Corriere della Sera - La Lettura
Jasper Johns La mia pittura è una resa
Un catalogo in cinque volumi con la sua produzione, un’antologica a Londra Il lungo silenzio di un gigante del Novecento interrotto con tre testi per «la Lettura»
Essere reticenti. Una virtù oggi inattuale. Per qualcuno, un’attitudine naturale. Per tanti, un’inclinazione che si conquista nel tempo, con fatica e difficoltà. Una meta che la maggior parte degli artisti di oggi tende a eludere, privilegiando i riti di una mondanità fatta di feste e di inaugurazioni di mostre, testimoni di un’epoca dominata dal bisogno di essere sempre «presenti», perennemente connessi e accessibili. Pochi hanno la forza di sottrarsi a queste consuetudini. Jasper Johns, ad esempio. La sua parabola esistenziale e poetica potrebbe essere letta nel segno del refrain che ripete Bartleby, lo scrivano protagonista del celebre racconto di Melville: « I would prefer not », preferirei di no. Lo storico dell’arte Harold Rosenberg lo ha descritto come una figura «astratta e dignitosa». Non troppo diverso da William S. Hart, lo sceriffo dalla maschera impassibile dei western: taciturno, distaccato, «la faccia lunga e piatta, da giocatore di poker, le labbra sottili e gli occhi vigili».
Nella vita e nell’arte, il padre del New Dada ha scelto progressivamente di uscire dal mondo, rifugiandosi nelle regioni della discrezione e dell’afasia. Pur avendo avuto intense frequentazioni con le avanguardie statunitensi del secondo dopoguerra, ha ritagliato per sé una posizione di assoluta autonomia, sordo al brusio del sistema dell’arte. Negli anni, si è sempre più isolato, nascondendosi — dal 1995 — in una tenuta del Connecticut, dove lavora quasi clandestinamente. Nella convinzione che, mentre la luce acceca, l’ombra rigenera. L’assenza, il suo destino.
Solo in rare occasioni questo eremita di 87 anni ha interrotto la sua cerimonia del silenzio. Sempre controvoglia. Nel 2014 ha esposto una recente serie di tele, Regrets, al Moma di New York. Tre anni dopo torna a farsi «vedere». Il Wildenstein Plattner Institute ha appena pubblicato il Catalogue Raisonée of Painting and Sculpture (curato da Roberta Bernstein). Inoltre, la Royal Academy di Londra prepara per il prossimo 23 settembre una grande antologica, Something Resembling Truth, dove verranno presentate circa 150 opere (quadri, sculture, disegni e stampe).
Si tratta di due appuntamenti che ci hanno spinto qualche mese fa a inviare una email a Johns, chiedendogli di rispondere ad alcune domande. La replica è stata cortese e disponibile. Un piccolo evento. Che si rinnova. Johns — si sa — è tra gli artisti oggi meno raggiungibili. Da decenni si sottrae a ogni tentazione mediatica. Con il «Corriere della Sera» e con «la Lettura», negli scorsi anni, ha fatto un’eccezione, concedendo due intervisteconversazioni in cui si è raccontato con generosità (12 aprile 2011 e 21 febbraio 2016).
Dapprima abbiamo approntato alcune domande, collegandole ai principali cicli pittorici di Johns, la cui ri-
Soltanto in rare occasioni questo eremita di 87 anni, padre del New Dada, si è sottratto alla regola del ritiro. Con grande discrezione
sposta è stata tranchant: «Non parlo di quadri, né di teorie». Un’affermazione piuttosto inattesa se a pronunciala è un artista colto e raffinato, autore di impegnativi saggi teorici (raccolti nel 1996 in Writings, Sketchbook
Notes, Interviews). Qualche giorno dopo abbiamo riprovato, inoltrando alcune domande più aperte. A sorpresa, Johns dopo circa un mese ci ha inviato, in momenti diversi, tre testi, nei quali ha parlato della genesi — da lui seguita con partecipe distanza — del Catalogue
Raisonée e del progetto della mostra londinese. Ma soprattutto ha riattraversato le ragioni sottese alla sua ricerca in una sequenza di preziosi aforismi. Muovendo dal rifiuto di ogni teoria estetica: «Preferisco concentrarmi su dati di fatto. Non desidero affrontare questioni interpretative. Non so come produrre pensieri. (…) Si lavora senza pensare a come lavorare. Il pittore si limita a fare quadri senza una ragione cosciente».
