Corriere della Sera - La Lettura
Vite banali e pianti a dirotto Che noia «Stoner» e Haruf!
Revisioni Il romanzo di John Edward Williams l’ho detestato con tutte le mie forze. Perché quegli elogi così ostentati, a cominciare da Julian Barnes e Ian McEwan? Non c’è nulla in lui che già non sapessimo Dove finisce l’uno, comincia l’altro, cioè «Bene
La morte di Ivan Il’ic è unanimemente ritenuto il più bello dei racconti di Tolstoj, un capolavoro. Ma è quell’unanimità che mi insospettisce, mi fa pensare a un riflesso condizionato: non tanto a un esempio di conformismo quanto a una inevitabilità.
Di che cosa sto parlando? Di quale inevitabilità? Vedo una tenaglia: da una parte la maestria dell’autore e dall’altra la morbosa, invincibile forza del soggetto. Siamo di fronte a un uomo che sta morendo, ai suoi sentimenti e pensieri: amari, spesso disperati. La vita di quest’uomo finisce e tutto crolla, tutto è stato vano, tutto era peccato, e perfino il peccato non ha più valore.
Il lettore, di fronte alla (sorprendente) ovvietà della morte che arriva, non può, da parte sua, non temere che invece della morte arrivi il cattivo gusto, una retorica, il sentimentalismo. Non sarà la facilità del tema di per sé estremo a generare qualcosa di scadente e di malsano? Tolstoj lo impedisce, mette di continuo un freno. Ma Tolstoj è il capostipite. Il problema è come si comporteranno i suoi continuatori, irrispettosi di quella che resta l’unica regola aurea di ogni narrazione, a prescindere cioè da tentazioni di scritture moderniste o simili: «Vuoi parlare della morte? — dice Hofmannsthal —. Parlami del cane nel cortile».
In un suo bel saggio del 2008, Il briccone vestito di lustrini, Michael Chabon ci mette in guardia dalla troppa diffidenza nei confronti della letteratura di genere. «L’ intrattenimento gode di cattiva fama. Le persone serie imparano persino a vituperarlo. La parola indossa spandex, copricapezzoli, un abito anni Settanta tempestato di lustrini. Emana zaffate di crema abbronzante scadente e di ghiaccioli sgocciolanti. (…) L’intrattenimento traffica con i cliché e la pubblicità occulta. Attiva zone del cervello lontane dai centri del discernimento, del pensiero critico e della speculazione ontologica».
Fermo restando che la «speculazione ontologica» è troppo, Chabon ci dà poi la sua versione buona della parola: «Il senso originario, e incantevole, della parola intrattenimento è quello del reciproco sostenersi, come due alberi cresciuti insieme, intrecciati, che si sorreggono e si danno forza a vicenda. Suggerisce una sorta di trasferimento aereo di energia».
D’accordo, allora. Chabon ha, o può avere, ragione. In fin dei conti nessuno di noi ha mai dubitato di Alexandre Dumas e di Raymond Chandler, di Dumas jr. e di Philip Dick. Tantomeno di Tolstoj, il cui La morte di Ivan Il’ic è capostipite, ma di un genere; o di un modo fin troppo esplicito di porsi di fronte alla vita e al racconto della vita che torneranno non già a sostenerci e darci energia, bensì a essere accecati da quegli abiti tempestati di lustrini.
Tutto quello che sto dicendo nasce da un equivoco. Avevo il proposito di parlare di un romanzo, La biografa di David Constantine. Pensando alla storia che in esso si racconta — quella di un uomo che muore e di una vedova biografa di personaggi minori, e che decide di scrivere la biografia del suo amato compagno — m’ero detto: ecco arrivato il momento, sempre rimandato, di leggere Stoner di John Williams, e di almeno un romanzo (che poi fu Benedizione) di Kent Haruf: vale a dire di leggere due libri che suscitavano in me la diffidenza che Chabon irride. A questi due titoli ne aggiunsi altri due che mi sembravano sfiorare lo stesso tema, o tema analogo: uno vecchio, del 1959, ma ristampato quest’anno, Mrs Bridge di Evan S. Connell, di cui lessi mille anni fa Diario di uno stupratore; e uno nuovo, proprio del 2017, Tra loro di Richard Ford. Anche di Ford un poco diffidavo, nessun suo romanzo mi aveva conquistato, non c’è romanzo che in fondo non sia o non diventi di genere.
