Corriere della Sera - La Lettura

Una storia per un goccetto di vino. Alla nostra salute!

Certi pomeriggi d’estate — ero un bimbetto — pedalavo veloce verso la sala giochi per scansare il caldo. Quelli che non riuscivo a scansare erano i vecchi che ciondolava­no lì per farsi offrire un bicchiere in cambio di un racconto. E i racconti erano mera

- Di FABIO GENOVESI

C’erano pomeriggi d’e st a te così boll e nt i che mentre passavo in bicicletta gli alberi si piegavano per stare un attimo nella mia ombra. Pedalavo verso la sala giochi, ma non riuscivo a giocare mai, perché la sala era uno stanzone buio dietro il bar, e per arrivarci dovevo superare i tavolini fuori dove i vecchi non discorreva­no fra loro, non leggevano il giornale e nemmeno si sfidavano alle carte: solo aspettavan­o me.

«Oh, bimbo, vieni qui!», mi diceva il più svelto appena mi vedevano.

«Non glielo offri un bicchieret­to di vino al tuo nonno?». «Ma te non sei il mio nonno!». «No, ma potrei. Ho tanti anni sai, e tante storie bellissime da raccontart­i». «Ma io voglio giocare ai videogioch­i». «Quelli sono soldi buttati via, giochi un attimo e dopo cosa ti rimane? Una bella storia invece resta per sempre con te».

Io lì per lì non rispondevo, e credevo di non aver ancora scelto. Ma si vede di sì, perché il signor Gino dietro al bancone già prendeva il fiasco del rosso e riempiva un bicchiere. Lo pagavo e lo portavo al signore che quel giorno era il mio nonno, lui lo seccava in un colpo e faceva schioccare il palato un paio di volte, poi con la gola rinfrescat­a cominciava a raccontar- mi la sua storia. E quegli spiccioli preziosi, quasi rubati e finiti in un sorso, non avrei potuto spenderli meglio di così. Perché le loro storie erano sempre meraviglio­se, avventure emozionant­i di quei signori che avevano tante esperienze addosso, vissute in tempi dove tutto era più grosso e clamoroso, tra sofferenze disumane e imprese disperate, frustate ogni tanto dai fulmini scalmanati della felicità. Vite così piene e intense che quando arrivavi all’età di questi signori potevi pescare ogni giorno un ricordo a caso e rimediarci un bicchiere di vino, incantando un bimbo tanto curioso e poco furbo, che ogni pomeriggio tentava di scivolare fino alla sala giochi ma per fortuna non ci riusciva mai.

Ci ripenso spesso, a quei nonni stupendi. Soprattutt­o in questi giorni torridi d’estate, col sole che adesso picchia su bar più simili a discoteche, dove i vecchi non sono graditi perché stonano con la frizzantez­za che si prova a gonfiare intorno al culto dell’apericena. E quei grandi raccontato­ri sono partiti tutti, hanno preso il cappello e sono saliti in paradiso, dove adesso bloccano gli angeli di passo per farsi offrire un bicchiere del vino dolcissimo che ti versano lassù, e gli raccontano storie che così celestiali nemmeno in pa- radiso le avevano sentite mai. E intanto qua sulla Terra le estati, che da piccolo duravano secoli, adesso corrono tanto veloci da perdere il conto, e mi accorgo di un fatto assurdo e incredibil­e: che se continua così, quei nonni fra un po’ saremo noi. E allora mi domando cosa potremo raccontare noi ai nostri nipoti, cosa c’è nelle nostre vite che può farci guadagnare il nostro bicchieret­to di vino, oppure sono così vuote e piatte che meritiamo di restare a bocca asciutta?

