragazzi, quando si trovano davanti a un giradischi, un francobollo, una cabina del telefono. Questi e tanti altri oggetti a noi familiari, ingredienti fissi dei nostri ricordi, passati da un attimo ma per loro già arcani e misteriosi come i geroglifici delle piramidi egizie.
E allora forse eccola qua la nostra fortuna: ogni generazione si stacca da quella prima con un bel salto in là, ma oggi il ritmo forsennato delle innovazioni ha spalancato tra noi e i nostri figli una distanza spaventosa. Se i nostri nonni erano per noi gente vecchissima, noi per i ragazzi di oggi siamo già delle mummie, e per i nostri nipoti saremo fossili indecifrabili di ere sconosciute. E chi mai potrebbe perderselo, un fossile che arriva da te e comincia a raccontarti la sua storia?
Insomma, proprio quella differenza che sembra separarci irrimediabilmente da loro, quell’incapacità tecnologica che ci obbliga a chiedere il loro aiuto per sistemare il telefonino e ci rende patetici nella quotidianità pratica, può essere la risorsa che ci trasforma in formidabili raccontatori. Perché la distanza funziona nel tempo alla rovescia che nello spazio, e se le cose fisiche rimpiccioliscono quando le superi e ti allontani, nel ricordo invece ogni avvenimento passato diventa sempre più importante e clamoroso. E così quelli che per noi erano semplici francobolli, giradischi e cabine del telefono, a raccontarli oggi sono veri prodigi. Sono quadratini magici che leccavi e appiccicavi a messaggi segreti, poi li infilavi in scure buche da cui uno sconosciuto li raccoglieva per consegnarli dopo un lungo viaggio a qualcun altro, chissà dove, chissà quando. Sono tondi neri di plastica che per trovarli battevi mille negozi, poi finalmente potevi portarli a casa e farli girare, una puntina miracolosa ci si posava sopra come un’ape su un fiore e ne tirava fuori il nettare della tua musica preferita. Sono questi casotti stretti di ferro e vetro, che custodivano un aggeggio gigante dove mettevi uno spicciolo strano chiamato gettone e così potevi chiamare la ragazza che ti piaceva, anche se di là ti rispondeva sempre il suo babbo col grugnito da orco, e dovevi inventarti che eri un compagno di classe e ti serviva la lista dei compiti per il giorno dopo, e sperare che lui ci credesse o facesse finta di crederci, e finalmente potessi sentire la voce di lei dolcissima e insieme bollente, che stretto in quella cabina riusciva a farti tremare. E ancora mille e mille meraviglie così, sparse nel tempo normalissimo e insieme incredibile che è stato il nostro, un’epoca selvaggia senza cellulari e Gps, dove appena uscivi di casa potevi stare nella piazzetta di fronte o sull’isola di Java, eri comunque solo e irraggiungibile in un mondo tutto da scoprire.
Situazioni che oggi, mica troppi anni dopo, sembrano assurde e deliranti. Sono le nostre autobiografie, ma alle orecchie dei ragazzi suonano come folli storie fantasy immaginate da un genio visionario.
Ma appunto bisogna che gliele raccontiamo bene, senza volergli insegnare quanto era meglio o quanto era peggio prima, anzi senza voler insegnare proprio niente, che è l’unico modo per imparare entrambi.
Facendo scorrere le storie della nostra vita e di chi c’era prima di noi verso chi ci sarà dopo, lungo un unico fiume che attraversa le terre dell’umanità e da sempre le rende fertili, alimentando la vegetazione esagerata e prepotente dell’immaginazione. E quest’acqua che arriva da lontano non dobbiamo farla cadere dall’alto, con quel tono odioso e saccente del ti spiego io come stanno le cose, che strozza il piacere di ogni storia e diventa una doccia fredda da cui i ragazzi giustamente scapperanno. Perché l’attenzione non è mica dovuta, è un dono prezioso e bisogna meritarselo, con storie che ti avvolgono in una corrente calda e possente e non ti fa impantanare nelle paludi mortifere della boria e del tedio. Le storie non si raccontano stesi e nemmeno seduti, le storie nascono per camminare con noi, per correrci accanto e portarci lontano. Per buttarci in mezzo a una corrente che ci avvolge tutti insieme, perché i tempi cambiano ma la passione che ci spinge è sempre la stessa, ci solleva e ci insegna a nuotare, mentre ci porta via lungo un fiume che va avanti da millenni e per un po’ è anche nostro, poi sarà tutto loro.
E se saremo bravi abbastanza a raccontare, ci riuscirà quel prodigio che riusciva ai miei tanti nonni negli infiniti pomeriggi estivi, e che è stato pure il primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana: tutta quest’acqua che scorre la trasformeremo in vino, un bicchiere di vino per noi, da bere in un sorriso mentre guardiamo i ragazzi correre via stupendi col fiume, che li porta chissà dove su correnti impetuose e imprevedibili, verso tutto l’orizzonte che li aspetta.