Ma l’equivoco qual era? Era che David Constantine è inglese, lo ignoravo, non me n’ero accorto. Volevo, invece, parlare di scrittori americani. Mettere a fuoco una tendenza che, sotterranea (dagli anni Sessanta), è giunta a occupare una posizione di rilievo nel nostro tempo: suppongo ovunque, in Italia dai primi anni del secolo, da quando allora un piccolo editore romano, minimum fax, riscoprì Richard Yates. Ecco, vedo in Yates un secondo capostipite, un autore che mette in moto una macchina e a tante macchine simili alla sua offre, come direbbero i politologi, il proprio endorsement. Ma Yates non l’ho né letto (i libri che erano inediti, cioè non tradotti) né riletto ( I non conformisti, ossia Revolutionary Road e Undici solitudini). Dopo Haruf, e i suoi coevi Connell e Williams — era troppo per me.
Ma ho anche messo da parte Constantine, non solo lui è inglese, ma La biografa è anch’esso un buon libro coperto di lustrini: dall’idea così «romanzesca» che la vedova scriva biografie di personaggi (ovviamente) minori alla scoperta finale che il defunto, tanto più giovane di lei, di donna ne aveva amata un’altra, amata forse più di quanto credeva avesse amato lei. Forse, del romanzo, è migliore, non fosse che per Charlotte Rampling e Tom Courtenay, 45 anni, il film che ne ha liberamente tratto Andrew Haigh.
Ma per tornare al tema, a quegli autori di medio calibro che hanno tolto un po’ di spazio e un po’ di prestigio agli americani eredi del modernismo, da Franzen a Vollmann, da Lethem a Moody, dalla stessa Zadie Smith allo stesso Chabon, per tornare a loro, ossia alla loro convenzionalità, alla natura di intrattenimento, non nel senso aereo di sostegno al lettore, che li accomuna, ecco per primo l’orrido Stoner. Questo libro l’ho detestato con tutte le mie forze. Lo leggevo e pensavo di
L’eccezione Diffidavo di Richard Ford, nessun suo romanzo mi aveva conquistato. Ma, ecco la sorpresa, «Tra loro» è un grande libro
continuo ai lunghi elogi che gli avevano tributato Julian Barnes e Ian McEwan. Ma come hanno potuto? Perché? Non c’è nulla in Stoner che già non sapessimo. Per esempio: l’uso dell’imperfetto nel primo capitolo non ci avvisa che non succede e non succederà mai nulla? Non dico nel romanzo, ma nella vita che il romanzo pretende di disporre a simbolo (esempio) della vita media americana in uno Stato qualunque e in un’epoca qualunque (per caso quella tra due guerre) e ad allegoria della vita umana in generale.
La prosa di Williams è un insondabile mix della prosa dei suoi grandi predecessori, da Theodore Dreiser a Sherwood Anderson o a Thomas Wolfe. La storia, se così la si può chiamare, è una frequente apparizione di luoghi comuni: matrimonio, nascita di una bambina, suicidio del suocero nella crisi del ’29, desiderio della moglie di null’altro che di essere protetta, decisione (molto più avanti) della figlia di andarsene di casa e sua conseguente caduta nell’alcolismo, apparizione dell’amore (William — è il nome del protagonista — «ebbe la sua storia d’amore»; ma si deve supporre dopo anni e anni di odiosa castità accanto alla moglie), obbligo di separazione degli amanti a causa del perbenismo universitario, anzi cittadino, solitudine, paesaggi, altri paesaggi, stagioni, ancora stagioni.
