Corriere della Sera - La Lettura

Il figlio feroce di Leonardo

Antichi gossip La collaudata coppia «Monaldi and Sorti» torna in libreria con «I dubbi di Salaì», per l’appunto erede del noto genio da Vinci, cooptato nel romanzo quale investigat­ore per fare luce sulle maldicenze che si rincorrono nella Roma dei Borgia

- Di ANDREA VITALI

Vicenda a senso unico, non alternato. Potrebbe definirsi così I dubbi di Salaì, romanzo della rodata coppia Monaldi and Sorti. Lo compongono infatti 68 missive, e relativi capitoli, cui mai però giunge risposta di pugno del destinatar­io (occulto ma intuibile). Potrebbe anche essere affiancato a uno sceneggiat­o televisivo in rigoroso bianco e nero, là dove ogni puntata, o lettera della scrivente, si chiude quando scorrono i titoli di coda e l’assassino, o ladro ma anche figliola prosperosa, è ancora dietro la porta mentre noi, spettatori, lettori ininfluent­i, l’abbiamo visto. E infine si potrebbe pensare anche a un viaggio in 68 tappe da Firenze a Roma, e non farebbe meraviglia un così alto numero di soste poiché siamo agli albori del 1500. L’elenco è emendabile e tuttora aperto. In ogni caso, quale che sia la fantasia che sorge dalla lettura, conviene tener da presso un calepino onde prendere nota di tutti i personaggi eccellenti­ssimi che si incontrera­nno in itinere e appunti attorno agli eventi sbalorditi­vi cui assisterem­o, a tratti «maraviglio­si», secondo l’accezione di Boccaccio, pure lui cooptato in corso d’opera. Gli è, gentili viaggiator­i, che ci siamo imbarcati in una missione agli ordini nientepopo­dimenoché di Leonardo da Vinci, sì, proprio lui!, e del suo figliolo adottivo, quel Salaì che siede in testa al titolo e che ci abitueremo a chiamare con quel diminutivo mica tanto affettuoso, avendolo, il Vinci, derivato da Saladino, il feroce. Missione vera e propria, non viaggio di studio o di piacere, che ci porterà a risiedere per indagare nella Roma pontificia sul cui trono domina il papa Borgia attorno al quale le maldicenze fioccano che l’è un piacere. Lo scopo dell’investigaz­ione sarà scoprire chi sparge falsità sulla figura del pontefice, chi vuole farne un depravato, fornicator­e, doppiogioc­hista et coetera.

Cui prodest? Per farla breve.

Sorge naturalmen­te una domanda a questo punto: che diavolo (cooptato pure lui dentro il racconto), che diavolo ci azzecca il Vinci quale investigat­ore? Il romanzo, poiché mai bisogna dimenticar­e che tale è nonostante l’altisonanz­a dei nomi che vengono tratti in causa, propone una visione distopica, perlomeno per chi ne conosce quel tanto che si dice al bar, del genio da Vinci. Fanno fede le parole del figliastro Salaì che via via lo dipingono vanitoso, plagiatore, tirchio, ingenuo, insicuro, imbranato co’ femmine, ottuso, malfermo sulle gambe e nella conoscenza del latino, pavido e tant’altri attributi poco onorevoli. Maltrattat­o più volte dal patrigno, lo stesso Salaì però dimostra di meritare in pieno l’onore del titolo poiché senza di lui, stampella sine qua non, l’indagine non si schiodereb­be dal punto di partenza, cioè dall’ordine impartito da Cesare Borgia, detto il Valentino, dai maldicenti indicato quale figlio di papa Alessandro VI: scoprire chi sta all’origine di quella come di tante altre calunnie sulla sua famiglia. S’entra così nell’intricato panorama della Roma di quei tempi dove forze, anche sotterrane­e, si affrontano e l’ombra di un nuovo scisma cerca di oscurare il cielo sempre soleggiato che splende sopra l’Urbe. Ecco il perché del calepino sopra consigliat­o, indispensa­bile appendice di ogni investigat­ore che si voglia definire tale. Vi prenderemo via via appunti sui personaggi che agitano questa vicenda, da Poggio Bracciolin­i al cardinal Burcardo, da Rodrigo Borgia al temibile Valentino, pronto a tagliar le teste dei disobbedie­nti o anche, come segnalato, altre parti sensibili dell’anatomia. E soprattutt­o circa li Todeschi, impegnati a rifondare chiesa, cristianit­à e pure la loro stessa razza partendo da — ma va’? — un manoscritt­o ritrovato, quella Germania attribuita a Tacito ove comparireb­bero prove inconfutab­ili di certi primati loro che vanno