Non lo so, e siccome non vorrei proprio pensarci, finisce che ci penso tantissimo. E il confronto mi terrorizza. Perché i nostri nonni erano dei giganti assoluti del racconto, nati e cresciuti senza internet e senza tv, quando tutto, dalle notizie mondiali fino ai modi per passare il tempo dal dopo cena al sonno, erano storie e storie, e raccontare era come mangiare, bere, respirare. Da piccolo ho avuto la fortuna enorme di conoscerne qualcuno, di questi respirator­i di storie, e quando oggi mi chiedono quali scrittori mi hanno insegnato di più, io faccio i loro nomi. Che non dicono nulla a nessuno, perché questi scrittori geniali non hanno mai scritto un libro e spesso non sapevano nemmeno scrivere, ma Signore del Cielo come sapevano raccontare!

Un istinto micidiale per i tempi e i toni, le voci, le espression­i, una magia che ti catturava come una rete lanciata addosso, ti prendeva e ti portava in posti favolosi per tutto il tempo che voleva, senza essere interrotta dal suono di messaggini e telefonate e dalle mille spine della tecnologia, che frantumano il nostro presente e la nostra attenzione in un miscuglio di pezzetti traballant­i a caso dentro un incessante mal di mare.

E poi, oltre alla straordina­ria abilità nel raccontare, quella gente disponeva di un repertorio smisurato: potevano chiudere gli occhi e pescare a caso in un pentolone di ricordi dove dentro c’era di tutto, pure la guerra! La guerra vera, con le bombe che scoppiano intorno, armi in braccio o puntate addosso, case che crollano, gente che muore o si salva all’ultimo istante, partigiani nascosti sui monti e nazisti nelle strade, che in ogni momento per capriccio potevano levarti dal mondo. E poi il dopoguerra, le macerie e la ricostruzi­one, in un paese che come hanno fatto a rimetterlo in piedi non lo sapevano nemmeno loro eppure c’erano riusciti, e adesso stavano qui a dirtelo.

E invece noi, noi cosa abbiamo nei nostri giorni, cosa potremo raccontare ai nostri nipoti? Di quella domenica che ci siamo persi fra i reparti dell’Ikea, ma a fine giornata siamo riusciti a tornare alla macchina? Della sera che abbiamo posta-

to una foto di una pizza quattro stagioni e abbiamo ricevuto quasi cento like?

Insomma, quello tra generazion­i di narratori di storie è un confronto senza storia. Sul ring abbiamo un avversario con un bagaglio di colpi impression­ante e una vita trascorsa ad allenarsi, che ci sovrasta e ci schiaccia alle corde. Ma un attimo prima del cazzotto del KO — sarà la forza della disperazio­ne, sarà l’istinto di sopravvive­nza — ecco negli occhi uno scintillio di speranza che forse ci salva: non nei nostri occhi, e nemmeno nei loro, ma in quelli nuovi e spersi dei ragazzi, quando si trovano davanti a un giradischi, un francoboll­o, una cabina del telefono. Questi e tanti altri oggetti a noi familiari, ingredient­i fissi dei nostri ricordi, passati da un attimo ma per loro già arcani e misteriosi come i geroglific­i delle piramidi egizie.

E allora forse eccola qua la nostra fortuna: ogni generazion­e si stacca da quella prima con un bel salto in là, ma oggi il ritmo forsennato delle innovazion­i ha spalancato tra noi e i nostri figli una distanza spaventosa. Se i nostri nonni erano per noi gente vecchissim­a, noi per i ragazzi di oggi siamo già delle mummie, e per i nostri nipoti saremo fossili indecifrab­ili di ere sconosciut­e. E chi mai potrebbe perderselo, un fossile che arriva da te e comincia a raccontart­i la sua storia?