E com’è Stoner? È «alto, magro e curvo» — dove curvo è l’aggettivo fulminante. Come reagisce di fronte alla sua monotona vita? — «Con quieta disperazione». Come sono i visi di queste persone? Tutti uguali: «Privi di qualsiasi espressio- ne». E infine: com’è lui, Stoner, nell’insieme? È stoico, paziente, rassegnato, indifferente, soggiacente (all’uniformità di coloro che gli gravitano intorno). Quando Grace sua figlia si versa «una dose generosa di whisky» come potrebbe Chabon resistere nel suo buonumore di fronte a quell’inevitabile, fatale aggettivo: generosa? Dove finisce Stoner, comincia Benedi
zione di Haruf: con Dad al quale viene consegnata una diagnosi di cancro. Morirà tra poco tempo. La moglie gli è vicina. Lo intrattiene. Lo consola come può. La scrittura di Haruf è, così sembra, fredda, rapida, addirittura tagliente. Le frasi sono tutte brevissime, i dialoghi più brevi ancora (ovvero ancora più pleonastici). Ma la musica è la stessa, suonata a velocità diversa. Tanto pacato appare Williams quanto indaffarato, incalzato, senza fiato e, chissà, disperato, Haruf. Willa blocca la storia di sua figlia Alene con il preside, sposato e tanto più anziano. Il figlio di Dad, Frank, viene pestato. Perché? Perché è omosessuale. Clayton, dipendente di Dad, ruba un po’ dell’incasso e viene licenziato. La moglie Tanya si offre a Dad. Dad rifiuta. Clayton si suicida. Poi Dad, anni dopo, si pente, va a cercare Tanya e le offre una protezione economica: egli ha la testa dura, la conserverà in tutta la sua lunga agonia (e cioè per tutto il romanzo). Ma c’è anche un fallimento matrimoniale, quello di Lorraine, figlia di Dad e Mary, con Richard, e c’è una libera donna, Genevieve, che lascia John Wesley — come gli amici gli avevano preannunciato: ti prenderà, userà e butterà via come ha fatto con gli altri. È giusto ricordare il centrale sermone di padre Lyle contro la guerra (siamo, credo, ai tempi della prima Guerra del Golfo) e il quasi scandalo che esso suscita nella sperduta città dell’America, così simile a quella in cui visse Stoner. E va ricordato che tutti i personaggi prima o poi piangono.
In Benedizione si piange quasi ogni pagina per i più svariati motivi, impulsi, accensioni, improvvisi rilassamenti. Raramente si leggono libri in cui il riduttivismo di fondo è così manifesto, così gorgogliante. Nella prosa di Haruf non vi è pathos, non vi sono nodi né lingua, né sintassi né una struttura che non sia evidente in superficie.
Ancora diversa è la tecnica di Evan S. Connell. Quando lessi Diario di uno stu
pratore, suo secondo romanzo, non potevo sapere o prevedere. Un diario è un diario, è fatto anche di appunti, di veloci annotazioni. Allo stesso modo è organizzato (è la parola giusta) Mrs Bridge: per brevi o brevissimi capitoli, tutti titolati. Ogni capitolo è un esempio di comportamento, nella quotidianità, di un membro di una città sperduta nel cuore dell’America.
Il totem di Williams, di Haruf, di Connell è «la preziosa normalità»; essa è straordinaria. In Mrs Bridge seguiamo soprattutto le (non) vicissitudini di una signora cui l’autore non ha conferito nome (o io non lo ricordo, non l’ho appuntato). Mrs Bridge guarda con sospetto l’intrinsecità della figlia Carolyn con la servetta nera Alice Jones. Mrs Bridge impara lo spagnolo. Mrs Bridge tiene alle apparenze e prega la figlia Ruth di uscire con la borsetta. Mrs Bridge vuole ampliare il suo vocabolario. Dà una festa e va a una festa. Si interessa di politica ma alla fine vota per il partito che c’è, quello conservatore. La signora e suo marito fanno un viaggio in Europa. Connell ci fa osservare o fa notare da Mrs Bridge che né la Torre di Londra né quel boulevard di Parigi li vedrà un’altra volta. Il tempo passa («In piedi davanti alla finestra, tutta sola, Mrs Bridge pensava a come gli anni stessero passando in fretta. I figli crescevano in un baleno, e il marito… ebbe un fremito di inquietudine»). Poi anche lui, questa volta verso la fine, non già al principio del romanzo, anche lui silente vittima di un sistema di vita feroce, anche Mr Bridge muore. Lei resta senza nessuno e, quel che è peggio, senza nulla da fare — come prima, da tempo. Shannon Bridge, lo zio del marito, diceva che «alcune persone scivolano sulla superficie dell’esistenza per poi scendere discretamente e serenamente nella tomba ignare fino all’ultimo della vita, ciò che essa può offrire, da loro neppure intravisto».