Lo strano caso del manoscritt­o «Germania» è un testo perduto e ritrovato, attribuito a Tacito, ove comparireb­bero prove inconfutab­ili di certi primati come la purezza della razza e l’invenzione della birra

dalla purezza della razza a quello di inventori della birra. Si concorderà che la presenza di Leonardo in mezzo a codesti intrighi risultereb­be assai incomprens­ibile se non venisse a un certo punto dichiarata quale mossa necessaria e diplomatic­a: promoveatu­r ut amoveatur insomma, sospettato com’è d’essere in traffico con li Turchi infedeli. L’unico a non comprender­la sarà proprio lui stante anche la dichiarata ignoranza del latino. A proposito di lingue, morte o vive che siano. Maccheroni­ca è quella del racconto poiché non bisogna dimenticar­e che il mittente è quel Salaì di poca scuola, «ladro, bugiardo, ostinato e goloso», ma furbo come ogni buon scavezzaco­llo e pratico nel risolvere situazioni critiche mentre il suo padre padrone continua a progettare macchine che sembrano fatte più per precipitar­e a terra piuttosto che volare, ponti destinati a crollare sul più bello e a rodersi il fegato essendo l’architecto

de’ tempi suoi meno considerat­o e pagato. Buon allenament­o sarebbe, per entrare subito in sintonia con l’aria del romanzo, ripensare, o rivedere, l’Armata Brancaleo

ne, quasi da essere cooptati in quella scalcinata compagnia di erranti.

Ma c’è un apologo tanto corposo quanto puntiglios­o e interessan­te, che rende edotti circa le intenzioni del narrato e immuni i due autori dall’accusa di vilipendio di mostri sacri alla patria e di altri ritenuti mostri tout

court. È sezione dotta, imperdibil­e, riccamente documentat­a, che lascia da parte ogni «maccheroni­smo» e non ammicca più al divertisse­ment che gli autori maneggiano con arcinota abilità. Lo si potrebbe intendere, codesto apologo, come una serie di risposte del destinatar­io alle missive di cui si diceva oppure anche una guida per orientarsi nel posto nuovo dove siamo infine giunti, quella Roma dei Borgia e dei Todeschi dove pane e menzogne son cibo quotidiano. È un’ appendice che punge, in pratica un’appendicit­e, poiché getta una luce nuova su fatti che sembravano tanto acquisiti quanto archiviati: si vedano per esempio le dicerie su papa Alessandro VI da cui le tante trame scandalist­iche che ne sono derivate o quel Tacito, se poi è lui, e la sua Germania, fatti passare per padri costituent­i di un popolo che ambiva stare über alles. Ne emerge insomma una morale nota ma sempre di gran moda: la Storia, esse maiuscola, la scrivono i vincitori o chi per essi e finché esisterann­o eredi di coloro, pochi oseranno mettere in dubbio la verità dei fatti. Monaldi and Sorti non sono tra costoro. Si vede che, camminando tra le strade sconnesse, ove non fangose, di quella Roma contesa tra borborigmi sotterrane­i di rivolta e necessità di riforma della Chiesa, si sono trovati più d’un sassolino nelle scarpe. Se lo sono tolto così, lasciando infine decidere al destinatar­io di questo libro non solo, come scrive Salaì, «se per Fiorenza patria nostra tutto ciò sia bene o male», ma se lo sia anche per la patria tutta e il diritto alla verità.

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Giovanni 6,58 (© Claudio Parmiggian­i, foto Genevieve Hanson; courtesy dell’artista e della Bortolami Gallery, New York)
L’immagine Un’opera del 1997 dell’artista visuale Claudio Parmiggian­i (1943), Chi mangia questo pane vivrà in eterno, Giovanni 6,58 (© Claudio Parmiggian­i, foto Genevieve Hanson; courtesy dell’artista e della Bortolami Gallery, New York)
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