Insomma, proprio quella differenza che sembra separarci irrimediab­ilmente da loro, quell’incapacità tecnologic­a che ci obbliga a chiedere il loro aiuto per sistemare il telefonino e ci rende patetici nella quotidiani­tà pratica, può essere la risorsa che ci trasforma in formidabil­i raccontato­ri. Perché la distanza funziona nel tempo alla rovescia che nello spazio, e se le cose fisiche rimpicciol­iscono quando le superi e ti allontani, nel ricordo invece ogni avveniment­o passato diventa sempre più importante e clamoroso. E così quelli che per noi erano semplici francoboll­i, giradischi e cabine del telefono, a raccontarl­i oggi sono veri prodigi. Sono quadratini magici che leccavi e appiccicav­i a messaggi segreti, poi li infilavi in scure buche da cui uno sconosciut­o li raccogliev­a per consegnarl­i dopo un lungo viaggio a qualcun altro, chissà dove, chissà quando. Sono tondi neri di plastica che per trovarli battevi mille negozi, poi finalmente potevi portarli a casa e farli girare, una puntina miracolosa ci si posava sopra come un’ape su un fiore e ne tirava fuori il nettare della tua musica preferita. Sono questi casotti stretti di ferro e vetro, che custodivan­o un aggeggio gigante dove mettevi uno spicciolo strano chiamato gettone e così potevi chiamare la ragazza che ti piaceva, anche se di là ti rispondeva sempre il suo babbo col grugnito da orco, e dovevi inventarti che eri un compagno di classe e ti serviva la lista dei compiti per il giorno dopo, e sperare che lui ci credesse o facesse finta di crederci, e finalmente potessi sentire la voce di lei dolcissima e insieme bollente, che stretto in quella cabina riusciva a farti tremare. E ancora mille e mille meraviglie così, sparse nel tempo normalissi­mo e insieme incredibil­e che è stato il nostro, un’epoca selvaggia senza cellulari e Gps, dove appena uscivi di casa potevi stare nella piazzetta di fronte o sull’isola di Java, eri comunque solo e irraggiung­ibile in un mondo tutto da scoprire.

Situazioni che oggi, mica troppi anni dopo, sembrano assurde e deliranti. Sono le nostre autobiogra­fie, ma alle orecchie dei ragazzi suonano come folli storie fantasy immaginate da un genio visionario.

Ma appunto bisogna che gliele raccontiam­o bene, senza volergli insegnare quanto era meglio o quanto era peggio prima, anzi senza voler insegnare proprio niente, che è l’unico modo per imparare entrambi.

Facendo scorrere le storie della nostra vita e di chi c’era prima di noi verso chi ci sarà dopo, lungo un unico fiume che attraversa le terre dell’umanità e da sempre le rende fertili, alimentand­o la vegetazion­e esagerata e prepotente dell’immaginazi­one. E quest’acqua che arriva da lontano non dobbiamo farla cadere dall’alto, con quel tono odioso e saccente del ti spiego io come stanno le cose, che strozza il piacere di ogni storia e diventa una doccia fredda da cui i ragazzi giustament­e scapperann­o. Perché l’attenzione non è mica dovuta, è un dono prezioso e bisogna meritarsel­o, con storie che ti avvolgono in una corrente calda e possente e non ti fa impantanar­e nelle paludi mortifere della boria e del tedio. Le storie non si raccontano stesi e nemmeno seduti, le storie nascono per camminare con noi, per correrci accanto e portarci lontano. Per buttarci in mezzo a una corrente che ci avvolge tutti insieme, perché i tempi cambiano ma la passione che ci spinge è sempre la stessa, ci solleva e ci insegna a nuotare, mentre ci porta via lungo un fiume che va avanti da millenni e per un po’ è anche nostro, poi sarà tutto loro.

E se saremo bravi abbastanza a raccontare, ci riuscirà quel prodigio che riusciva ai miei tanti nonni negli infiniti pomeriggi estivi, e che è stato pure il primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana: tutta quest’acqua che scorre la trasformer­emo in vino, un bicchiere di vino per noi, da bere in un sorriso mentre guardiamo i ragazzi correre via stupendi col fiume, che li porta chissà dove su correnti impetuose e imprevedib­ili, verso tutto l’orizzonte che li aspetta.

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