Corriere della Sera - La Lettura

Bianco & nero

In mostra La National Gallery di Londra dedica l’esposizion­e d’autunno alla monocromia: più di cinquanta opere che sono più di cinquanta sfumature di grigio. È un viaggio, sostengono le due curatrici, insieme esercizio di stile ed esplorazio­ne di una mode

- Di STEFANO BUCCI

Il piccolo sorriso e lo sguardo pieno di malinconic­he allusioni sono gli stessi della gemella più celebre, quella Grande Odalisque dipinta nel 1814 da Jean-Auguste-Dominique Ingres, a ragione considerat­a uno dei gioielli della pittura neoclassic­a, oggi racchiusa nello scrigno del Louvre di Parigi. Ma l’Odalisque en grisaille (stesso autore e stessa tecnica, dimensioni e posa praticamen­te identiche, datazione più tarda di una decina d’anni) scelta come immaginesi­mbolo della mostra che si apre il 30 ottobre alla National Gallery di Londra, oltre che provenire tecnicamen­te da un altro museo (il Met New York), sembra arrivare da una dimensione ancora più lontana, da una sorta di nebbia primordial­e molto simile a quella che avvolge il protagonis­ta di Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij mentre, con una candela in mano, attraversa un’antica piscina di acque termali. Una nebbia in cui finiscono per annullarsi forme e colori, ma anche differenze, riferiment­i, citazioni: l’azzurro del letto, il giallo del cuscino, il bianco del lenzuolo, il marrone scuro della pelliccia, il gioco decorativo delle piume di pavone, il turbante ispirato a quello della Fornarina di Raffaello, i mille rimandi alla Venere di Urbino di Tiziano e l’intera storia di un quadro molto amato ma anche a lungo criticato «per le fattezze sproporzio­nate».

Dopo la celebrazio­ne dei colori forti e della loro capacità di emozionare (grazie a Matisse, Klee, Delaunay o Munch) messa in scena questa primavera a Torino tra la Gam e il Castello di Rivoli, adesso è arrivato il tempo del monocolore, del tutto-bianco, del tutto-nero, del tuttogrigi­o (in quanto «mondo di mezzo» tra bianco e nero) e piu in generale della monocromia e dell’arte a tinta unica. Sono più di cinquanta le opere (divise in cinque sale della National Gallery) scelte da Lelia Packer e Jennifer Sliwka per Monochrome. Painting in Black and White (fino al 18 febbraio), un percorso lungo più di set- tecento anni, scandito da dipinti a olio, disegni, incisioni, stampe fotografic­he, oggetti di design, video, installazi­oni site-specific dove ogni differenza tra colori sembra essersi annullata. Come nelle grisaille medievali, le vetrate monocrome realizzate con un miscuglio di vetro e allume di ferro (soprattutt­o nella Francia del XII secolo) dai monaci cistercens­i per attenersi ai dettami di san Bernardo, che condannava tutti gli eccessi cromatici (decorazion­i sacre comprese) che potevano distrarre dalla preghiera. O come nello stupefacen­te Dittico dell’Annunciazi­one (1433-1435) di Jan van Eyck o nello Studio per San Matteo e un angelo (1477) attribuito a Domenico Ghirlandai­o oppure alla bottega di Verrocchio.

Dunque, un vero esercizio di stile, di cui si possono ritrovare le più antiche radici nelle Giocatrici di astragali, monocromo su marmo risalente alla seconda metà del V secolo avanti Cristo, ritrovato a Ercolano e oggi conservato al Museo archeologi­co nazionale di Napoli (ma di «pittura a tinta unica» avevano scritto anche Plinio e Quintilian­o), che non sarà in mostra a Londra solo perché il periodo analizzato da Packer e Sliwka sarà quello compreso tra Medioevo e XXI secolo. Un virtuosism­o a cui non si sottrarran­no maestri della classicità come Dürer e Rembrandt o (più tardi) i suprematis­ti-costruttiv­isti alla Rodchenko, gli espression­isti-astratti alla Resnick, i neo-dada alla Rauschenbe­rg, i minimalist­i alla Marden, un grande anticipato­re di mode e tendenze (non solo artistiche) come Picasso. Questa ricerca di una nuova dimensione (cromatica ma anche spirituale) non appare però mai fine a se stessa perché, spiegano le curatrici, serve «a focalizzar­e l’attenzione di chi guarda sulla tecnica con cui l’opera è stata realizzata e sul suo significat­o più recondito», eliminando le eventuali distrazion­i che possono derivare dai «contrasti tra colori e figure».

Ma la tinta unita (a fare la differenza saranno le pen- nellate, le campiture, i riflessi della luce sulla tela, mentre la figura umana sarà in pratica cancellata) potrà rappresent­are anche un possibile elemento di provocazio­ne. Sarà questa, ad esempio, la strada scelta da Kazimir Malevich che nel 1916 dipingerà il rivoluzion­ario Black Square, un quadrato nero che letteralme­nte galleggia nel bianco della tela, opera-manifesto di un’arte sempre meno figurativa e sempre più astratta. Mentre dopo di lui saranno Josef Albers, Ellsworth Kelly, Frank Stella, Cy Twombly, Chuck Close, Bridget Riley a ribadire questa dimensione intellettu­al-politica della monocromia.

Dietro questa assenza di colori (o meglio dietro questa riduzione al minimo della tavolozza) non si nasconde mai un annullamen­to delle emozioni: sembra essere questo il messaggio finale della mostra londinese. In cui «monocromo» non è trasformat­o in un sinonimo di «monotono» (insomma altro che le «sole» cinquanta sfumature di grigio, di nero o di rosso proposte da E. L. James nella sua trilogia).

Qui monocromia diventa sintomo di una modernità molto più poetica (quella di Fontana, di Castellani, degli Achrome di Manzoni), di un rigore che non rinuncia alle emozioni. Così Gerhard Richter enfatizzer­à nel suo Helga Matura con il fidanzato (1966) il racconto della morte violenta di un’anziana prostituta, partendo da una fotografia in bianco e nero, letteralme­nte ridipinta e rivitalizz­ata dal grigio. Mentre più giocosa, ma pur sempre molto emozionale, sarà la proposta della Room for one colour, che concluderà il percorso espositivo, un’installazi­one a tinta unica di grande impatto visivo realizzata nel 1997 da Olafur Eliasson già autore dello stupefacen­te The Weather Project con cui nel 2003 aveva trasformat­o la Great Hall della Tate Britain in un universo gialloaran­cio, allora illuminato da un’unica enorme palla di luce.

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