Si tratta di una ricerca che — anch’essa — è governata da ritrosia e da riservatezza: dalla necessità di non-dire troppo. Abitata da frammenti che si stagliano con potenza e, insieme, sembrano nascondersi, ritrarsi. Disegnando i contorni di un realismo visionario, denso di echi espressionisti e dadaisti.
Johns si pone innanzitutto in una posizione inquieta rispetto alle intenzioni dei protagonisti dell’Espressionismo astratto, con i quali condivide alcuni artifici: movimenti impulsivi della mano, impasti pesanti, contorni esasperati, pennellate larghe, sgocciolature, strisce verticali, ritagli di giornali impastati nel pigmento. Ma mentre Pollock e de Kooning intendono la loro pratica come viaggio nel sottosuolo dell’io — drammatizzazione del vissuto, cartografia psichica — egli va oltre ogni soggettivismo, cui contrappone un «oggettivismo» radicale. Esclusa ogni assonanza autobiografica («Nel mio lavoro ho cercato di nascondere la mia personalità, il mio stato d’animo, le mie emozioni»), Johns elabora un’iconografia immanente, ancorata al prelievo di cose appartenenti all’immaginario comune o estratte da un microcosmo privato: bandiere, carte geografiche, bersagli, ma anche fotografie, scope, attaccapanni, tazze da caffè. Oggetti di uso quotidiano che vengono assunti e, poi, resi ignoti. Johns li esplora con ostinazione; li sottopone a riarticolazioni; li parafrasa; li monumentalizza; li rimodula in metafore liriche; fino a far emergere «l’ultima briciola di significato» (come ha ricordato Barbara Rose).
Decisivo il recupero di alcuni stratagemmi d’impronta dadaista. Attento lettore di Wittgenstein, Johns condivide con Duchamp l’idea dell’arte come attività speculativa, filosofica, impassibile e distaccata, indifferente a ogni abbandono psicologico. Ma, a differenza del padre del Dadaismo, non rimane de n t r o un a pr o s p e t t i va «distruttiva». Assegna una nuova centralità alla disciplina della pittura: calibra piani, definisce contrasti tonali. Per un verso, Johns reinventa con originalità la tradizione della natura morta. Per un altro verso, trasforma in immagine dipinta l’idea di un determinato oggetto (le bandiere, i ber sa g l i ) , se r ve ndosi di una tecnica antica come quella dell’encausto. Per un altro verso ancora, inuma pennelli o lattine di birra sotto strati di colore, attribuendo così spessore alle superfici. Sembra dirci: questa cosa non è solo una cosa.
Simile a un «compositore medioevale di acrostici, costruttore di strutture persino quando costruisce con il fango» (ancora Rosenberg), Johns ci consegna feticci. Ma, se li osserviamo con calma, capiamo che bersagli, bandiere e mappe sono (innanzitutto) geometrie. Costruzioni lineari sapientemente calcolate, dotate della medesima austera semplicità che ritroviamo nei quadri di Rothko o di Newman. Le pennellate sono organizzate in righe o in cerchi. La bandiera degli Usa è un rettangolo, che contiene un altro rettangolo; il bersaglio è un tondo che racchiude altri tondi; i decimali e le lettere dell’alfabeto — sempre al centro delle tele — si articolano in curve, linee e angoli. Si respira il senso della misura.
È qui la sottigliezza di Johns, che sembra ordire sofisticati giochi di prestigio. Sistemi visivi difficili da decifrare, le sue opere tendono a indicare una distanza dal mondo: non per allontanarsene, ma per metterlo in prospettiva e comprenderlo meglio. Proprio come fa il reticente Bartleby-Johns nella vita. «La dichiarazione finale non deve essere un’affermazione, ma piuttosto una resa. Deve essere quello che non si può evitare di dire».