Ecco, è il punto di questi tre scrittori (ma aggiungiamoci anche l’inglese e il capostipite Yates e, così per porgere al lettore un nome nuovo, finalmente una donna, anzi due, Elizabeth Strout e la sua dolce, insopportabile Olive Kitteridge), è la loro volontà, tutta intellettuale, per non dire ideologica, e dunque retorica, reazionaria, consolatoria, che invece è il loro tono di fondo — la loro volontà di descrivere il luogo comune, di incoronare (o scoronare — dimenticando che la corona allora l’avrebbero loro, loro che ne sanno di più) la normalità della vita — America o non America, per quanto, va da sé, l’America resta un buon sostegno alla disgrazia di essere nati.
Resta Richard Ford. Ho già detto, mi è quasi sfuggito di penna, che nessun suo romanzo mi aveva conquistato. Più o meno avendo cognizione del tema di Tra lo
ro supponevo che avrei collocato questo libro «tra loro», tra gli altri di cui ho parlato. In effetti il tema è lo stesso: la famiglia. Mio padre e la sua morte prematura. Mia madre e la sua sopravvivenza al marito, neppure troppo lunga. Ma Tra loro è un grande libro. Non voglio neppure indulgere più che tanto nel sottolineare che non è un romanzo: benché sia, a mio parere, e non a caso, il libro più bello di Ford. Il fatto, semplicemente, è che Yates, Connell, Williams, Haruf, Strout sono scrittori che quell’aereo sostegno di cui dice Chabon non lo offrono, Ford ne offre — offre qualcosa di più.
Lo vediamo ma è come se non lo vedessimo, non dobbiamo appoggiarci a lui, Ford parla per sé, per loro (per i genitori, per forse perdonargli d’essersi amati fino a sottrargliene un poco, di amore), non parla per noi, non ne ha bisogno. Il suo libro è diviso in due memoir. Il primo, dedicato al padre, scritto cinquantacinque anni dopo la sua morte avvenuta nel 1960. Il secondo, quello dedicato alla madre Edna, scritto subito dopo la sua scomparsa nel 1982. Eppure il tono di entrambi è lo stesso. È il tono non di chi sa ma di chi non sa, di chi vuole capire, di chi capisce (è la verità di Tra loro) che i nostri genitori non li possiamo capire. Anche per Ford la normalità è un tema, o il tema. Parlando del padre: «Il suo mantra (e naturalmente lui non aveva un mantra) era che tutto rientrava nella normal it à » . Ma megl i o an c o r a : «C o me ognuno di noi, conduceva sicuramente un incessante discorso interiore, ma non era particolarmente introverso. Non gli riusciva naturale pensare che la vita fosse inadeguata, o che richiedesse grandi miglioramenti, o vedersi come qualcosa di straordinario o degno di particolare attenzione. Mancava palesemente di hy
bris, o di grandi ambizioni. E si adattava all’esistenza quotidiana meglio della maggior parte della gente». Ma, accolta allo stesso modo, è la diversità: «E così ancora una volta io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori». Commovente è la lotta di Ford per venire a capo del passato. Commovente come descrive il rapporto tra la moglie e la madre «che non interferiva, che accettava il fatto che la mia vita con Kristina aveva mandato in pensione gran parte del suo essere madre». Commovente come viene da madre e figlio accolta la notizia che anche la signora Edna tra breve seguirà il padre: «Nemmeno questa notizia cambiò le cose. La forza di persuasione della vita normale è smisurata. Accettare qualcosa di meno della vita quando il meno non ti è addosso con il suo impeto soverchiante è almeno per qualcuno impossibile».